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Autore: La figlia di Ade    22/11/2013    1 recensioni
Adelaide ha 15 anni e una vita intera davanti, ma capisce che tutto sta per cambiare quando dei fenomeni iniziano, da quando è piccola, a insinuarsi nella sua vita. Questa è la storia di una ragazza che verrà travolta da un amore sbagliato, ma che la segnerà per sempre.
"Ti renderò più facile, decidere ciò che è inevitabile." Negrita- Destinati a perdersi.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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Il silenzio del corridoio ci accompagna. Il viaggio del mio racconto mi freme sulle labbra, aspettando solo me per partire;
‘Prima di iniziare, vorrei spiegarti una cosa: la storia che ti sto per raccontare sarà una cosa che deve rimanere tra noi due. Appena finirò questa dovrà morire tra i tuoi pensieri e mai nessun essere che respira dovrà conoscerla. Ok?’ Raccomando.
‘Giuro che la dimenticherò subito dopo la fine.’
‘Questa non è la classica storia d’amore e voglio che sia ben chiaro.’
‘Va bene.’
‘Mi fido.’
‘Inizia...’
‘Questa non è la tipica fiaba che inizia con un “C’era una volta” e finisce con un “E vissero tutti felici e contenti”. Solo il tempo potrà constatare la vera fine, perché ancora non ce l’ha. Questa è la storia scritta nella mia mente, che parla della mia vita e, in particolar modo, di quando inizia a capire che potevo davvero viverla.
Sono nata in un piccolo paese, dove ho vissuto gli anni della mia prigionia. Voglio spiegare però che la mia prigionia non consisteva in sbarre, bensì nei miei genitori. Ho spesso subito violenze soprattutto da mia madre che si ubriacava molto frequentemente.
“Adelaide, come ti sei fatta quei lividi?”
“Sono caduta.” Rispondevo. Ho conosciuto poche volte la verità e questo mi ha segnata molto. Ma non desidero parlare di questo, ma di ben altro. Voglio parlare della prima volta in cui lui si manifestò davanti a me...’
‘Manifestò?’ Mi interrompe;
‘Non interrompere!’
‘Continua...’
‘Dicevo; voglio parlare della prima volta in cui lui si manifestò davanti a me. Avevo solo sette anni e avevo ancora l’ignoranza infantile che mi  permetteva di avere un’immaginazione molto vasta, ma mai mi sarei aspettata di vedere una cosa simile. Quella sera il tramonto era ancora vivo in cielo e gli uccelli già addormentati. Mia madre arrivò nella mia camera con un odore acre di alcol e tristezza e si mise a ringhiare.
“Hai per caso toccato i miei vestiti?”
“No, non sono entrata in camera tua. Magari per sbaglio gli hai toccati tu e non te lo ricordi...” E non sarebbe stata la prima volta, ma lei non ne volle sentire;
“Mi stai per caso dando della bugiarda?”
“Non mi permetterei mai...”
Lei fu così irritata da saltarmi addosso e picchiarmi così forte da lasciarmi dolorante a terra, con le mani sulla bocca per essere certa che l’anima non scappasse via. Ma non fu la visione di mia madre che perde il controllo la cosa che mi scandalizzò parecchio, ma ben altro. Quella stessa sera, dopo essermi alzata da terra e poi essermi seduta sul letto per piangere in silenzio, successe una cosa che mi fece trasalire. Sentivo le lacrime solleticarmi il viso, ma ogni volta che una nuova lacrima nasceva dai miei occhi si faceva sempre più tiepida e densa. Mi misi le mani sulle guance bianche per vedere che cosa stesse succedendo e solo allora notai che quelle che sembravano semplici lacrime, iniziarono a diventare rosse e pian piano arrivarono sempre più alla colorazione del sangue. Per un secondo pensai di essere ferita, ma i colpi subiti non erano stati abbastanza forti da poter farmi sanguinare. Allora capii che le stavo piangendo lacrime di sangue. Ma, non ebbi il tempo di urlare che gli arti si bloccarono e le dita iniziarono a contorcersi. Sentii una strana nausea e paura che mi trafiggeva lo stomaco. Alzai gli occhi e vidi crescere davanti a me un’ombra scura e con gli occhi sanguigni. Portava un sorriso beffardo sol volto scuro e un’aria abbastanza sicura. Piansi più forte mentre le urla mi si bloccavano in gola. Svariati lamenti e versi inondavano l’aria e l’unica cosa che riuscii a sentire fu: “Sei mia.’”
Poco dopo l’anima cacciò un urlo animale e scomparve in un fuoco ardente e io finalmente riuscii a muovermi.
Quella fu la prima volta in cui mi parlò, ma non l’ultima, perché sarebbe successo anche anni dopo, ma adesso non voglio subito parlare di quello, meglio vorrei parlare di altri eventi che ebbero tale impatto da far si che io abbia una storia da raccontare.
Avevo dodici anni e un ammasso di capelli biondi quando conobbi quella che sarebbe stata la mia migliore amica. In quegli anni giravo tra i corridoi delle medie con discreta bellezza e in modo molto solitario. Ero diversa dalle altre, mi piaceva spesso definirmi come una farfalla tra i rospi: tanto bella quanto fragile. Nonostante questo, mi sentivo una delle persone più insicure al mondo, fino a quando non conobbi Beatrice e quella insicurezza si attenuò in modo incisivo.
La incontrai nel giardino della scuola, mentre delle ragazze le stavano per mettere le mani addosso. Lei fingeva indifferenza, mentre i suoi occhi non riuscivano a mentire, fino a quando non si riempirono di lacrime il tanto che bastasse per rendere il suo viso di un colore pallido che, in seguito, venne invaso di lacrime. Di fianco a quella scena solo pochi ebbero il coraggio di avvicinarsi ma senza fare niente. Le mani iniziarono a tremarmi e la fragilità di quella ragazza mi colpì al cuore, per un secondo vidi il buio e in quello dopo mi ritrovai coi pugni stretti a sbraitare a quelle ochette. Quelle erano le classiche ragazze che giravano per i corridoi con vestiti succinti, trucco a palate e giravano per i le strade come se fossero in una continua sfilata. Una di loro si voltò verso di me, mi squadrò da capo a piedi e poi mi si avvicinò seguita da altre. Trasalii alla visione di quelle ringhianti bambole che mi alitavano sul viso con occhi di fuoco, non feci in tempo a muovermi che mi buttarono a terra con una sola spinta. Alla mia caduta una nuvola di polvere mi avvolse e sentii che in quel momento sarei potuta morire. Ma a mia sorpresa sentii una voce che mi venne in salvo proprio quando le mie speranze erano poche. Ci misi qualche istante per capire che quello era Riccardo Maggio.
Fin dalla prima media è stato il ragazzo più richiesto, ammirato e desiderato. Riusciva a spezzarti il cuore con un solo sorriso. E adesso, mi stava allungando la mano per portarmi via, mentre dice: “Lasciatele stare”. Rimasi scossa, ma non potei fare a meno di stringere le sue morbide mani e poi farmi lasciare in piedi, sola con Beatrice a guardarlo andarsene con le ochette che gli ronzavano intorno. Qualche secondo dopo mi si avvicinò Beatrice e mi diede un abbraccio così forte da farmi piangere, perché quello fu il mio primo abbraccio.
Diventammo amiche dal nulla, niente dichiarazioni ma solo dimostrazioni. Capii di non essere l’unica incasinata su questo pianeta e per quanto fosse consolante non migliorò la cosa, anche se un poco la alleviò. Trascorsi molte giornate con lei, molte notti insonni a chiacchierare e tante altre cose, che mi resero meno triste e finalmente non mi sentii più sola.
Lei aveva la mia età, ma stava in un’altra classe. Era alta, portava i capelli castani raccolti in uno chignon e indossava spesso vestiti scuri. Forse per sembrare più magra. È sempre stata paffutella ma, nonostante questo, i suoi occhi verdi rispecchiavano la leggerezza pura. Un soffio di liberta si celava nel suo sorriso, questo mi attirava, mi faceva sperare in cose impossibili.
Dalla volta che la incontrai, delle cose cambiarono: svariati ragazzi iniziarono a cercarmi, a dirmi che sono bella e che sono stata coraggiosa ad affrontare quelle streghe. Iniziai a credere nelle stelle cadenti e negli abbracci, tutto sembrava andare per il verso giusto, come se finalmente fossi in un sogno eterno.
Era Marzo, l’aria era fresca e il sole tiepido. Camminavo guardandomi le scarpe e cercando di toccare il vento con le dita. Sfioravo cancelli, rami, piante, mentre mi dirigevo verso casa di Beatrice. Portavo una conchiglia appesa al collo, presa dall’ultimo viaggio di Bea. Mi raccontava spesso di quanto amasse i nuovi posti e mi promise che un giorno mi avrebbe portato in Brasile. Ti piacerà, diceva. Ricordo quella sera perfettamente. D’un tratto mi sbattei in qualcosa, ebbi un sussulto ed è come se mi fossi appena risvegliata da un sogno. “Scusami.” Disse una voce. Ci misi qualche secondo ad individuare la provenienza e appena vidi chi era cacciai un sospiro. Era Riccardo Maggio. “È colpa mia.” Riuscii solo a dire. Lui mi guardò dubbioso e poi fece un sorriso. “Tu sei quella che ho salvato da una morte lenta e dolorosa. Giusto?”
“Come?”
“Qualche mese fa. Delle ragazze ti avevano buttato a terra perché avevi difeso una tua amica.”
“Ah, ho capito. – Sorrisi- Comunque, sono Adelaide.”
“Lo so chi sei. Invece io sono...”
“Riccardo Maggio, lo so chi sei.” Lo interruppi;
“Che ci fai in questa zona?”
“Sto andando da quella mia amica che ho difeso qualche mese fa.”
“Sei di fretta?”
“No, in realtà sono anche in anticipo. Perché?”
“Sento che devo portarti in un posto.”
Il viaggio fu silenzioso, ma di quel silenzio che viene colmato con gli sguardi; così limpido da sentire i pensieri uscire ogni battito di ciglia.
Rimasi incantata dalla visione di quel luogo. Una casa si imponeva maestosa in un piccolo giardino. Le mura scolorite e le arrampicanti che salivano verso le finestre rotte non rovinavano la sua bellezza. Un bosco riempiva il retro della villa, soffocando vistosamente una collina. Una piccola fontana, sporca e ferma, ornava il giardino riempiendo il luogo di mistero. “Villa Atena.” Mi sussurrò Riccardo, mentre indicava un cartello appeso al cancello arrugginito.
“Cos’è questo posto?” Risposi sempre sussurrando e cercando di non rompere quel magico silenzio;
“È una Villa del periodo Elisabettiano. Ci abitava una vecchia famiglia ricca.”
“Perché non la usano come museo?”
“Troppo desolata. Il comune ha preso le cose di valore e poi si è dimenticato l’esistenza di questa meraviglia.”
“È una cosa triste.”
“Non tanto, adesso questo è un posto per i sognatori. I miei genitori mi hanno scoperto, questo non è più luogo per me... ma può esserlo per te.”
Mi mostrava fiducia come se fossi l’unica persona che conoscesse, ma così non era, perché lui non mi conosceva e mai avrebbe potuto conoscermi.
Potei solo sorridere dopo quel dono inaspettato e lui poté solo baciarmi dopo un sorriso così radioso. Fu un bacio puro, senza amore ma con abbastanza spontaneità da renderlo magico. Mi guardò con i suoi grandi occhi nocciola e tutto si fece più veloce, dovetti correre da Beatrice, ero in ritardo.
Appena arrivai, Nadia, la madre di Bea, mi accolse con vari dolcetti e stuzzichini e nonostante la fame dovetti rifiutare tutto per la fretta di raccontare l’accaduto alla mia amica.
“Scusami se sono in ritardo.” Dissi ancora un po’ imbambolata;
“In genere sei in anticipo. Che è successo?”
Le raccontai l’accaduto e lei rimase con gli occhi persi nel vuoto per qualche secondo.
“Tu e Riccardo Maggio... vi siete baciati!”
“Già!”
“Com’è stato?”
“Tipo una favola...”
“Wow. Quindi adesso state insieme?”
“Non ne ho idea. Domani glielo chiederò.”
In realtà, non capitò mai l’occasione in cui io potei davvero dirglielo, perché al mio rientro a casa trovai mio padre e mia madre ad aspettarmi. Lui stava in piedi, con le robuste braccia incrociate e gli occhi azzurri intenti a percepire ogni mia singola mossa. Invece mia madre stava seduta a mordicchiarsi le unghie con gli occhi rivolti verso il basso.
“Che succede?” Mi venne spontaneo dire;
“Abbiamo trovato questi..” Annunciò mio padre mentre mi mostro, scaraventando a terra, una serie di fogli.
“Le lettere dei miei ammiratori. – Dissi sconvolta- Dove le avete trovate?”
“In camera tua, nascoste.” Rispose mia madre, con ancora lo sguardo basso;
“Mi...” Non feci in tempo a parlare che già una manata di mio padre, Giulio, si stampo perfettamente sulla mia guancia, facendomi cadere a terra e sanguinare il naso. Alzai lo sguardo verso mia madre, in richiesta di aiuto, ma l’unica volta che mi guardò fu per darmi un forte calcio sullo stomaco e poi lasciarmi lì, a soffrire.
La mattina dopo Giulio mi avvertì: “Tu non dovrai sentirti con nessuno, non dovrai uscire con nessuno e tantomeno piacere a qualcuno. Sono stato chiaro?”
“Sì.” Non ebbi il coraggio di controbattere o di rifiutarmi, nonostante il bacio, i bei momenti ed il suo sorriso. Non potevo nemmeno avere una relazione nascosta, perché loro l’avrebbero saputo ed io sarei finita per essere uccisa con tale violenza che non mi avrebbero nemmeno riconosciuto. Non scherzo.
“Non possiamo più sentirci.” Dissi cercando di nascondere le mie lacrime tra degli occhiali da sole;
“Come?” Disse lui con lo sguardo di un cane infuriato a cui avevano sottratto un osso;
“Sai... i miei genitori non vogliono.”
“E fregatene! Stiamo insieme comunque, senza nessuno che lo sappia. Contro la corrente di chi ci vuole male. Io ti desidero con tutte le mie forze. Sarà il segreto mio e tuo... il nostro segreto.”
“Non posso... davvero.”
“Hai paura?”
“Davvero tanta.”
“Che bambina.”
“Ma tu non capisci... i miei genitori...” Non feci in tempo a finire la frase;
“Lo sapevo. Tu sei solo una bambina!” Scappò via, lasciandomi l’amaro in bocca e senza farmi spiegare la situazione che c’era tra me e i miei genitori. Ma tanto lo so, non sarei mai riuscita a dirglielo perché le parole mi si erano già bloccate in gola, soffocandomi.
Da quel giorno non ci parlammo più, non ebbi nemmeno più il coraggio di guardarlo negli occhi. Tutti iniziarono a prendermi in giro a suo comando, a sputarmi addosso e ad usare insulti pesanti e io non ho mai saputo perché e cosa avesse mai detto Riccardo alle persone per farmi fare tutto questo.
Passai un giorno così triste da non riuscire a piangere, i miei stessi singhiozzii mi facevano impazzire. Tutti iniziarono a prendermi a colpi, ad insultarmi e a trattarmi come se non valessi niente, come se fossi uno scarto della società; ma in tutta sincerità, mi sentivo come tale. Riccardo rideva appena mi vedeva e mi indicava. Non penso abbia mai raccontato del nostro bacio, delle risate e dei segreti. Creò una barriera dove nascondersi e ordinare alla gente la mia condanna.
Rientrai a casa, e dopo i soliti maltrattamenti, corsi in camera mia. Ero arrabbiata, tremolante e avevo una ferita tale al cuore che non ero sicura che si sarebbe rimarginata. Strinsi i denti e iniziai a ringhiare, cercando di far diminuire le mia rabbia ma ebbi l’effetto contrario. Riccardo, Beatrice, le persone, me stessa... nessuno aveva il coraggio di proteggermi, perché sentivo di non valere niente.
Con la schiena curva e passo veloce mi introdussi nel bagno, mi guardai allo specchio e fissai la mia figura per un lungo tempo. Chi era quella? Non ero io. Non mi sentivo nel mio corpo... non mi piacevo, anzi, mi odiavo. A quel punto iniziai a piangere davvero, a piangere tanto e senza sosta. E fu come se le mani fossero una cosa a se, come se fossero staccate dal corpo, e senza il mio volere, iniziarono a frugare tra i cassetti. Il tremolio iniziò a diventare insostenibile, alcuni oggetti caddero e cominciai a tastare le cose per terra, come se solo la mia mente sapesse cosa cercare. Alla fine mi bloccai, feci un lungo respiro e presi un vecchio rasoio di mio padre e sbattendolo a terra lo ruppi. Mi sedetti a terra, con una lametta in mano e gli occhi gonfi di tristezza e un peso tale che le mie giovani spalle non riuscivano a stare dritte. Non ci pensai, chiusi gli occhi e passai la lametta, con mano ferma, sul polso. Uno, due, tre... arrivai a sette, sette tagli. Rimasi appoggiata al muro, con il braccio grondante di sangue e gli occhi chiusi. Non beccai vene principali o cose simili e riuscii a nascondere tutto sotto delle lunghe maniche. Non ebbi il coraggio di raccontare nulla, però, ebbi comunque il coraggio di farlo ancora, spesso.
Una nuova oscurità si impossesso del mio stomaco, dei miei arti e del mio cuore. Tutto sembrava insensato, triste e non ebbi mai il coraggio di mostrarlo in pubblico. Mi tagliavo una volta al giorno, ogni sera, per stare bene per qualche secondo... anche se poi, in realtà, stavo peggio. Non vedevo più un cuore per amare, una mente per ricordare e uno stomaco per sentire le farfalle, adesso vedevo solo un ammasso di budella scure, ed erano l’unica ragione per cui vivevo ancora.
Non so come, né perché, ma il mondo mi cadde addosso; non tanto per Riccardo, ma più per  la sofferenza subita tutta assieme. Ma l’unica che riusciva a notarlo era Beatrice:
“Cos’hai?” Mi chiedeva;
“Vorrei solo smettere di soffrire. E’ come se il destino volesse che io soffra. Dentro provo una sensazione di morte atroce che mi mangia viva, ma non succede mai... ancora non sono morta, anche se lo vorrei tanto.” Desideravo risponde, ma l’unica cosa che usciva dalle mie labbra era un freddo e insipido: “Nulla”.
Ma era come se mi leggesse nella mente, come se io e lei fossimo la stessa persona:
“È come se tu fossi sempre stata destinata ad essere la farfalla tra i rospi: tanto bella quanto fragile.” Mi ripeteva.
Passai svariato tempo in questo modo, ma arrivò un giorno, uno di quelli diversi, uno di quelli felici... Perché quel giorno venne mia zia, Noemi. È la sorella di mia madre, la sorella più bella.
Suonò alla porta e appena mia madre aprì cacciò un urlo.
“Che ci fai qui?” Le gridò;
“Sono venuta a farvi visita, per una sorpresa. Ci sto solo un paio di giorni.”
“E chi ti ha invitato?”
“Tu... tanti anni fa. Prima di quel giorno.” In effetti era vero.
In realtà erano anni che le due non si vedevano o parlavano. In precedenza avevano litigato per gelosie e cose simili, ma mia zia ha sempre cercato di essere buona e gentile con mia madre. Una volta, però, capitò che persero entrambe e ebbero una discussione paragonabile alla prossima terza guerra mondiale. Non si parlarono fino a questo momento, e deve essere che mia zia abbia avuto un attacco di sensi di colpa.
Quando sorpassò la soglia della porta, invase la stanza con il suo profumo e il suo sorriso.
“Ciao Giulio” Salutò mio padre, che rispose con un cenno del capo. Poi si voltò verso di me, sorrise e disse:
“Ciao Adelaide, come sei cresciuta. Ormai sei diventata una signorina stupenda.” Era sincera.
Notai solo a cena la gelosia di mia madre nei confronti di Noemi, quando lei uscì dalla sua stanza, vestita bene e con del leggero trucco che gli evidenziava il grigio degli occhi.
C’era un tale silenzio da fare impressione, ma alla fine venne spezzato da Noemi, che volle fare un annuncio:
“Allora, mi voglio scusare per non essere stata molto presente, soprattutto con Adelaide. Mi dispiace davvero. Ma per farmi perdonare ho deciso di farle un regalo...”
“Non abbiamo bisogno di queste corruzioni.” La interrupe mio padre, bruscamente;
“No, no, no. Non voglio che sia inteso in questo modo. Io questo dono lo definirei come il regalo per tutti i compleanni saltati.” Dalla sua borsa tolse un pacco incartocciato con un foglio di giornale. Lo presi in mano e ringraziai. Poi, iniziai a passere l’indice su ogni angolo di quel rettangolo, cercando di sentire il so contenuto; e, ad un certo punto, sentii qualcosa di strano, di forte e coinvolgente che veniva emanato da sotto il giornale. Iniziai a respirare quella sensazione e aspettai un attimo prima di scartarlo e alla fine, rimasi felicemente sorpresa dal contenuto: era un libro. E, a quel punto, capii che le sensazione che riuscivo a sentire erano semplicemente l’anima dello scrittore.
“È il mio libro preferito.- mi spiegò lei- ci tengo particolarmente, ma voglio che lo abbia tu.” Ma, ovviamente, ad interrompere quel bel momento ci voleva mio padre:
“Le hai preso un libro?” Disse sconvolto;
“Sì, mi è sembrata una buona idea.” Rispose in tutta tranquillità;
“Io lo apprezzo.” Volli aggiungere;
“Perché non vi piace il mio regalo?” Chiese Noemi;
“Perché Adelaide è tonta.” Finì la discussione mio padre.
Io rimasi zitta, a testa bassa, vergognandomi soprattutto di me stessa. Mia zia mi guardò e vedendomi stanca e spossata, come se quella volta non fosse la prima, urlò senza respirare, cercando spiegazioni, ma non trovandole. Poi, mi prese per il polso e mi portò in camera mia, la guardai negli occhi: piangeva, piangeva tantissimo.
“Adelaide, - Le tremava la voce- non è la prima volta che te lo dicono, vero?” Non risposi, non riuscivo a parlare e nemmeno a piangere.
“Adelaide, ti prego... rispondimi!” Continuavo il mio silenzio senza riuscire a guardare le sue lacrime. Alla fine, dopo svariati tentativi, se ne andò, lasciandomi solo un segno di rossetto sulla pelle bianca, ma poi anche quello si cancellò con le lacrime, che finalmente uscirono. Rimasi sola.
Sì, quella notte mi tagliai.
Ma sai cosa successe poi?
Qualcosa cambiò, perché quella volta fu l’ultima. Iniziai a leggere, ogni sera, tantissimo. Questo mi cambiò, mi fece più forte e smisi, riuscii a smettere con la buona volontà.
La buona volontà è la dote dei deboli. Perché, devi sapere, che se sei fragile e, come me, lotti ogni giorno per sentirti te stesso quel minimo indispensabile, per riuscire a non spararti una pallottola in fronte; capisci che la buona volontà è l’unica che ti permette di avere una luce in fondo al tunnel.
Con i libri riuscivo ad avere un mondo diverso da vivere.
I tagli divennero cicatrici. Quelle rimangono, ma solo per ricordarti che quel dolore fa parte del passato. Ovviamente, i miei genitori non cambiarono, nemmeno la mia situazione sociale e cose simili, ma riuscii a digerire il tutto in modo più efficace.
Anche se il cambiamento  più importante capitò un paio di giorni prima del mio sedicesimo compleanno e quell’avvenimento è la base della mia storia.
 
  
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