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Autore: Marti Lestrange    03/11/2013    3 recensioni
Shot; Aurora|Hook {Sleeping Hook}
Post-terza stagione; Storybrooke.
Dal testo:
{Non mi è mai importato più di niente, della vecchia me, del passato, del castello, di Aurora prima di Killian. Non mi è mai importato, e invece tu non facevi che darci importanza, a quel mucchio di schifezze. Continuavi a tirare in ballo antiche magagne come se ti sentissi sempre inferiore, sempre impotente, sempre troppo poco all’altezza per me. E io ho sempre cercato di dimenticare - di fartelo dimenticare. La principessa non esiste più, Killian. Ora c’è soltanto Aurora.}
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing | Personaggi: Aurora, Killian Jones/Capitan Uncino
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Questa shot è per Ally e Giulia,
perchè sono state loro - con le loro parole - 
a farmi innamorare dello Sleeping Hook.
Love u, girls <3

 


~
What the water gave me~
 
 
 
“Piangevo così tanto quando te ne sei andato perché sapevo che sarebbe arrivato
questo giorno, il giorno in cui, se ripenso ai tuoi occhi, non me li ricordo più.”
— Susanna Casciani
 
 
 
Te ne sei andato in un giorno di pioggia. L’acqua rigava i vetri e il cielo piangeva, forse come avvisaglia di quello che sarebbe successo.
La sera prima eravamo andati a letto e tutto mi era sembrato strano, come sospeso. Sei arrivato tardi dal lavoro, silenzioso. Hai borbottato qualcosa e ti sei chiuso nella doccia. Io ero ferma immobile dietro la porta del bagno, la schiena contro il legno scuro, e sentivo l’acqua scendere sbattendo sul tuo corpo, un suono che mi ricordava altre sere - e altri giorni. Sentivo il tuo pianto silente anche attraverso la distanza. Anche attraverso quel muro di carne e sapone e dolore che quella sera ti eri costruito attorno. Non so nemmeno perché, poi.
Poggiavo le dita sul pavimento freddo, gli occhi umidi. La mia pelle calda faceva condensa contro le piastrelle, mentre la cena in forno si bruciava lentamente. Non sono mai stata brava in cucina, e hai sempre riso di me, del mio essere buffa, del mio passato da principessa, ingombrante come un macigno e lontano però come un vecchio ricordo arrugginito, abbandonato in un cassetto. Non mi è mai importato più di niente, della vecchia me, del passato, del castello, di Aurora prima di Killian. Non mi è mai importato, e invece tu non facevi che darci importanza, a quel mucchio di schifezze. Continuavi a tirare in ballo antiche magagne come se ti sentissi sempre inferiore, sempre impotente, sempre troppo poco all’altezza per me. E io ho sempre cercato di dimenticare - di fartelo dimenticare. La principessa non esiste più, Killian. Ora c’è soltanto Aurora.
 
Mi sono seduta al tavolo della cucina, aspettandoti. Sei spuntato davanti a me come fai di solito, un asciugamano appuntato alla vita e i capelli scuri zuppi d’acqua. La televisione trasmetteva una replica di un talk show e le risate finte del pubblico rimbombavano contro le strette pareti della stanza - un frigorifero stipato nell’angolo, la cucina sotto la finestra, un tavolino striminzito e quattro sedie.
Ti sei fermato sulla porta, a piedi scalzi, rivoli di acqua ancora mista a sapone ti colavano sul petto e formavano una piccola pozza sul pavimento. Ti ho guardato e sono rimasta in silenzio. Ho semplicemente ricordato tante altre sere come quella, quando sei uscito dalla doccia e mi hai raggiunta in cucina, cogliendomi di sorpresa. Ho semplicemente ricordato tante altre sere come quella, quando mi imprigionavi contro il piano della cucina o il tavolo e facevamo l’amore mentre la cena si raffreddava, ma a nessuno dei due importava di mangiare. Ci bastavamo a vicenda e gli amplessi colmavano i crampi - anche se non la fame. La fame di noi che ci consumava senza tregua - senza respiro.
Quella sera invece sei rimasto lì a guardarmi, le braccia lungo i fianchi, il volto in ombra. E io sono rimasta seduta a guardarti, le braccia incrociate, il volto opaco di chi attende ma senza sapere perché. E che cosa. Forse è questo che abbiamo fatto finora: attendere. Abbiamo atteso che il tempo cancellasse tutto quanto, ma non si può cancellare una vita intera, non quando quello che hai vissuto ti ha reso ciò che sei. Non quando quello che sei diventato è il riflesso di quello che saresti voluto essere.
Lo sapevo che eri arrabbiato, te lo leggevo in faccia ogni santo giorno. Lo sapevo che Storybrooke ti stava stretta, che le ombre si infittivano ogni giorno di più, che la felicità allarmante che aveva contagiato gli altri stava finendo per intossicarti, che la normalità ti stava soffocando, che la vita si faceva banale e stupida e vuota.
Mi dicevi che avevi me, che ti bastavo, che ti sarei bastata sempre. Mi dicevi che non ti importava di niente e di nessuno, l’unica cosa che volevi era stare con me, anche se avevamo pochi soldi, se il tuo lavoro rendeva poco, se le spese erano troppe. Ti bastavo anche in questa piccola casa, con una cucina asfissiante, un salottino microscopico e un bagno solo. Mi portavi in camera da letto e mi sembrava di avere di nuovo un regno tutto mio, sognavo di noi due ogni notte, quando le tue braccia mi cullavano e sentivo il tuo respiro regolare sui miei capelli. Sognavo e costruivo un mondo. Solo quella sera mi sono resa conto che a costruire ero sempre e soltanto io. Tu non hai mai iniziato. Oppure ti sei fermato in corso d’opera, quando la cima ti è apparsa all’improvviso troppo lontana e ti sei lasciato cadere giù, nel baratro.
 
Non mi sono nemmeno resa conto di averti perso, fino a che non ti sei voltato e hai lasciato la cucina, un’ombra inconsistente e impalpabile. E io sono rimasta seduta, ancora e ancora. Il talk show era finito ma nemmeno lo sapevo. Noi eravamo finiti.
 
*
 
La cena è rimasta nel forno. Ho spento la televisione e ho raggiunto barcollando il bagno. Tu eri già a letto, senza aver detto nemmeno una parola. Mi sono infilata nella doccia e ho lasciato che l’acqua mi bagnasse i vestiti, i capelli, il cuore. Si è infilata nell’anima come un acido corrosivo e si è mischiata alle lacrime. Ho cercato di piangere in silenzio, perché la consapevolezza di te dietro quella porta era troppo stancante da sopportare. Saperti così vicino, quando dentro di me eri distante mille miglia. E poi hai aperto la porta, che si è spalancata con un tonfo sordo. Ho intravisto la tua figura attraverso i vetri opachi e appannati della doccia. Quando ho guardato il tuo viso - ombroso, scuro, tormentato - qualcosa si è sciolto nel mio petto e grosse lacrime sono spuntate dagli occhi, cariche di dolore e angoscia e aspettative.
Sei entrato nella doccia con me ed eri già mezzo svestito, l’acqua ti è scivolata semplicemente addosso, sulla tua carne e in mezzo alle dita. Mi hai spinta contro la parete, contro le piastrelle con i fiori che odiavi tanto e hai premuto le tue labbra sulle mie, insistenti e violente. Ho sentito la tua lingua che cercava la mia e tutta l’angoscia riversarsi fuori da te con un alto gemito riecheggiante. Tutto il nero stava uscendo dalla tua anima e mi arrivava addosso a ondate, mentre le tue mani, bramose, cercavano la mia pelle e scivolavano sull’acqua, prendendosi tutto quello che volevano senza nemmeno chiedere il permesso. È così che hai sempre fatto: ti sei preso tutto, di me, ancora e ancora, fino a che non sono diventata una carcassa di sentimenti e dolori, fino a che il mio cuore si è incrinato. È così che ho sempre fatto: ti ho sempre dato tutto, e mai una volta ho pensato fosse ingiusto ed egoista e doloroso come un coltello piantato nella carne. Ti ho sempre dato tutto perché ti ho sempre voluto, e tu hai sempre voluto me, senza sconti e scorciatoie. Abbiamo accettato l’uno la parte oscura dell’altra, in un ciclo senza fine di notti insonni a cercarci e mattine opache di risvegli assetati. E in quel momento ti avrei consegnato anche il mio cuore, ancora pulsante e rosso, adagiato su un piatto, pur di trattenerti tra le mie braccia ancora un po’. Pur di non vederti scivolare via da me.
 
Mi hai sollevato, le mie gambe intorno alla tua vita, l’acqua che continuava a cadere, le tue dita contro di me - dentro di me. Sarei voluta rimanere ferma in quell’attimo per sempre, ti avrei voluto dentro di me fino a quando non mi sarei addormentata, fino a quando l’acqua non mi avrebbe annegata. I tuoi affondi violenti erano come un battere di tamburi in battaglia, come il tam-tam ritmico e infernale della giungla, come il suono di migliaia di cavalli nel deserto - come la mia schiena che batteva contro la parete, come i lividi che si stavano formando sotto le tue dita che premevano contro la mia pelle, come i graffi delle mie unghie sulle tue spalle. E, mentre affondavi dentro di me, io naufragavo dentro me stessa, e tutto il resto perdeva piano piano consistenza e importanza. Il mondo diventava futile. Respirare era diventata un’azione accessoria. Amarti era come vivere – ed ero ubriaca di te, fradicia di acqua e lacrime. Di noi.
 
 
*
 
 
La mattina dopo, il materasso accanto a me era freddo. Ti ho cercato allungando un braccio, ma già sapevo che al tuo posto avrei trovato il nulla, il tuo profumo che ancora impregnava la mia pelle.
Mi hai tenuta stretta a te tutta la notte. Ero incastrata tra le tue braccia forti, incuneata dentro di te, circondata dal tuo corpo. Eri stato dentro di me e continuavi a stare tutto intorno a me, senza lasciarmi mai. Almeno per quella notte.
Io ti tenevo stretto, aggrappata alle tue braccia. E sapevo – sapevo fortemente – che l’alba sarebbe arrivata e con lei la fine di qualcosa. Se non di noi, di quello che eravamo stati. E di quello che avevamo sognato di essere.
Sono scesa barcollando dal letto e sentivo freddo nei punti in cui prima c’eri tu, nei lembi di pelle esposti all’aria e alla tua mancanza. Ti ho trovato nel piccolo ingressino, il cappotto già addosso e uno zaino buttato sulla spalla. Ti sei voltato, gli occhi sbarrati, spaventati, come braccati. Pensavi forse di andartene via così? Pensavi che non me ne sarei accorta? Pensavi che dopo quella notte sarebbe stato più facile? Solo perché anche tu eri ubriaco di me?
« Cosa stai facendo? » ti ho chiesto, le braccia lungo i fianchi, impotente.
« Lo sai cosa sto facendo » hai risposto, scrollando le spalle. « Mi dispiace, Aurora. »
« Non vado più bene per te? Eh? Dillo, ci posso convivere. Posso capirlo. Posso andare avanti pensando soltanto che è stata colpa mia, che non sono stata abbastanza giusta, che non sono stata abbastanza e basta. »
Hai scosso la testa, le mani in tasca. La mano, in tasca. L’unica che ti rimaneva.
« Non è colpa tua. Non è per te… »
« Ecco, non è per me. Perfetto » ho esclamato. « E adesso spiegami perché, allora. »
« Non posso più stare qui. Non adesso. Mi manca tutto quello che ho perso, lo capisci? Mi manca il vecchio Killian, quello dei viaggi in mare aperto e delle avventure pericolose. Mi manca l’imprevisto e l’ignoto… »
« E io non ti basto più » ho concluso per te, annuendo.
Mi hai guardata in silenzio. Un silenzio che mi stava tagliando in due, come un pezzo di carne da macello, rossa e grondante sangue.
« Io ti amo, Aurora » hai detto, lanciando la bomba che mi avrebbe fatta a pezzi. « Ti amo,  ma devo andare. Mi dispiace. »
Ti sei voltato e calde lacrime hanno cominciato a scendere sulle mie guance, spesse e palpabili. Le sentivo scavarmi la pelle, come fuoco vivo.
« Mi ami ma devi andare? » ho ripetuto, mentre tu abbassavi lo sguardo e ti toccavi il collo, proprio dietro la nuca. Ho sempre adorato questo tuo gesto spiazzante, ma in quel momento riuscivo solo ad odiarlo. Così come sentivo di odiare tutto di te – di odiarti. Allo stesso tempo, però, il mio cuore spezzato urlava che mai e poi mai avrei smesso di amarti, come una maledizione.
« Tornerò » hai detto. « Tornerò, lo prometto. »
« Non fare promesse che non potrai mantenere, Killian Jones » ho esclamato mentre ti giravi e cercavi la porta. L’hai aperta e hai esitato. Non ti sei voltato più. Sei uscito e la porta si è chiusa con un tonfo sordo, l’ultima nota finale della mia messa da requiem.
 
Ho continuato a piangere. Mi sono seduta accanto alla porta della cucina, appoggiata al muro. Ho pianto e pianto, ho consumato tutta me stessa, e dentro di me sapevo che, un giorno, non avrei più ricordato i tuoi occhi, se avessi provato a rammentarli. Un giorno, avrei scordato quell’azzurro e non lo avrei più trovato nemmeno nel cielo. Sapevo che, in fondo, non saresti mai più tornato. Sapevo e allo stesso tempo speravo. Attendevo e ogni giorno, prima di andare a lavoro, osservavo l’imbocco della via, quasi aspettandomi di scorgere la tua alta figura all’orizzonte, il tuo zaino e il tuo sorriso.
 
Forse era quello che facevo sempre, attendere.
E, un giorno, avrei semplicemente smesso. E forse tu saresti tornato a casa.
 
 
 
 
 
NOTE
  • ​il titolo della shot è l'omonima canzone dei Florence and the Machine.

Eccomi qui con questo piccolo esperimento, con un pairing per me mai affrontato prima, cioè lo Sleeping Hook. Che ve ne pare? E' decisamente angst, lo so. E' uscita così di getto, dopo aver letto la citazione. Sta' di fatto che mi sono appassionata a scrivere di Killian e Aurora, non si sa mai che io sforni qualcos'altro... ;-)

Vi lascio il link al mio gruppo Facebook, per chiunque voglia passare a trovarmi:
https://www.facebook.com/groups/159506810913907/


Alla prossima, Marti.


ps qui trovate le due magnifiche autrici citate nella mia dedica:
   
 
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