Storie originali > Drammatico
Ricorda la storia  |      
Autore: Vella    23/11/2013    5 recensioni
Il mio cuore non batte più da quel giorno. Il mio sangue non scorre più da quel giorno. Sono morta da quel giorno. Dovrei scrivere una lettera. Una lettera d'addio. Te la meriti. Ma non ho coraggio di scrivere nulla da quel giorno. La paura di dimenticarti è così forte da immobilizzarmi.
Perché ti ho amato, ma non ho avuto mai il coraggio di dirtelo.
Ed ora è troppo tardi. In fondo sono sempre stata una ritardataria cronica. Ma questa volta sei tu che tardi ad arrivare.
Pensare che mi abbia abbandonato è così allucinante da uccidermi. Dentro e fuori. Da quel giorno.
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Apocalypse



Non c'è coraggio. Nelle mie vene non è mai circolato del coraggio. Sono sempre stata una codarda senza vergogna. Sono qui, senza meta o destino. Saranno passate ore dall'ultima volta che ho intravisto la luce del sole. Guardo ciò che ho di fronte a me: la scrivania è illuminata da una candela quasi del tutto consumata, al centro del tavolo c'è un foglio bianco, intatto, senza sfumature o cancellature di nessun tipo, al suo fianco è posizionata una penna nera, anch'essa mai stata usata. Ogni singola goccia di inchiostro è rinchiusa lì dentro, così come il dolore nel mio cuore. Ogni singolo pezzo del puzzle. Le mani tremano, la testa si è fatta, oramai, pesante, inspiro aria dalla bocca ma sembra tutto così inutile. Respirare è diventata una cosa così meccanica e senza senso che neanche me ne accorgo. In fondo, se ci pensassi, arriverei alla conclusione che morire è molto più facile di quanto sembri, per questo, e per altri tanti motivi, rimango immobile davanti al foglio bianco. Non ho il coraggio, e l'ho già detto. Sono così codarda da non riuscire neanche a regalargli un ultimo addio. Sono mesi che va avanti questa strana storia. Sono mesi che prometto a me stessa di poter superare il traguardo. Sono mesi, così indefiniti, che nuoto nell'agonia. Il dolore striscia sulla mia schiena, si impadronisce del cervello e lascia l'amaro in bocca. Nessuno ha trovato il tempo di dirmi che la vita è una iena. Lo si deve capir da soli.
Alla fine, finché il mondo non ti cade addosso, va tutto bene.
Tocco la scrivania e sento il freddo penetrare la pelle. Tocco la penna e sento il cuore scoppiare. Fuori piove, è udibile il ticchettio delle gocce infrangersi sull'asfalto. Anche i miei occhi si liberano dell'acqua superflua. Non dovrei, e lo capisco. Da ore i pensieri si concretizzano dentro di me, senza via di fuga. La mano trema e quando poggio la punta sulla carta, un urlo lancinante si disperde nella mente.
''Non ti ho perdonato.''
E' la prima frase. La prima verità che scrivo.
Indosso già le scarpe da ginnastica, la casa è troppo buia e spenta. Sono stanca. Stanca come non mai. Per questo mi alzo, per questo afferro velocemente la borsa e un'impermeabile. L'ombrello non ce l'ho. Chissà dove l'ho dimenticato questa volta, forse di nuovo sull'autobus oppure in qualche bar anonimo e in via di fallimento. Non sarebbe la prima volta, d'altronde. Lo so. Lo sai. Sono troppo sbadata per ricordarmene in tempo. Scendo le scale del palazzo, credo di aver chiuso il portone di casa, comunque sia, non sono abbastanza concentrata e ottimista per ritornare indietro e controllare.
Stringo tra le mani il foglio bianco, ancora. Esco e subentro nella strada. Dell'aria fredda mi punge il viso, e non solo. Apro la bocca e sento la gola bruciare al contatto con aria più pulita, per nulla viziata. Giro il capo a sinistra e scorgo la fermata dell'autobus. E' la prima volta, dall'ultima, che mi decido a guardarla per quella che è: morte.
Sono mesi che non aspetto più il pullman, sono mesi che non ho il coraggio di fermarmi lì, e rimuginare. Fa troppo male. Troppo. Il passo si è fatto pesante ma dopotutto raggiungo il luogo che ero solita frequentare tutte le mattine per arrivare a scuola. Un luogo consueto, senza nulla di particolare. Per pochi attimi mi guardo intorno e non vedo altro che le auto passare ad alta velocità davanti ai miei occhi.
Osservo il palo dove è segnato il cartello della fermata. Un dejavù vorace mi toglie il respiro. Era di questo che avevo paura. Fortemente. Inspiro dalle narici e -invano- cerco di scacciare il brutto ricordo delle sue mani stringere. Cerco di scacciare il ricordo di un sorriso limpido e pulito, qual era il suo.
Porto la mano sulla fronte e asciugo le gocce di pioggia che cominciano a bagnarmi il viso. Giro lo sguardo dall'altra parte e scorgo qualcosa. Peggio. L'autobus sta arrivando. E' giallo, piccolo, come sempre. Non è cambiato. Vorrei scappare, ritornare indietro, fare retro marcia, il coraggio sta per abbandonarmi completamente, indietreggio di poco, ma è troppo tardi.
Il pullman si è fermato, la porta automatica è stata aperta. L'autista mi guarda, uno strano odore di sigaretta impregna le narici, abbasso il capo e salgo i tre gradini, meccanicamente.
E' vuoto.
Raggiungo l'ultimo posto e quando mi siedo sembra di percepire il suo calore mentre mi abbraccia, mentre cerca il mio sguardo e le mie labbra. E' successo lì, per sbaglio. Lo ricordo bene. Ascoltavo la solita musica e lui mi osservava con i suoi occhi così cristallini. Mi fermò. Fermò la musica ed il tempo. Pronunciò il mio nome così velocemente che non riuscii a trarre in fretta le conclusioni. Ritrovai il suo viso ad un palmo dal mio e sentii il calore delle sue labbra posarsi sulle mie, fredde e screpolate. Sentii persino il battito cardiaco spegnersi, e i suoi occhi chiudersi con velocità. Mi giro verso quei due posti fatidici e non c'è più nessuno. Il flashback è finito. Il bacio era finito. La mia felicità ed il suo calore non fanno più parte di questa terra. Osservo di nuovo l'autista e mi accorgo che non è il solito vecchietto con i lunghi baffi bianchi e i capelli rapati. Sospiro. Che stupida masochista che sono. Nascondo il viso nel manico della giacca e digrigno tra i denti.
«Elen» sì, così mi chiamavi. Era il diminutivo più adatto e più consono al tuo accento marcatamente inglese.
«Elen... ?!» no, non usavi quel tono perentorio. Alzo lo sguardo. Per un attimo credo di vederti, di scorgerti in quegli occhi tanto familiare.
«Tu!» neanche il tempo di spiccicar parola che l'autista mi chiama. Rivolgo l'attenzione su di lui e noto che siamo arrivati. Affronto il corridoio del pullman fino ad arrivare davanti all'uomo che m'aveva chiamato. Era salito proprio alla fermata in cui dovevo scendere. Ovvio. Perché si faceva tutte quelle domande? Era tutto così ovvio, alla fine.
«Dovrei passare ...» dissi in un sussurro.
«Finalmente» . Rispose. Una risposta con troppi doppi fini. Scossi la testa e lo superai nettamente scendendo dall'autobus senza neanche recare un saluto all'autista.
Alzai lo sguardo verso l'insegna fino al cancello in ferro nero. Un sospiro breve si fece largo tra i mille pensieri.
«Come potrei abbandonarti?» lo aveva affermato solamente una settimana prima di lasciarmi sola in questo mondo. Gli risposi, stupida com'ero: « Io ci riuscirei!» ebbene, la vita mi aveva messo alla prova e il finale era stato un tormento crudele, in un letto di rose rosse e di pianti senza fine.
La via principale è libera, sistemo meglio il cappuccio dell'impermeabile e neanche una volta rivolgo lo sguardo a ciò che mi circonda. Sento solamente il profumo di fiori, e la voglia pazzesca di urlare a squarciagola. I grilli gracchiano senza felicità e le persone si incontrano raramente. Solo una volta, in quel giorno struggente, decisi di esserci e così la strada per raggiungerlo fu impressa a fuoco nella mia mente.
Ecco, lo vedo. Ti vedo. Non mi fermo, continuo a camminare per arrivare a te. Brilli più del sole, il solito sorriso languido si è formato sulle labbra. Mi aspettavi. Lo so. Vengo bloccata solamente quando sono ad un palmo dal tuo viso. E' una lastra a dividerci. Una lastra fatta di vetro e di affetto. Le persone ci circondano e pensano, ingenuamente, che io stia osservano in lacrime amare una lapide semivuota. Un caro giovane morto presto. Il respiro si blocca, la tua mano si poggia sulla lastra ed io la raggiungo con la mia. Sento solo il freddo della tua perdita e il foglio bianco stretto nell'altra di mano. Sento il viso pizzicare e inumidito dalla troppa pioggia e lacrime. Tutto terribilmente aspro. La tua foto giace sulla lapide. Ancora. Non riesco a non osservarla, non riesco a non guardarti. Come all'epoca: sono sempre stata riluttante all'idea di distaccare i miei occhi dal tuo corpo e dal tuo viso così angelico e perfetto, per me. Allontano la mano dalla lastra, vedo il tuo sorriso affievolirsi e lo sguardo cadere per terra.
Sento una forza invisibile bloccarmi, come se fossi diventata d'un tratto un pezzo di ghiaccio. Abbasso la testa per vedere cosa tu stia osservando e noto di nuovo il foglio la cui frase imperatoria giace senza speranza.
L'ennesimo sospiro.
«Non ci sono riuscita. Non riesco a distaccarmi da quel giorno, sono legata a te così come una madre è legata al proprio bambino dal cordone ombelicale. Continuo ad incolparti: sei stato tu ad abbandonarmi! Forse perché non accetto la verità: sono stata io a lasciarti andare» .
Sei volato via da me.
Le lacrime, ora, scendono con rapidità sulle guance, lo stomaco è contratto in una morsa di dolore. E' tutto terribilmente amplificato, mi sento una povera illusa, ed ho paura. Sempre più. Mi accascio per terra, le ginocchia urtano pesantemente su terriccio bagnato, le braccia sono molli e la testa è nient'altro che fumo nero. Sento la tua mano cercare la mia, ma è solo un lontano miraggio. Una brutta illusione. La sofferenza è qualcosa di soggettivo. Dicono che gli artefici del nostro destino siamo noi; ma non ne sono poi così sicura. Nel mio destino c'era una vita con te, in cui nessuno dei due avrebbe avuto il coraggio di abbandonarsi. Ma questa volta, a giocar alle nostre spalle, è stata la morte.
«''Perché ti ho amato, ma non ho mai avuto il coraggio di dirtelo''» . Citava l'ultima riga del foglio bianco.
'E mi dispiace' pensai infine, mentre i ricordi cominciano a sbiadire irrimediabilmente.

Tua,

Elen



“Cimitero/1997”


___________________________________________________________________________________________________
Angolo autore:
Hola!
Premetto che è la mia prima one-shot drammatica. Quest'idea mi frullava da un po' in testa e, finalmente, ho deciso di metterla "su carta".
In alcune parti, del testo, avrete notato del passaggio in cui parla Elen con le sue riflessioni e alcuni angoli in cui Elen parla con lui.
Ebbene, è del tutto voluto. La protagonista è affetta da questi sbalzi in cui parla direttamente con l'uomo che l'ha abbandonata.
A parte questo, non ho molto d'aggiungere u.u, sono curiosa dei vostri commenti e cosa pensate di questo 'esperimento'. Spero di leggervi presto! Un bacio.

________________________________________________________________________________

Link Pagina-Facebook: https://www.facebook.com/pages/TomMirtilla-la-storia/199894223523683
Link Ask: http://ask.fm/MeryScrittrice
Link Facebook-Vella: https://www.facebook.com/mery.animainfuocata
   
 
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: Vella