Una ragazza che fissava
l'interno di un armadio: detta così poteva sembrare l'inizio di un qualche
filmetto sulla mania dello shopping o un documentario sulla vita di Paris
Hilton ma no, nel caso di Gwen era ben altro. Articoli di giornale collegati
tra loro e foto di persone scomparse riempivano il fondo quel mobile,
adattandolo ad un nuovo utilizzo. Era arrivata alla conclusione del caso,
sapeva dove cercare il djinn con cui aveva avuto a che fare in
quei giorni e sapeva anche come ucciderlo. Aveva addirittura avuto il piacere
di scontrarcisi una volta. Scappare in quel caso era stata solo la mossa più
giusta da fare. Senza contare però il fatto che avesse perso l'unica arma
efficace contro quei cosi durante la fuga.
Sconfitta quindi dagli eventi, si vide costretta a chiamare i rinforzi, suo
malgrado. E su chi poteva mai ricadere quest'ardua scelta?
«Ehi Dean, sono io, Gwen, la tua adorata spina nel
fianco. Senti un po', non è che ti trovi, per puro caso, dalle parti di
Owensboro, vero? Sarebbe una bella coincidenza perchè mi servirebbe una mano.
Anzi, in realtà mi servirebbe solo un pugnale d'argento inzuppato nel sangue
d'agnello ma, visto che ti conosco, so che con te o prendo tutto il pacchetto o
non se ne fa niente. Credo di avere un mostro blu alle calcagna e mi servirebbe
davvero quel dannato pugnale quindi fammi sapere, ok? Alloggio al motel nella
Triplett St. Stanza 24. Datti una mossa e vieni a darmi una mano. E ti prego,
cambia il messaggio della segreteria, sembri un morto vivente.»
Semi-risolta la questione dell'arma però non poteva
starsene con le mani in mano ma non poteva nemmeno tornare al covo, non quando
non aveva nulla con cui coprirsi le spalle. Che dannata situazione di merda.
Sbuffò sonoramente, ripose il cellulare in tasca e
richiuse l'anta dell'armadio, incapace di poter stare ferma a fissare un
mucchio di fogli che, ora come ora, non le servivano a un bel niente.
«Sarà meglio ispezionare la zona senza avvicinarmi
troppo.»
Pessima idea. Certo, questo lei non poteva saperlo
ma la sua strada era lastricata di buone intenzioni.
Armata fino ai denti quindi arrivò lungo il confine
segnato sulla sua mappa. Ispezionava il perimetro minimo che circondava il covo
di quel bastardo dai tatuaggi fosforescenti e teneva aguzzato l'udito, sempre e
comunque. Ma si sapeva che i djinn fossero dei grandissimi bastardi dalle
capacità illusorie inimmaginabili.
Gwen si accorse troppo tardi che quel silenzio, per
essere di un bosco così grande come quello in cui si trovava lei, era fin
troppo innaturale. Prima di fare retro-front e tornarsene indietro a grandi
passi, qualcosa le afferrò la spalla. Un grande calore le risalì tutto il
collo, fino ad arrivare ai suoi occhi ormai rovesciati a mostrare l'iride
bianca.
«Signorina
Breakbones, qualcosa nel processo non la convince?» Le risuonò come un lontano
eco una voce che non aveva mai ascoltato prima. «Signorina Breakbones, si sente
bene?» Insisteva la voce con un tono preoccupato quanto referenziale.
Le pupille dei suoi occhi chiari si restrinsero in
un nano secondo, come se fosse appena uscita da chissà quale tunnel mentale.
Aveva dei fogli tra le mani ma non sapeva come ci fossero finiti lì. Aveva
addosso un completo elegante ma sapeva di non averlo mai comprato (o
rubato,meglio ancora). Si trovava in un ufficio e qualche pinguino in giacca e
cravatta conosceva il suo vero cognome.
«N-non... ne sono sicura» balbettò incerta
allontanando la sedia dal tavolo e mollando sulla gigantesca scrivania in vetro
tutte le scartoffie che le avevano tinto di nero i polpastrelli. «Vado un
attimo...» e scomparve dietro la porta, senza nemmeno finire la frase. Si
perquisì tutte le tasche fino a trovare il cellulare e, come al solito, aprì il
registro delle chiamate dove il nome di Dean padroneggiava ripetitivamente.
Quando premette il tasto verde, una segreteria decisamente più allegra rispetto
all'ultima che aveva avuto occasione di ascoltare le risuonò nell'orecchio.
«Ahm... Dean? Vedo che hai seguito il mio consiglio
riguardo la segreteria, il che è un bene, ma... lo so, ok? So che ti sto
rompendo un po' troppo le scatole ultimamente ma credimi, ho DAVVERO bisogno
che tu venga a prendermi ADESSO. Credo di essere... a lavoro.»
Dean era seduto davanti al bancone di un bar. Indossava il
classico elegante completo nero, e giocherellava con un bicchiere di vetro
colmo fino all'orlo di un liquido color oro intenso. Accanto a lui, una ragazza
che aveva conosciuto relativamente dapochissimo tempo, lo osservava con un
sorriso ebete stampato sulla faccia, ammaliata dal suo fascino.
« E così lavori per l'FBI... » disse dopo aver
vuotato il proprio bicchiere. « Deve essere frustrante ».
« Lo è » confermò Dean, annuendo. « Ma è quello che
faccio e... be', mi piace il mio lavoro ».
« Si vede. Hai un'aria così autoritaria! » osservò
la donna, lasciandosi versare dal barman un altro po' di whisky nel bicchiere.
« Devi essere molto bravo ».
« Sono bravo in molte altre cose » le confessò,
voltandosi a guardarla con uno sguardo penetrante. Si fissarono per molto
tempo, interminabili secondi. Poi Valery, così aveva detto di chiamarsi, si
mordicchiò il labbro e fece un altro sorso dal suo drink. Si schiarì la gola e,
lentamente, avvicinò le labbra all'orecchio di Dean.
« Che ne dici di mostrarmi in cos'altro sei bravo in
un altro posto? Per esempio... la mia camera da letto » sussurrò con voce calda
e maliziosa.
« Mi piacerebbe molto » mormorò, arretrando la testa
di qualche centimetro, la distanza giusta per poterla guardare negli occhi
neri. Era davvero una bellissima donna, l'aveva notata da subito, non appena
varcò la soglia di quel locale: Se ne stava seduta ad un tavolo infondo in
compagnia di amiche, colleghe di lavoro. Valery Williams era una pediatra e
stava festeggiando l'apertura della sua clinica. Dean la osservò per molto
tempo, affascinato da quei lineamenti raffinati: quel corpo perfetto sul quale
aveva fantasticato senza un minimo di pudore; quel vestito attillato che
lasciava benissimo intravedere la schiena fino appena sopra l'osso sacro;
quegli occhi neri da cerbiatta, lo sguardo furbo e provocante; quella bocca
perfetta che l'aveva portato a pensare alle più perverse fantasie...
« Casa dolce casa » annunciò Valery, spalancando la
porta di un modesto appartamento dove l'ordine sembrava regnare sovrano. Dean
si guardò distrattamente attorno e annuì, gli angoli delle labbra piegati verso
il basso.
« È carina, molto accogliente » commentò.
Valery ridacchiò, gli si avvicinò, ondeggiando sui
tacchi alti, e gli si fermò a pochi centimetri di distanza. Gli circondò il
collo con le braccia e lo baciò. Dean ovviamente ricambiò senza pensarci due
volte. Sfilò le mani dalle tasche e le accarezzò la schiena, intensificando
quel contatto fisico ancora di più. D'un tratto il suo cellulare cominciò a
squillare e i due si separarono quasi immediatamente. Dean sospirò e tirò fuori
l'aggeggio dalla tasca interna della giacca: sul display il nome ''Sam''
lampeggiava velocemente.
« Devi rispondere? » domandò Valery speranzosa.
Dean le lanciò uno sguardo, poi spense il cellulare
e lasciò partire la segreteria, « no » rispose con un sorriso sghembo, al quale
Valery non riuscì a resistere nemmeno un secondo in più.
« Winchester!
» esordì una voce alle sue spalle, una voce che conosceva benissimo e da molto
tempo. Dean aggrottò la fronte, abbandonò i suoi attrezzi sul pavimento e si
spinse col carrello fino a sbucare fuori da sotto l'auto che stava aggiustando.
« Bobby! » esclamò euforico, ed entrambi sorrisero
felici di rivedersi. Il vecchio lo aiuto ad alzarsi, lo strinse in un abbraccio
affettuoso e gli diede una pacca sulla spalla ricca di fierezza.
« Sono contento di vederti, ragazzo » confessò
l'uomo, sistemandosi il berretto sulla testa. « Guardati! Sei identico a tua
madre, la copia esatta di Mary ».
Dean sorrise, annuendo alle parole di Bobby, «
grazie » disse. « Allora, come te la passi? Ho saputo che hai restaurato la tua
vecchia officina » aggiunse, pulendosi le mani sporche sulla tuta da meccanico
che indossava, anch'essa sporca di grasso e polvere.
« Be', sì. Devo dire che quel lavoro ha dato i suoi
frutti. Sam come sta? »
« Oh, lui... lui sta bene. Si sposerà con Jessica
tra qualche mese» rispose Dean, facendo un sorriso.
« Ho saputo. Vorrà dire John avrà un nipotino da
viziare tra qualche anno » ridacchiò Bobby. « A proposito, come sta? »
« Sta bene. Perché non... sì, insomma, perché non
vai da lui e cerchi di chiarire la situazione? Sì, è vero, papà ha i suoi
momenti d'ira, però-»
« Dean » lo interruppe il vecchio. « Sono qui per
questo, ragazzo. Sono stanco di dover stare lontano dalle persone che amo ».
Si guardarono per un lungo istante, poi entrambi
sorrisero. Il telefono di Dean prese a squillare improvvisamente: il nome
''Gwen'' lampeggiava minaccioso sullo schermo. Per un momento il ragazzo
immaginò la faccia di quest'ultima urlargli di rispondere urgentemente alla
telefonata. A stento trattenne una risata, ma lasciò comunque partire la
segreteria.
« È lei? » chiese Bobby allegro.
Dean annuì, « mi farà diventare matto », disse,
ridacchiando poi insieme a Bobby.
« Be', sarà meglio che vada. Ti lascio lavorare,
figliolo ».
Quando Dean finì di aggiustare l'auto, qualche
minuto più tardi, ascoltò il messaggio di Gwen nella segreteria. Dal suo tono
di voce capì che c'era qualcosa che non andava, così non ci pensò due volte: si
mise a bordo della sua vecchia e scassata Impala e raggiunse lo studio legale
dove lavorava la ragazza. L'avrebbe ammazzato per aver varcato la soglia
dell'edificio vestito in quel modo, ma, come lei sapeva benissimo, Dean era
solito agire secondo la propria testa. Prese l'ascensore insieme ad un gruppo
di signori in giacca e cravatta con tanto di ventiquattrore in una mano; cercò
di evitare il loro sguardo ostinato e disgustato, anche se si sentiva comunque
a disagio. Quando raggiunse il tredicesimo piano -finalmente- si ritrovò nel
lungo corridoio affiancato da enormi e lucide finestre trasparenti.
« Gwen! » esclamò dopo averla adocchiata. Le si
avvicinò a passo svelto, accigliato e preoccupato. « Ho appena ascoltato il tuo
messaggio. Che succede? Non ti senti bene? »
Tutto le sembrava troppo...
troppo. Il cielo troppo azzurro, il corridoio troppo lungo e con troppe
vetrate, il pavimento troppo lucido, i dipendenti troppo allegri, il vestito
troppo stirato, le scarpe troppo eleganti, le unghie e i capelli troppo curati,
addirittura anche l'aria le sembrava troppo pulita. E quel "troppo"
le stava facendo venire un'ansia non indifferente.
Misurava il corridoio a grandi passi, grandi relativamente parlando visto che
ai piedi aveva un tacco 12 che avrebbe fatto venire le vertigini ad un
equilibrista. Grazie a Dio aver avuto a che fare con quel locale burlesque le
aveva donato delle caviglie di ferro. Il suo sguardo era perso nel suo stesso
riflesso nella vetrata, impeccabile come non lo era mai stato, neanche quando
aveva finto di essere l'agente di chissà quale importante cooperativa
nazionale.
Quando il suo nome riecheggiò -fin troppo violentemente, anche in questo caso-
lungo le pareti bianche di quello che sembrava uno studio legale o giù di lì,
distolse lo sguardo.
«Oh Dio, grazie!» Mormorò alzando gli occhi al cielo con un'espressione di
immensa gratitudine mentre gli andava incontro, seguita dagli sguardi fuggenti
dei suoi colleghi al di là della porta in vetro appena varcata dalla Gwen di
classe.
Nonostante la situazione totalmente confusionaria però la prima cosa che le
venne da chiedergli fu piuttosto tipico di lei.
«Come ti sei vestito?» E l'espressione di Dean sembrò celare un "sapevo
che l'avresti detto" o un "sei sempre la solita". «Comunque, non
importa. Io sto... sto bene, credo. Ma -sul serio- una tuta da meccanico? Che
diavolo...? D'accordo, sto divagando.» E lo stava facendo sul serio. Poco
importava se quella tuta fosse sporca o se Dean sembrasse ancora più attraente
se unto di olio per motori. «Dean, che cosa ci faccio io qui? Tu sei l'unico
che potrebbe saperlo!» Gesticolò animatamente senza nemmeno accorgersene,
regalando all'intero studio un biglietto per la sua opera teatrale intitolata
"la Breakbones dà di matto". «Ho anche provato ad andarmene da sola
ma la mia macchina non c'è. LA MIA DODGE CHARGER IN QUEI FOTTUTI PARCHEGGI NON
C'È!» E quando si parlava della sua auto tutto perdeva un senso. Ed un volume
della voce. «Dean non ho... non ho nemmeno un'arma addosso.» Questa volta fece
attenzione al tono che usava. Stranamente. «Una pistola, un pugnale, un filo
interdentale per strangolare qualcuno! Non ho niente! Mi sento nuda! Guarda!»
Estrasse una stilografica dal taschino della giacca e la aprì frettolosamente,
in preda ormai ad un attacco psicotico. «Che cosa dovrei farci con questa?
Giocarci all'impiccato? Disegnare i baffi al mio nemico? COSA? Cosa diavolo si
uccide con una penna??»
La smorfia di Dean non sembrò poterle trasmetterle la sicurezza di avere presto
delle risposte anzi, sembrava quasi che l'uomo volesse rinchiuderla in
manicomio.
«E poi -ah, questo è il colmo- guarda lì» lo afferrò per le spalle e lo voltò
verso la porta dietro la quale ormai tutti i dipendenti non facevano che
fissare i due ragazzi. «Lì sopra c'è il mio nome. Quello vero. Cosa mi sono
fumata per poter dare il mio vero nome in pasto a dei piranha vestiti da
pinguini, eh? Perchè c'è il mio dannato nome su quella stramaledettissima
porta??»
«Perchè è il tuo ufficio?»
«Oh certo, è il mio uffi- IL MIO COSA? E chi sono, Ally McBeal??»
«Beh, non proprio. Lei era un avvocato.»
«Che vorrebbe dire "non proprio"?»
«Tu sei un giudice, Gwen.»
Boom, un pugno dritto nello stomaco.
Lei? Un giudice? Lei?? La stessa Gwen che infrangeva le leggi ogni passo che
faceva, adesso era un giudice? E poi come poteva essere un giudice, un
magistrato, con l'età che aveva?
A questa domanda fu felice di rispondere la sua targhetta appesa alla porta
dove, proprio sotto al suo nome, troneggiava l'anno di laurea all'università di
Yale. Yale. La migliore università con corsi di giurisprudenza d'America. E, da
quanto sembrava, si era anche laureata prima del previsto.
«Quindi sono un genio. L'ho sempre saputo!» Il primo grande sorriso in
quell'incubo. «Io decido chi ha torto e chi ha ragione? Sul serio?»
«Così sembrerebbe.»
«Ok, questo potrebbe andarmi bene» coccolò quasi quell'idea, nel profondo della
sua mente.
Ma quella dolce sensazione non durò a lungo: ecco che il ricordo della sua
amata macchina tornò a tormentarle il cervello.
«Devi portarmi fuori di qui, Dean. Sento che sto per impazzire!»
« D'accordo, d'accordo. Cerca di stare
calma, adesso, okay? » fece Dean, posandole una mano sulla spalla e guardandola
dritto negli occhi. « Respira. Brava così... », annuì e quando si assicurò che
Gwen era abbastanza calma da poter affrontare una conversazione con un tono di
voce adeguatamente basso, fece un piccolo sorriso.
Lanciò un'occhiata alla gente curiosa che si era affacciata sul corridoio per
vedere che diavolo stesse succedendo, e tutti subito si ritirarono nelle
proprie aule. Sembrava quasi che avessero paura di quel ragazzaccio tutto
sporco che aveva a che fare con il giudice in persona. Molti si chiedevano come
mai una donna bella, talentuosa e intelligente come Gwen stesse con un meccanico
come lui. Dean pensava che fosse perché, infondo, erano molto simili e si
compativano a vicenda.
« Hai di nuovo esagerato con la caffeina, non è vero? » disse accigliato, le
labbra arricciate in una smorfia.
« Cosa? » chiese Gwen visibilmente confusa.
« Te l'ho detto cento volte, piccola. Quella roba ti fa male! Ti rende
iperattiva » le ricordò i tono grave.
« Ma di che diavolo stai pa- Un momento... mi hai chiamata Piccola? » domandò
stranita e scioccata insieme. Dean aggrottò la fronte, scrollò le spalle e
annuì.
« Certo. Lo faccio sempre » rispose tranquillo. Gwen lo fissò, le sopracciglia
inarcate e le labbra schiuse, pronte a dire qualcosa che però non pronunciò
mai. Dean ridacchiò dopo aver visto quella buffa espressione. Le circondò le spalle
con un braccio e le diede un bacio sulla testa. « Credo che tu sia un po'
troppo stanca. Troppo lavoro. Adesso torniamo a casa, ordiniamo una pizza e ci
scoliamo due o tre birre ».
« Che cosa? Io non voglio tornare a casa, io non ho una casa! » sbottò Gwen
all'improvviso, divincolandosi dall'abbraccio di Dean. « Rivoglio la mia Dodge
Charger! Adesso! »
« Gwen, tu non hai una Dodge Charger! » esclamò Dean impaziente. « Ma ti sei
fatta una canna, per caso?! »
« Allora?! Qui si lavora, questo è uno studio legale! » urlò una voce infondo
al corridoio: un uomo grasso e tozzo era appena apparso a qualche metro di
distanza da loro, sbraitando e gesticolando animatamente.
« So che cosa sta insinuando Mr. Jenkins! La lasciò sfogliare i suoi
giornaletti porno in santa pace! » ribatté Dean con un sorrisetto di sfida
stampato in faccia, sollevando un pollice in aria verso il grassone.
Si voltò a guardare Gwen e notò con sorpresa uno strano sorriso stampato sulla
faccia: sembrava quasi divertita per la scena alla quale aveva appena
assistito. Dean in realtà si aspettava uno schiaffo o una ramanzina a denti
stretti come faceva ogni volta che Dean prendeva in giro i suoi dipendenti
vestiti da pinguino.
« Che c'è? » domandò, guardandola stranito, ma lei non rispose. La vide
portarsi le mani sul viso e scuote appena la testa. « Ehi, ehi, ehi... tesoro?
Vuoi tornare a casa? » le intimò comprensivo, accarezzandole una guancia con
dolcezza. « Forza, andiamo! Ti farò dei massaggi alla schiena, i tuoi
preferiti, mh? »
Dean scivolò giù dal letto e si rivestì, cercando di fare meno rumore
possibile. Prese le chiavi della sua adorata Impala e si avvicinò a Valery che
dormiva tranquillamente avvolta tra delle lenzuola di seta. Le diede un bacio a
fior di labbra e la donna aprì lentamente gli occhi, sorridendo non appena si
ritrovò il viso di Dean a pochi centimetri di distanza.
« Ciao... » mormorò con voce roca e assonnata.
« Ciao » salutò Dean, sorridendo appena.
« Già te ne vai? »
« Temo di sì, ho molto lavoro da sbrigare » spiegò, drizzandosi sulla schiena e
facendo spallucce. « Mi sono divertito molto stanotte, tu sei... sei stata
fantastica, Valery ».
« Anche tu, agente Marshall... Mi ha fatto piacere conoscerti » confessò la
donna, annuendo con un sorriso un po' malinconico stavolta.
« Dove sei stato? » gli domandò Sam qualche minuto più tardi, quando Dean lo
raggiunse al motel.
« Ho passato una notte da urlo, fratello. Uh! Cavolo... non mi divertivo così
da- »
« Sì, sì, certo. Risparmiami i dettagli » lo interruppe Sam, l'espressione
disgustata stampata sulla faccia. « Ti ho lasciato una miriade di messaggi ».
Dean scrollò le spalle e cominciò a liberarsi di quel maledetto completo
elegante, sfilandosi prima la giacca, poi i pantaloni ed infine la camicia.
Prese il telefono e ascoltò i messaggi che Sam gli aveva lasciato in segreteria
la sera prima: ben sette ramanzine noiose che raccontavano quanto il fratellino
fosse preoccupato della sua assenza.
« Ah, ce n'è un altro... » disse tra sé e sé. « È di Gwen ».
"Ehi Dean, sono io, Gwen, la tua
adorata spina nel fianco. Senti un po', non è che ti trovi, per puro caso,
dalle parti di Owensboro, vero? Sarebbe una bella coincidenza perchè mi
servirebbe una mano. Anzi, in realtà mi servirebbe solo un pugnale d'argento
inzuppato nel sangue d'agnello ma, visto che ti conosco, so che con te o prendo
tutto il pacchetto o non se ne fa niente. Credo di avere un mostro blu alle
calcagna e mi servirebbe davvero quel dannato pugnale quindi fammi sapere, ok?
Alloggio al motel nella Triplett St. Stanza 24. Datti una mossa e vieni a darmi
una mano. E ti prego, cambia il messaggio della segreteria, sembri un morto
vivente."
« Cos'ha che non va il messaggio della mia segreteria? » borbottò con una
smorfia, mentre componeva il numero di Gwen sulla tastiera del telefono. Sam
ridacchiò.
« Quello di Castiel è decisamente più allegro » lo canzonò, ricevendo
un'occhiataccia in risposta.
Dean tirò su col naso, si allontanò di qualche passo mentre aspettava che Gwen
rispondesse alla telefonata, ma dall'altro capo si udì soltanto la voce
registrata della ragazza che lo invitava a lasciare un messaggio.
Tu non hai una Dodge Charger: secondo
pugno nello stomaco. Sentì le budella contorcersi per sì e no un quarto d'ora.
L'aveva chiamata tesoro: questo fu piuttosto imbarazzante. Più che altro era
stato il tono che Dean aveva usato a lasciarla senza parole né insulti
adeguati. E poi c'era quell'assurda questione della casa. Gwen non aveva una
casa, non ne aveva mai avuta una. Lasciò Rocksprings e la casa dei suoi
genitori subito dopo la loro morte e il locale di sua zia Jaqueline era andato
perso già da un paio di anni. Non poteva considerare casa sua nemmeno il suo
bar preferito o il garage di Bobby. C'era la sua auto. Quella era la sua casa e
adesso non c'era più. Poteva andarle peggio di così?
«Vai a farti fottere Jerkis o come diavolo ti chiami!» Ribollì la sua rabbia
fulminando con gli occhi quella specie di nano da giardino in sovrappeso. «E
adesso andiamocene di qui!» E girò i tacchi, chiamando l'ascensore con una
certa aggressività, cosa che manifestò premendo il pulsante una ventina di
volte nel giro di cinque secondi.
Quella volta l'ascensore era vuoto, al contrario di come poteva essere la testa
della bionda in quel momento.
Era davvero possibile che si fosse fumata una canna? O meglio una lunga serie
di canne? O che avesse provato un miscuglio di bevande alcoliche e Dio solo
sapeva cos'altro? Magari uno di quei mix letali che ti facevano risvegliare
accanto ad un bidone della spazzatura e con una sciarpa a fungere da intero
abito.
Non sapeva in cosa sperare, sinceramente.
«Oh, almeno lei c'è ancora!» Le se illuminarono gli occhi al vedere l'Impala
parcheggiata di fronte alla porta d'ingresso di quell'edificio altissimo e a
specchio. Certo, non era ben tenuta come Gwen era abituata a ricordarla ma era
pur sempre lei e le bastava. Senza contare il fatto che le ricordasse così
tanto la sua macchina.
Per tutto il viaggio non fece che accarezzare i sedili e respirare a pieni
polmoni mentre guardava il paesaggio scorrerle accanto con poca nitidezza.
Aveva sul serio bisogno di riposarsi.
Non aveva idea di dove si trovasse, dopotutto aveva viaggiato per tutta
l'America e ricordare ogni singola cittadina era pressoché impossibile.
Quando Dean fermò la vettura, Gwen si voltò a guardarlo, spaesata come un
coniglio lontano dalla propria tana e al quale avevano appena tagliato la zampa
fortunata.
«E questa sarebbe...»
«Sì, si chiama casa e solitamente la gente ci vive dentro.» Brutto momento per
fare ironia, Winchester, avrebbe dovuto saperlo. Ma con quel visetto d'angelo
gli avrebbe perdonato qualsiasi cosa. Davvero strano.
Dall'esterno l'abitazione si presentava in modo molto modesto: niente di
pacchiano o sproporzionato, infondeva solo tanta tranquillità. Non appena
spalancò la porta d'ingresso, un atroce dolore le si radicò sulle tempie
battenti costringendola a strofinarsi la fronte con una mano. Le ci vollero una
manciata di minuti per riprendersi e continuare -o meglio iniziare- il tour della
casa. Fosse stato per lei si sarebbe fermata anche solo all'ingresso: uno
spazioso ambiente padroneggiato da due meravigliosi divani ad angolo e un
tavolino basso in legno, tende dai colori neutri a coprire delle ampie finestre
e un sacco di cornici riempite da ricordi che non riusciva a riportare alla
memoria. Si fece largo lungo la stanza e si precipitò sulla prima serie di foto
che ornavano un mobiletto in legno accanto alla tv al plasma. Figo.
«Campeggio? Sul serio?» Aggrottò la fronte davanti a tale immagine. Questa
raffigurava lei e Dean nel centro circondati poi da altra gente che passò a
focalizzare subito dopo: Sam abbracciava una ragazza bionda dai lineamenti
dolci mentre sua sorella Millicent veniva presa di peso da un ragazzone che era
abbastanza sicura di non aver mai visto in vita sua. Proprio mentre stava per
chiedere chi fossero quei due personaggi mancanti all'appello della sua
memoria, un'altra foto attirò la sua attenzione. Prese la cornice con la punta
delle dita quasi come se avesse timore di poterla sciupare. Eleonor Legrand e
Logan Breakbones ritratti in una foto felici come non l'aveva mai visti. E non
vedeva i loro volti ormai da anni, dal giorno della loro morte insomma. Questo
però non rientrò minimamente nella sfera paranormale. Suo padre Logan lavorava
in banca dove -come si ben sa- le rapine mano armate erano molto frequenti. Fu
questo ad ucciderlo, un colpo di fucile allo stomaco. Anche Eleonor morì nella
stessa tragica circostanza, accanto a suo marito: era una crocerossina allora
e, intenta a salvare o quanto meno ad arginare la ferita da arma da fuoco di
Logan, fu colpita anche lei. Una scena drammatica che Gwen vide al telegiornale
in diretta nazionale.
Ma non in quella vita, evidentemente.
«Quando... dove?» Chiese incerta con un filo di voce a Dean, giunto alle sue
spalle sempre più preoccupato.
«Settimana scorsa, al lago. C'eravamo anche noi insieme ai miei genitori. Non
ti ricordi?»
Avrebbe pagato chissà quanto per poterlo ricordare o vivere davvero.
Due più due quindi, in tutti i sensi. Ogni angolo di quella casa cercava di
dirle che Dean fosse il suo fidanzato: ogni singola foto, ogni lattina
abbandonata sul bancone della cucina e ogni scricchiolante scalino che portava
al piano di sopra.
«Ehi Dean» lo chiamò riposando la foto sul mobiletto per poi appoggiarcisi
sopra «sono ancora in tempo per quel massaggio?»
Non era quella la domanda che avrebbe voluto e dovuto fargli ma si arrese, si
arrese a quella confusionaria quanto pacifica sensazione di casa, di affetto.