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Autore: alivinghope    22/11/2013    6 recensioni
«John è seduto sul divano e mi guarda con occhi rapiti; lo raggiungo e lo abbraccio piano. Da quando è iniziata questa storia ho sempre paura di romperlo in mille pezzi, ho paura che possa sgretolarsi al minimo tocco.»
Genere: Drammatico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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15 settembre 2014
221B, Baker Street
9:00 p.m.

Sono passati quattro giorni dall’ultimo caso risolto insieme e sono esattamente quattro giorni che John sta male. Lo vedo, continua a sorridermi ogni giorno per evitare che lo tempesti di domande, ma sono tutto fuorché stupido. Le ore passano e il suo viso assume un colorito grigiastro, malato. Non so cos’abbia, ma non è certamente nulla di buono.
Ora è qui, sul divano accanto a me, con entrambe le mani a massaggiare le tempie e gli occhi strizzati dal dolore. Non finge più. Non mi piacciono le malattie, non so come comportarmi. Ma è John a stare male, è John quello che sta soffrendo, proprio qui vicino.
Cerco di comportarmi in modo meno razionale possibile, per far sì che per una volta nella mia vita sia l’istinto a guidarmi. Sollevo una mano e vado a sfiorare quella di John chiusa a pugno sulla tempia. Apre gli occhi con fatica e mi guarda con fare implorante. Gli prendo delicatamente la testa, gliela faccio poggiare sulle mie cosce ed inizio a massaggiarla piano. Abbassa le palpebre e mi ringrazia con la voce rotta dal dolore.
Cos’hai John? Non riesco a capire. Odio non capire.
Lo guardo. Sembra così piccolo in questo momento, tanto che potrebbero schiacciarlo. Sento che si rilassa leggermente sotto il mio tocco; sto davvero facendo bene, John? Sembra di si. Sciolgo i muscoli delle spalle oramai tesi fino allo stremo mentre vedo anche le sue palpebre abbassate abbandonare quell’ermeticità che le aveva caratterizzate poco prima. Continuo il mio massaggio cercando di donargli più sollievo possibile, così che poi possa parlarne con me.
“Va meglio?”, gli chiedo con voce bassa per non procurargli un’altra ondata di dolore. Annuisce in risposta e preme una sua mano sulla mia, per incoraggiarmi a continuare. Lo faccio: voglio che tu stia bene, John.

Trascorsa mezz’ora, lo vedo aprire gli occhi. Quasi mi spavento a quella visione: le sue iridi blu sono state completamente inghiottite dal nero della pupilla e sono velati da lacrime che non ha versato. Pongo un freno alle emozioni che stanno per prendere il sopravvento e sfoggio la mia migliore maschera di freddezza.
“John, che sta succedendo?” gli chiedo con un sussurro, per evitare che la mia voce si spezzi e faccia trasparire la mia preoccupazione. “Va tutto bene, Sherlock” mi dice; io non gli credo minimamente, ma annuisco.


17 settembre 2014
12:00

Un rumore sordo mi fa tornare alla realtà e sgrano gli occhi. “John?”, chiamo a voce alta, ma nessuno risponde. Con uno scatto repentino, mi alzo dal divano e vado in cucina. Sul pavimento sono sparsi cocci di ceramica di quelli che in precedenza dovevano essere due piatti per il nostro pranzo. Cammino lentamente, stando attento a dove poggio i piedi e vado oltre il tavolo, dove scorgo la figura di John rannicchiata sul pavimento. Le mani chiuse a pugno sulle tempie, gli occhi strizzati, le ginocchia al petto. Corro subito da lui e gli accarezzo la testa dolcemente nella speranza che quell’agonia termini presto.
Questi non sono semplici mal di testa, ma allora cosa sono?

Cerco di ragionare, di mettere in pratica quell’atteggiamento distaccato che solitamente riesco a tenere senza problemi. Ma con la visione di John agonizzante tra le mie braccia non è poi semplice. Lo tiro su e lo aiuto a raggiungere il divano, mentre chiamo la signora Hudson senza troppe cerimonie: ho bisogno di un aiuto.
La vedo arrivare preoccupata e le chiedo di occuparsi di lui, mentre provo – invano – di ritirarmi nel mio Palazzo a cercare nozioni utili. Nulla. Appena inizio a cercare nei miei archivi la sua voce mi porta nuovamente alla realtà: uno “Sherlock” appena sussurrato con il potere di un urlo straziante mi fa correre verso il divano, mentre una mia mano si tende per toccargli i capelli. È inutile cercare di mascherare le emozioni, John mi leggerebbe dentro comunque. Solo lui sa farlo, solo a lui ho permesso di farlo.
Mi lancia uno sguardo che mi fa percepire la sua paura, così lo afferro per le spalle e lo abbraccio goffamente. Non sono solito a questi gesti, non so cosa voglia dire amare qualcuno, prendersi cura di lui.
La signora Hudson è ancora qui e guarda la scena a bocca aperta, mi sono quasi dimenticato di lei. “Vado a preparare del tè caldo” mi riferisce. Annuisco in risposta guardandola per un attimo negli occhi, dopodiché torno a John. Solo ora mi rendo conto di star leggermente tremando per via dell’ansia: mi calmo e torno a massaggiare le sue tempie.

È coraggioso, John. Stringe gli occhi per impedire alle lacrime di farsi strada lungo il suo viso. Ha il capo chino sul mio petto e preme una tempia contro di me, come se potessi alleviare il suo dolore. Ma non posso, John. Vorrei poterlo fare, davvero. Lo sai, sei l’unica persona per cui farei di tutto, in senso letterale.

La mia mano sinistra gli accarezza la schiena, comandata dall’istinto di proteggerlo, di curarlo. Non ho tempo di interrogarmi sulle emozioni che sto provando, ora devo solamente pensare a lui, cercare di aiutarlo a guarire. Tutta quest’intelligenza a cosa mi serve se non posso utilizzarla anche in questo modo? John ha bisogno di me, adesso.

La signora Hudson ritorna in salotto con una tazza di tè bollente tra le mani, lanciandomi sguardi preoccupati alternandoli tra i miei occhi e la mano che carezza John.
“Ci penso io Mrs. Hudson. La tengo aggiornata, non si preoccupi” le dico. Voglio rimanere solo con John.
“Certo, caro. Chiamami se hai bisogno”, annuisce lei, congedandosi.
Abbasso lo sguardo su John e lo vedo più rilassato. Lo scuoto leggermente per le spalle, così da attirare la sua attenzione. “Bevi un po’ di tè caldo” dico a bassa voce. Lo vedo annuire e spostarsi per prendere la tazza tra le mani, per poi soffiare sul liquido ambrato bollente. Sta meglio. Ciò non toglie che la situazione sta degenerando.
“John” lo chiamo, cercando di formulare già delle frasi per convincerlo.
“Dimmi”, mi risponde con una voce che neanche sembra la sua. Deglutisco rumorosamente e chiudo gli occhi, per cercare di concentrarmi sulle parole.
“Devi andare in ospedale a farti controllare”. La mia voce è più fredda di quanto voglia.
“Sono un medico, sono solo dei mal di testa molto forti”. Non mi guarda, non prova neanche a cercare contatto con i miei occhi. Pensa davvero che non me ne accorga? “Non sono solo mal di testa, John! Hai bisogno di un controllo e non accetto repliche, non fare il testardo!” quasi grido all’inizio, la mia voce si affievolisce quando leggo una smorfia di dolore sul suo viso. Allora annuisce, più per me che per sé stesso, lo so. E dice sempre che sono io a maltrattare il mio corpo, non dormendo e non mangiando mai. Cosa importa di questo, di me? Niente. Adesso c’è solo John.



St. Bartholomew’s Hospital
4:36 p.m.

Grazie a Mycroft abbiamo la precedenza in ospedale. Non appena siamo arrivati, hanno prenotato una risonanza magnetica per controllare che non ci sia nulla nel cervello di John. Inutile. Noioso. C’è già qualcosa, e lo sappiamo entrambi. Come sappiamo che sicuramente non sarà nulla di così semplice o di stupido. Sarà grave, lo so.
(John). Il mio cervello non è in grado di elaborare informazioni sufficienti in materia; o meglio, ci sono così tante informazioni in questo campo, che a fatica ne trovo una che combaci perfettamente con le cefalee di John. Devo aspettare.
(John). Vedo un dottore farsi avanti e dirgli di seguirlo per andare a fare l’esame; li seguo. Mi dice il suo nome, mi dice che non posso andare: li seguo lo stesso. Mycroft farà qualcosa a riguardo (non mi importa poi molto).
Entriamo in una sala angusta con due desktop collegati alla macchina in cui dovrà entrare John. Hanno accettato la mia presenza, forse perché sanno di aver perso in partenza con uno come me. Di nuovo: non mi importa. Non potrò stare nella stessa sala con lui, ma per lo meno sa che mi trovo dall’altra parte del vetro, pronto a parlargli tramite uno stupido microfono in caso si agitasse. Non lo fa (ovviamente). Dopo qualche minuto, compare un’immagine sullo schermo. Non sono certamente laureato in medicina, ma le mie conoscenze le ho. Entro nel Palazzo, stanza 21, quarto piano. Una porta bianco latte si apre davanti a me; gli occhi guizzano da una parte all’altra della stanza vuota, completamente bianca anch’essa. Parole fluttuano nell’aria, riesco a cogliere quel che mi basta: tumore, probabilmente glioblastoma [1]. In quale area? Non lo so, ci lavoro da soli otto secondi. Abbasso le palpebre e torno coi piedi per terra. Le espressioni dei due medici accanto a me, mi suggeriscono che la mia diagnosi è corretta. Per una volta, speravo di sbagliarmi. Non c’è nulla di fantastico o straordinario in questo. Nulla. (John).
Mi preparo mentalmente per dirlo al mio coinquilino amico: la parola glioblastoma non dovrà fuoriuscire dalla lurida bocca di questi medici. Glielo comunico, mi rispondono qualcosa in tono aggressivo - (non mi importa). Esco da quella piccola stanza e aspetto John lì fuori.
Lo guardo: è preoccupato. Lo trascino fuori da quell’ospedale e chiamo un taxi per tornare a casa. Cerca di vedere oltre la lamina di ghiaccio che ricopre i miei occhi, ma non glielo permetto. Il mio sguardo si posa ovunque tranne che nel suo: mi leggerebbe dentro, non deve accadere. Infilo la chiave nella toppa e salgo le scale, senza aspettarlo. Tolgo il cappotto, mi siedo sulla poltrona di pelle.
“Sherlock?” mi chiama, voce insicura. Non alzo lo sguardo, non mi muovo. Per la prima volta in vita mia, mi trovo in difficoltà. Perché? John.
Le sue gambe si fanno sempre più vicine, riesco a vedere fino a poco sopra il ginocchio; non alzo lo sguardo.
Uno sbuffo rumoroso: John. Si abbassa, sento le ossa scricchiolare. Ora il suo viso è nel mio campo visivo: occhi blu velati da una preoccupazione che tenta di nascondere, sorriso teso. Cerca di far calmare me, nonostante abbia compreso che ciò che ha non è nulla di buono. Sospiro.
“Glioblastoma”, dico. Pronunciarlo ad alta voce, mi fa perdere la presa sulla realtà. Fa male, più di quanto potessi pensare. Quasi quanto una pugnalata al petto.
Riesco a leggere le emozioni che si rincorrono senza sosta nei suoi occhi stanchi: sorpresa, rabbia, preoccupazione, tristezza, rassegnazione.
C’è poco da fare, lo sa bene. Anzi, lo sa meglio di me.
Occhi lucidi: sta per piangere. Voglio che lo faccia, voglio che abbatta tutte le barriere e che si senta libero. Gli faccio posto sulla poltrona, abbastanza ampia per entrambi. Nuovamente, lo abbraccio più stretto che posso. Sento un calore forte sul mio collo e mi rendo conto che sono le lacrime calde sfuggite al suo controllo di soldato. Un tremito lo scuote da capo a piedi, cerca di non singhiozzare rumorosamente. Ha paura.
Ho paura anch’io, John.


19 settembre 2014
St. Bartholomew’s Hospital
10:07 a.m.

Il tumore è stato scoperto in tempo. Pur essendo molto aggressivo, c’è un’alta probabilità che John riesca a sopravvivere per qualche altro anno. Vista la gravità della situazione, mi sembra di essere ritornato a respirare solo ora. Altri anni con John: non avevo neanche contemplato questa opzione. Mi sento molto sollevato.
Siamo al St. Bart’s per le analisi preoperatorie: John andrà sotto i ferri questo stesso pomeriggio (toglieranno il tumore chirurgicamente). I prossimi mesi saranno un disastro, lo so già. Dovrà sopportare la radioterapia e il suo sociopatico ad alta funzionalità preferito.
Il tumore si trova in prossimità dell’area di Wernicke [2], nel lobo temporale. Ho effettuato le mie ricerche a riguardo e spero vivamente che le informazioni sul chirurgo che opererà John – donate gentilmente da Mycroft – siano corrette.


~~~


“Sherlock, promettimi solo una cosa…”, il suo tono di voce mi spaventa, spero che non ne esca un discorso senza senso sulla gioia della vita. Non ora, John.
“Non è un po’ presto per fare un monologo su quanto sia breve la vita e su quanto tu voglia che mi dia una calmata, che mi salvaguardi et cetera?”
Ride. Una risata sincera e chiara, come non ne sentivo da tempo. Sorrido raggiante verso quella sua esternazione.
“…non bruciare i miei maglioni!”
Ora la risata proviene da me, bassa e liberatoria. Quanto bene mi fai, John.
“Promettilo!” insiste, con le lacrime agli occhi.
“Va bene, te lo prometto” dico serio.
Il sorriso svanisce, sostituito dall’inespressività che mi fa da armatura in casi come questi. Odio la malattia, odio il dover affrontare la morte. Odio che il malato sia John (il mio John).
I suoi occhi si agganciano ai miei, intrecciati in un abbraccio stretto fatto di pura energia. Si studiano, si interrogano, cercano risposte. I suoi sembrano dire “avvicinati”: lo faccio. Gli prendo una mano (calda) tra le mie (fredde). La sua pelle è morbida, e più scura di un paio di tonalità della mia. Pelle su pelle. Elettricità.
Il nostro scambio viene interrotto da un tossicchiare sommesso: l’infermiera è venuta a prendere John.
Gli stringo ancora la mano tra le mie, non dico nulla. Gli basta guardarmi negli occhi e capire che sarò qui per lui, che non lo lascio per nessun motivo al mondo.
Sono qui, John. Torna da me, ti aspetto.



St. Bartholomew’s Hospital
11:00 p.m.

Sono trascorse otto ore dall’inizio dell’intervento. Qualcuno si è avvicinato a me nel frattempo per chiedermi se avevo bisogno di qualcosa. Gli è bastato guardarmi in faccia per capire che volevo essere lasciato solo. Solo. Esattamente come ero prima di John. L’essere solo mi ha sempre protetto da eventuali influenze esterne negative – e positive – e mi ha permesso di non far penetrare all’interno della corazza di ghiaccio tutte le emozioni che mi avrebbero rallentato. Non mi importava di nulla prima di John. Con lui ho capito che va bene sentirsi male, avvertire il pericolo. Avvertire il calore di una persona che si occupa di te. Qualcuno che ti supporti e che ti difenda. John è prezioso, per me. Non ho mai creduto in un’entità superiore che governa gli uomini, non ho mai creduto nell’esistenza di un essere superiore che ci ha donato la vita.
Credo fermamente nella scienza, nelle scelte che possono condizionare la nostra vita. Credo alle leggi della fisica e, più in generale, alle leggi della natura. Credo nei fatti, visibili, tangibili e verificabili. Razionalità. È ciò che dovrebbe governare il mondo, la razionalità. Ma ora sono qui, schiavo della stessa natura che si è ritorta contro John (contro di me). Prego che le abilità tanto decantate di quel chirurgo siano veritiere; prego che l’aspetto resistente del John-soldato venga fuori. Prego. Prego come non ho mai fatto in trent’anni di vita. Prego affinché John sopravviva per quel poco tempo che ancora ci è concesso.
A volte l’ho dato per scontato: il mio più grande errore di valutazione. Perdonami, John.
Sento gli occhi pizzicare, una sensazione spiacevole e nuova. Lacrime. Sto per esplodere, i condotti stanno per scoppiare. Correzione: troppe lacrime. Abbasso le palpebre e le ricaccio indietro, non voglio che le persone provino pietà per me. Non ho bisogno di questo. (John).
Sento dei passi familiari avvicinarsi a me assieme al rumore di una punta metallica che tocca il suolo ritmicamente: Mycroft. Non ho né tempo, né voglia di arrabbiarmi per la sua presenza. Nonostante mi infastidisca, lo lascio fare.
“Sherlock”, mi saluta cordialmente.
“Fratello”, rispondo freddo.
“Novità sul caro John?”.
“Lo sai benissimo che non ce ne sono. Vattene.”
Non mi ascolta, non lo fa mai. Si siede, l’ombrello tenuto stretto tra le ginocchia con la punta metallica a terra. Almeno ha la decenza di stare in silenzio.

Ho paura del torrente di emozioni che mi sta travolgendo come un fiume in piena. Non mi sarei mai sentito così per una stupida operazione; la variabile che fa la differenza è John. John. La mia mente riproduce la sua voce ed il suo viso in maniera così accurata che non posso evitare di sorridere. Un sorriso dolceamaro, carico di paura e affetto. Si, affetto (amore).

“Sei il tipo di persona che dovrebbe esser definita un perfetto idiota.”, la voce bassa di Mycroft mi porta nuovamente alla realtà, su quelle sedie scomode della sala d’aspetto.
“Speravo fossi andato via.”
Un moto di rabbia mi fa digrignare i denti, cosa diavolo ci fa ancora qui?
“Speravo avessi deciso di venire allo scoperto in tempo.”, dice lui, serio. Apro gli occhi e lo guardo.
“Che intendi dire?”
“Sai benissimo a cosa e chi mi riferisco.”
Ovvio. John. Tutto si riferisce a John. Precisamente: a quello che provo per John. Lui lo sa, ovviamente. Sia mai gli sfugga qualcosa. Viscido.
Assottiglio lo sguardo senza dire nulla. Un sorriso sornione si apre sulle sue labbra sottili, molto diverse dalle mie.
“Mamma sarebbe così orgogliosa.”, sembra realmente felice.
“Sei del tutto fuori luogo, Mycroft.”
“E tu fuori tempo massimo, fratellino.”
“Vai via da qui. Non ho bisogno di te.”, sputo in preda alla frustrazione. Sento la rabbia scorrermi nelle vene come veleno. Le mie difese si sono abbassate, la barriera di ghiaccio si è sciolta. Le mani sono scosse da un leggero tremore, la preoccupazione mi sta mangiando vivo. Avverto uno spostamento d’aria accanto a me: Mycroft se ne sta andando. Va bene così, gliel’ho chiesto io. Non voglio che nessuno mi veda in queste condizioni. Cerco di prendere il controllo delle azioni involontarie del mio corpo, ma credo ci vorrà più tempo del previsto.


5:00 a.m.

Una stretta lieve sulla mia spalla sinistra, apro gli occhi. Il chirurgo che ha operato John, mi dice che hanno tolto il 97% del tumore. È andata meglio del previsto. Stringo la mano all’uomo e mi dirigo nella camera di John, incurante di chi mi dice che non posso, ché non sono un parente. Non mi degno nemmeno di spiegare che io e John siamo un’unica entità, non capirebbero. Cammino a passo sostenuto verso di lui, con un calore nel petto che si fa più accentuato ad ogni passo.
Ed eccolo lì, il mio soldato: la testa fasciata, gli occhi chiusi ed un’espressione rilassata sul viso. Avvicino una sedia al suo letto e lo guardo mentre dorme. Forse, avrei bisogno anche io di un po’ di riposo. Poggio la testa sul materasso accanto alla sua mano sinistra (alla destra hanno attaccato la flebo) e mi lascio andare ad un sonno leggero, in parte sollevato. Il primo passo è stato fatto.


4:45 p.m.

Pressione lieve sul cranio. Dita che si intrecciano nei ricci. John. Mugolo piano (involontariamente) a quel contatto che, per come la vedo io, è molto intimo.
Alzo gli occhi al suo viso, la sua mano non molla la presa, seppur debole. Sta sorridendo con occhi e bocca. È felice, visibilmente più tranquillo.
“Da quanto sei sveglio?”, gli chiedo con voce arrochita dal sonno.
“Da un po’.”
“Potevi svegliarmi prima, idiota.”
“Avevi bisogno di dormire, non c’era ragione di svegliarti.”
“Invece si, una c’era.” Sibilo.
“E sarebbe?”
“Tu.” Dico a denti stretti.
Mi guarda intenerito e riprende a carezzarmi la testa. Questo semplice contatto mi fa sentire amato: c’è una speranza, allora? Forse si. Odio non avere risposte concrete di cui fidarmi ciecamente. È tutto istintivo. O tutto, o niente. Una via di mezzo non è nemmeno contemplata perché siamo rimasti in questo limbo per troppo tempo e troppe cose sono state lasciate all’immaginazione. Ora che i giorni sono limitati, posso sentire lo scorrere del tempo tra di noi: è inarrestabile, scivola via come acqua.
“Ne hanno tolto il 97%.” Dico con voce sollevata, rassicurante. Si apre nel sorriso più bello che abbia mai visto, il più luminoso, e una lacrima gli riga la guancia. Felicità? Assolutamente. Passo una mano su quella scia luminosa e gli accarezzo lievemente lo zigomo. Istinto, irrazionalità. Sto scoprendo pian piano questi gesti grazie a John. La sua pelle ha una consistenza morbida, quasi setosa. Ho nuovi elementi con cui riempire la stanza dedicata a lui nel mio Palazzo Mentale.

Mi basta guardarlo negli occhi per capire che mi sta leggendo. Mi basta annuire per confermare quello che sta pensando. Non ci servono parole, non ne abbiamo mai avuto realmente bisogno. Riusciamo ad intrattenere intere conversazioni solamente guardandoci negli occhi, proprio come sta accadendo in questo momento.
“Sei stato qui tutta la notte, non è vero?”
“Si, John.”
“Perché? Potevi andare a casa a riposare, non me ne sarei accorto.”
“Io me ne sarei accorto, però.”

Un nuovo sorriso più dolce, più cauto. John.
Tre sensi su cinque sono concentrati su di lui: tatto (la mia mano è ancora sul suo viso), vista (i miei occhi si cibano dei tratti tipici di John), udito (la sua voce entra in me come fosse ossigeno).

Ha le palpebre pesanti, sta per addormentarsi di nuovo. Mi fa un cenno con la mano che, inizialmente, non capisco.
Oh. Vuole che mi stenda accanto a lui.
Mi tiro in piedi e allontano quella sedia scomoda su cui ho passato le ultime dodici ore. La mia schiena protesta con un sonoro schiocco e mi lascio andare ad uno strano mugolio di fastidio. John scivola verso destra: il letto è abbastanza grande da ospitare anche me. Mi stendo sul materasso e cingo le sue spalle con il braccio destro. Poggia la testa su di me, piano, per evitare di procurarsi inutile dolore. Perfetto. Il calore nel petto ora è diventato un piccolo fuoco, le cui fiamme sono sempre più alte. Ci mette poco ad addormentarsi, l’intervento deve averlo spossato parecchio. Sento il calore del suo respiro regolare sul collo e questo basta a farmi capire che non c’è altra persona con cui vorrei condividere la mia vita. Peccato sia troppo tardi.


7:13 p.m.

Si sta svegliando: posso sentire il suo cervello rielaborare le informazioni della giornata; posso sentirlo mentre cerca di non farsi scoprire ad annusare il mio odore. Sorrido. Ingenuo John. Carezzo piano la sua spalla destra con la punta delle dita e avverto un sorriso sul collo. Mi piace questo nuovo aspetto di me, di noi. Abbiamo il tempo contro, questo è vero, ma se sto imparando qualcosa da tutta questa storia, è che devo far capire a John che è amato.
“Buongiorno.” Mi dice con voce roca.
“Tecnicamente è sera, John.”
“Come rovinare un bel momento.” Sbuffa.
“Non andava bene?”
“Non importa.” Ride. Di nuovo, ride e sembra che il Sole stia girando intorno alla Terra ad una velocità strabiliante (o era la Terra a girare attorno al Sole? Appunto: chiedere a John). Nonostante il contesto, credo di non essermi mai sentito così in pace con me stesso. Mi sono sempre odiato a causa di quelle stupide etichette che mi sono state cucite addosso dalla società: mostro, scherzo della natura, psicopatico. Riconosco di non essere il tipico essere umano medio, di avere un’intelligenza fuori del comune ed una particolare predisposizione a mettermi in pericolo. So che le persone non apprezzano la mia compagnia, sono conscio che il mio carattere sia piuttosto difficile da gestire. Eppure John è riuscito a scalfire la mia corazza fatta di ghiaccio; è riuscito a convivere con me e ad apprezzarmi per quello che sono senza mai chiedermi di cambiare. Per lui sono sempre stato un essere umano, il migliore che potesse mai incontrare. Mi rendo conto solo ora che non gli ho mai detto nulla del genere.
“John.”
“Mh?”
“Sei la persona migliore che conosca.” Ti amo.
Una frase pronunciata in un sussurro che si disperde nell’aria. Tutto è luminoso, bianco. John trattiene il respiro e mi chiedo se abbia detto qualcosa che non va. Gli scuoto piano la spalla, preoccupato. Espira forte, un sibilo fuoriesce dalla sua bocca.
Mi lascia lievi baci sul collo: ha capito. Quel fuoco nel centro del petto è diventato ingombrante, lo sento ardere fin nelle viscere. John.



1° ottobre 2014
221B, Baker Street
10:08 a.m.

Sono passati undici giorni dall’operazione, John ha dei tempi di recupero invidiabili. Siamo a casa da circa otto minuti e sei secondi e l’espressione di sorpresa ancora non l’ha abbandonato. Sorrido (si, ultimamente lo faccio spesso). È stanco e i segni del cancro sono visibili a occhio nudo. I medici continuavano a dire che era troppo presto, che doveva rimanere in ospedale. Mi sono opposto: mi prenderò io cura di lui e, se proprio ne avrò bisogno, chiederò a Mycroft di procurarmi un medico che effettui visite a domicilio.

Domani dovrò accompagnare John in ospedale per il secondo passo verso la sconfitta del glioblastoma: la radioterapia (ora, però, non voglio pensarci).

“John, togliti quell’espressione!” alzo gli occhi al cielo di fronte allo stupore ancora evidente del mio coinquilino.
“Sherlock…c’era davvero il bisogno che mi venisse il cancro per farti ripulire questo posto? Riesco addirittura a vedere il pavimento!”
Chi riesce ad ironizzare con disinvoltura su una disgrazia?
“Sei così simpatico.”
Perfino la sua risata è stanca, ma cerca di nasconderlo (senza alcun successo).
“Mrs. Hudson sarà qui tra poco, ha insistito per prepararti qualcosa da mangiare. Dice che non si fida di me.”
“Non posso darle torto, mi manderesti di nuovo in ospedale.”
Metto il broncio. Non mi piace quando mi trattano così – solo perché una volta è involontariamente caduta una falange (o forse due, irrilevante) nel brodo devono fare tutte queste storie!
Due braccia esili mi cingono la vita e stringono piano: solo ora realizzo quanta poca forza ha il mio John. Sorride, sorride sempre nonostante senta il peso del tempo gravare su di lui. Occhi che pizzicano (no, non di nuovo). Una lacrima mi riga gli zigomi affilati e scende fino al mento. Non ho mai pianto in vita mia, neanche alla morte di mio padre. Ma con John è diverso: è il mio punto fermo, l’unico che abbia mai avuto, e tra poco non sarà più con me. Sarò solo, di nuovo. Egoista, dice una voce nella mia testa. È vero, lo sono, non l’ho mai negato. Ma questa volta è diverso: ho scoperto una nuova parte di me che darebbe la vita per lui (mi prenderei il suo cancro se solo potessi).


10 ottobre 2014
221B, Baker Street
4:00 a.m.

Ieri ha affrontato il secondo ciclo di radioterapia, sta iniziando a perdere i capelli. Per ora sono pochi, non si è arrivati ancora ad intere ciocche. Le rughe intorno agli occhi sono più profonde ed è dimagrito parecchio. Lo osservo mentre dorme nel mio letto, coperto fino al mento. Trema leggermente. Mi stendo accanto a lui e, proprio come tre settimane fa, lo stringo a me. Mugugna qualcosa di indistinto nel sonno e si appoggia sul mio petto, una mano sugli addominali stringe la mia maglia grigia. Mi sento debole, incapace di fare qualcosa di concreto per lui, incapace di proteggerlo. Porto la mia mano sinistra sulla sua e la lascio lì, a saggiare la consistenza morbida della pelle. Contatto (mi mancheranno queste sensazioni). Devo imparare a vivere alla giornata, non posso pensare ad un domani in cui il caldo corpo di John non premerà più contro il mio. Non posso pensare che, tra un anno forse, ci sarà solo un pesante vuoto in questo letto (in questa casa, in questa città). Non te ne andare, John. Ero così solo prima di te, ti devo molto. Più di quanto immagini.


8:43 a.m.

Devo essermi addormentato circa due ore fa. Il respiro regolare di John e il calore delle coperte mi hanno fatto abbassare la guardia per un po’. Fortunatamente non si è ancora svegliato, posso continuare a guardarlo dormire.
È bello. La malattia non ha portato via i segni tipici della sua bellezza genuina. Mi sarebbe piaciuto conoscerlo da adolescente, capire che tipo era. Probabilmente, se all’epoca l’avessi incontrato, tutto sarebbe stato diverso per me: non sarei mai stato solo e (forse) non sarei caduto nel tunnel della droga. Forse.

Le palpebre abbassate sono dotate di ciglia lunghe e bionde, alcune possono essere viste solo controluce; le labbra sottili dischiuse in una posa rilassata, rilasciano brevi respiri caldi sul mio collo. I capelli sono corti e setosi a contatto con la mia guancia, hanno un buon odore. Odore di shampoo e di John – un odore denso, dolce e pungente al tempo stesso.

Un leggero tremolio alle palpebre mi fa capire che si sta svegliando, la mano destra stringe di più la mia maglietta sbiadita. Un profondo sbadiglio lo scuote, gli arti si stiracchiano. Torna con la testa tra la mia spalla ed il collo ed apre finalmente gli occhi. Non dice niente e neanche io perché rovinerebbe tutto. È tutto (quasi) perfetto così.
Non credevo che la sensazione di un corpo premuto contro il proprio fosse questa. Non pensavo potesse piacermi tale condizione. Se da un lato curarsi degli altri porta frustrazione, dolore, malinconia; dall’altro porta una sensazione di pienezza che mai avevo sperimentato. Calore, affetto, rispetto.

Alza un poco la testa e mi guarda dritto negli occhi. In quell’oceano posso leggere tutto ciò di cui ho bisogno per trovare la forza e parlare.
“Conosci la leggenda del filo rosso? [3]
“No, dovrei?”
“La leggenda narra di un giovane di nome Wei, orfano di entrambi i genitori che cercò per tanto tempo una donna da sposare e con cui creare una famiglia, ma non ci riuscì. Una sera, arrivò nella città di Song e in una locanda un uomo gli disse che la figlia del governatore sarebbe stata la donna giusta. L'indomani mattina, Wei incontrò sui gradini di un tempio un vecchio che leggeva un libro in una lingua incomprensibile e gli chiese cosa fosse. Il vecchio rispose che veniva dall'aldilà e che era lì per occuparsi delle faccende umane, soprattutto dei matrimoni. Spiegò che ognuno nasce con un filo rosso legato al mignolo della mano sinistra: seguendo questo filo, si potrà trovare la persona cui è legata l’altra estremità. Questa persona è la nostra anima gemella e non importa quanto tempo dovrà trascorrere prima che le due anime si trovino, perché sono destinate a trovarsi sempre; il filo che le unisce non si spezzerà mai. Disse a Wei che la sua anima gemella aveva solo 3 anni e che avrebbe dovuto aspettare 14 anni prima di incontrarla e averla tutta per sé. Così Wei, curioso, si fece accompagnare al mercato per vedere la sua futura sposa. Deluso dalla povertà in cui viveva la bambina, la fece colpire da un servo con un coltello tra gli occhi e continuò la sua vita, dimenticandosi di questa storia. Passarono 14 anni senza che riuscì a trovare una sposa e creare quindi una famiglia. Andò a vivere nella città di Shangzhou e il governatore gli offrì in sposa sua figlia. Finalmente, Wei ebbe una moglie bellissima e degna di lui. Un giorno, incuriosito da una pezza che le copriva sempre la fronte, le chiese dove si fosse procurata quella cicatrice. Lei rispose che all'età di 3 anni un uomo cercò di ucciderla al mercato, così Wei rivelò tutta la verità e capì che quel vecchietto del tempio aveva ragione.”
John mi aveva ascoltato senza staccare mai un attimo gli occhi dai miei, sinceramente curioso di sapere perché gli stessi raccontando una cosa del genere.
“Aveva ragione su cosa?”
“John, come sempre tu guardi ma non osservi.”
“Non perdi mai occasione per farmi capire quanto sia stupido. Avanti, rispondi.”
Alzo gli occhi al cielo di fronte a quell’esagerazione.
“Sin dalla nascita siamo destinati a qualcuno e niente e nessuno può rompere questo legame. Come noi, John.”
Le sue labbra sottili si poggiano delicatamente sulle mie. Sono morbide, calde, gentili. Per qualche riflesso involontario le mie palpebre si abbassano rapidamente. Le labbra di John si muovono piano sulle mie per abituarmi a quel nuovo, strabiliante contatto. Lo sento ovunque: il sapore di John mi invade la mente e, per un eterno istante, mi offusca i pensieri.
“Ti amo.” Mi dice, serio. Sorrido, non so rispondere a parole. Prendo il suo mignolo col mio e mi sento quasi un bambino quando mi accorgo del leggero brivido che mi scuote da capo a piedi.



25 dicembre 2014
221B, Baker Street
9:57 p.m.

Un applauso conclude la mia esibizione – Mendelssohn, ovviamente. Rivolgo un breve inchino al mio pubblico e ripongo il violino nella sua custodia di pelle. Molly e Lestrade stanno parlottando tra loro, Mrs. Hudson è andata in cucina a prendere un dolce. John è seduto sul divano e mi guarda con occhi rapiti; lo raggiungo e lo abbraccio piano. Da quando è iniziata questa storia ho sempre paura di romperlo in mille pezzi, ho paura che possa sgretolarsi al minimo tocco. Si stringe di più a me e trema un poco, ha le mani fredde. Lo copro con una coperta di lana e lo sento ringraziarmi sottovoce. La porta dell’appartamento si apre e compare una figura vestita elegantemente: Mycroft.
“Devo aspettarmi un lieto annuncio per fine serata?” non parla, ghigna.
“Come va la dieta, fratello?” John ride sommessamente coprendosi fino al naso per non farsi vedere da Mycroft.
“Bene.” Risponde lui con finto fastidio.
“Oh Mycroft, caro! Siediti pure, ti porto una fetta di torta!” la voce di Mrs. Hudson risuona tra le pareti del 221B, con quel tono dolce ma deciso che non ammette repliche. Mycroft sbuffa e le sorride tirato.
“Che ci fai qui?” chiedo sprezzante.
“Sono passato solo per augurarvi buone feste e per informarmi sulla salute di John.”
“Noi non ci facciamo mai gli auguri di Natale, Mycroft. Inoltre, probabilmente sai più cose tu sulla salute di John che lui stesso.”
“Andiamo, Sherlock. Non fare il solito melodrammatico.”
“Melodrammatico? Ci vedi, Mycroft?”
La rabbia mi invade come una furia. Possibile che non si accorga minimamente che John – il malato di cancro, scheletrico, (quasi) pelato John – è qui stretto a me in preda allo sconforto?
Le sue labbra sottili si tendono in una smorfia, gli occhi si riducono a due fessure. La sua insensibilità è molto più accentuata della mia: io almeno ho imparato a gestire le mie emozioni e a mostrarle se necessario. Quest’uomo non prova nulla.
“Mycroft, un po’ di tatto per favore. Sherlock, smettila di gridare. State buoni, tutti e due. È Natale, deponete le armi almeno per stasera.”
Abbasso le palpebre, prendo un respiro profondo e cerco di ascoltare Mrs. Hudson. Una mano di John stringe delicatamente la mia sotto la coperta, riapro gli occhi visibilmente più rilassato e mi lascio andare ad una piacevole serata.

 

~~~



16 novembre 2018
9:26 a.m.

Abbiamo vissuto quattro anni bellissimi insieme, ci siamo amati così tanto da non avere più respiro. Il tempo è sempre contro di noi, ne ho avuto la prova durante quest’esperienza.
John era l’uomo migliore con cui condividere la propria vita, era la persona perfetta per me. L’ultima notte l’abbiamo passata l’uno nelle braccia dell’altro, intrecciati, legati stretti da quel filo rosso che ci teneva uniti. Il mattino seguente, John se n’è andato dopo avermi donato un ultimo bacio a fior di labbra. Il suo sapore dolceamaro non lo dimenticherò mai.
Occuperà sempre una parte di me, continuerà ad essere il mio punto fermo, la mia roccia. La mia anima gemella.
“Ti amo.”
Il vento copre il mio sussurro. Una lacrima mi riga la guancia intorpidita dal freddo. Allungo una mano a sfiorare il marmo bianco che si innalza dal terreno ricoperto di foglie secche. Lancio un’ultima occhiata alla foto del mio compagno e all’incisione nera, vergata con un’elegante calligrafia corsiva e mi incammino verso l’uscita.


John Hamish Watson
07.08.1978 – 10.09.2018
medico militare, amico, compagno.





 
Note:
1. Il glioblastoma è uno dei tumori più aggressivi esistenti ed i casi di lunga sopravvivenza sono rarissimi.
2. L'area di Wernicke si trova appunto nel lobo temporale e la sua funzione è quella di comprensione del linguaggio. Se quest'area viene danneggiata, il soggetto interessato è in grado di parlare, ma le frasi che compone non hanno alcun senso logico.
3. La leggenda del filo rosso del destino è di origine cinese, ma è molto diffusa in Giappone. Mi scuso anticipatamente se la leggenda risulta poco chiara: su internet ci sono molte varianti, ma il succo è questo, diciamo.


Note della malata di mente:
Salve bel fandom 

Spero che questa mia piccola creatura che ha appena visto la luce non vi abbia fatto troppo schifo. 
Ho iniziato a scriverla dopo aver visto per l'ennesima volta Third Star, film in cui il protagonista è malato di cancro ed è interpretato da Ben. Un film meraviglioso che ti tiene con gli occhi pieni di lacrime incollati allo schermo. La storia, ovviamente, ha preso una piega molto diversa dal film, ma ci tenevo a citarlo perché sono partita da lì e per cogliere l'occasione di consigliare a chi non l'ha visto di farlo. Ne vale assolutamente la pena. 
Detto questo, fatemi sapere cosa ne pensate, se vi va.
A presto,
A Living Hope
  
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