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Autore: UncleObli    27/11/2013    1 recensioni
Sono passati cinque mesi da quando è morto il mio migliore amico, il mio unico fratello. Dopo cinque mesi ho provato a scriverne, per provare ad esorcizzare un ricordo che ancora oggi mi tormenta. Mi manchi, fratellino. Il fatto che tu fossi un cane non diminuisce di una virgola il rimpianto che provo.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I tuoi occhi mi tormentano...

Apro la porta di casa, stanco ma soddisfatto. Era stata una giornata tranquilla, uno di quei primi giorni d'estate che si passano fra amici, a godere insieme della ritrovata libertà. Fra scherzi, giochi e risate in allegria il pomeriggio era passato in fretta, e non mi ero accorto dell'ora tarda. Avevo promesso ai miei che sarei tornato per cena, e mi preparo mentalmente a ricevere gli immancabili rimproveri del caso. Mentre appoggio lo zaino per terra, mi accorgo di qualcosa di strano. In casa non c'è nessuno. Le finestre sono aperte, e lasciano entrare un giocoso vento estivo che mi scompiglia i capelli, ma la tavola non è apparecchiata e non c'è traccia di cibo sui fornelli. Solo dopo qualche secondo realizzo che non c'è nemmeno il cane, che di solito mi assale festoso non appena metto piede in salotto. Alzo un sopracciglio, irritato. Con un sospiro, inizio a preparare la tavola e a mettere su qualcosa per la cena. Dopo una decina di minuti squilla il telefono. Con un vago presentimento, rispondo a mia madre e le chiedo dove diamine sono finiti. La sua voce è affaticata, come dopo una lunga corsa. Sento rumori sgradevoli in sottofondo. Un cane abbaia, e due uomini stanno discutendo animatamente. Con poche parole sbrigative mi spiega la situazione. Io cerco di mantenermi controllato, al meglio delle mie possibilità. Riaggancio rapidamente e spengo l'acqua per la pasta. Chiudo le finestre e abbasso leggermente le persiane. Poi corro. Non sono mai stato un tipo particolarmente atletico, ma il percorso da casa mia all'ambulatorio veterinario credo di averlo fatto in un lampo. Ignorando le occhiate di rimprovero dei passanti e le risate dei bambini vicino al parco giochi, corro come se ne andasse della mia vita, e non di quella del mio cane. Arrivo che sono tutto sudato, e non solo per la corsa o per il caldo di giugno. Cercando di controllare il tremito alle mani, entro nella sala dove mi sembra di riconoscere la voce dei miei, senza bussare. Il veterinario mi riconosce, e ci scambiamo un rapido cenno di saluto. Alto, rosso di capelli e dallo sguardo gentile, sembra veramente preoccupato, e si gratta insistentemente una guancia. Sono tentato di chiedergli di smetterla, ma mi trattengo. I miei genitori non parlano. Su un angolo della stanza, il mio cane mi guarda, e con un luccichio felice negli occhi mi corre incontro. Barcolla leggermente, come se fosse ubriaco, e ha qualcosa attaccato alla zampa. Io mi accuccio e gli gratto le orecchie con una mano mentre con l'altra lo accarezzo. Il veterinario prende la parola per spiegarmi la situazione.

-Penso sia stato avvelenato. I problemi di deambulazione indicano un lieve danno al sistema nervoso. Ora sta meglio perché gli ho dato del Valium, ma bisogna portarlo in clinica, se volete salvarlo. Abbiamo provato a farlo vomitare, ma non c'è stato verso...-

Scuote la testa, stanco e imbarazzato. Io lo fulmino con lo sguardo. Il “se” non mi è piaciuto, inutile negarlo. I miei fanno una smorfia e a tutti e tre passa per la testa lo stesso, orribile pensiero. Mio padre prende in mano la situazione. Ho sempre apprezzato questo lato di lui, nei momenti più difficili sa sempre cosa fare e come farlo, in più non si perde mai d'animo. Chiede al giovane veterinario l'indirizzo della clinica e dove portarlo, poi si rivolge a me.

-Io e mamma andiamo in clinica. Non serve che vieni anche tu. Torna pure a casa e ordinati una pizza. Noi torniamo presto, d'accordo?

Io annuisco. Una decisione che ho sempre rimpianto, in questi ultimi cinque mesi. Naturalmente non sarebbe cambiato nulla se fossi andato con loro, beninteso, ma cionondimeno mi sento come se avessi commesso un imperdonabile errore. Il mio cane mi lecca piano la mano. Sembra abbia capito che non ci vedremo più. Negli occhi già velati dalla morte, una preghiera.

Non abbandonarmi.

Non abbandonarmi.

Non abbandonarmi, ti prego.

Io però scelgo di non ascoltarlo. In realtà so benissimo per quale motivo non l'ho accompagnato, quel giorno. Lo squallore della malattia è un qualcosa che nessuno vuole vivere, neppure come spettatore. In una parte del mio cuore ho preferito distogliere lo sguardo, per pura e semplice comodità. Sono un codardo. Lo accarezzo con noncuranza, per l'ultima volta. Poi mi alzo e me ne vado. Ordino svogliatamente una pizza. Ad essere completamente onesti che morisse era l'ultima delle mie preoccupazioni. Per essere più precisi non la valutavo come la peggiore ipotesi. Sarebbe stato molto peggio, credevo, se a causa del veleno avesse subito un danno permanente. Ceno con calma, senza veramente sentire i sapori. Per ingannare la noia accendo la radio. Sparecchio e mi butto a letto, mentre le ombre della notte si allungano senza sosta. Come scoprii più tardi, a quell'ora era già morto. Forse mentre io ascoltavo “Five Spot After Dark” di Curtis Fuller il corpo del mio cane veniva staccato dalla flebo e messo in un sacchetto di plastica nero della spazzatura, pronto per essere gettato nell'inceneritore l'indomani. Qualche minuto dopo, i miei rincasano. Con apprensione, aspetto che parlino. Lui sorride, la faccia tirata.

-Intanto l'hanno messo sotto flebo. Hanno fatto le analisi per capire il tipo di veleno e potergli dare l'antidoto. Se sopravvive alla notte ha buone probabilità di cavarsela. Andrà tutto bene, vedrai.-

Io annuisco, e fingo di non capire che è tutta una menzogna. La chiamata arriva mentre io gioco al computer con un amico. E' mio padre a darmi la notizia. Io lotto per trattenere le lacrime che già iniziano a scorrere sul mio viso. Nonostante tutto sento come se un solco dividesse me dal mondo esterno.

-Mi dispiace...- commenta il mio amico. Sento il solco farsi più profondo. I miei piangono in salotto, mentre io accarezzo come in trance la coperta sul mio letto dove il mio cane si accoccolava ogni sera. Improvvisamente sento una grande rabbia, oltre alla tristezza. Un dolore sordo che mi fa pulsare un lato della testa. Getto per terra tutto ciò che mi capita a tiro, e tiro un pugno alla parete. Poi esco di casa, prima che i miei possano fermarsi. Ho bisogno di pensare. Cammino per qualche ora da solo, senza parlare con nessuno. Penso a tutto quello che hanno significato per me questi tredici anni con lui. E con tutto me stesso inizio a rimpiangere di non essere andato in clinica. Ma ormai è tardi, e non avrò mai la possibilità di cambiare gli avvenimenti del pomeriggio. Capisco per la prima volta cosa significhi veramente aver fatto un errore irreparabile. Seduto su una panchina del parco giochi, al buio e da solo, piango in silenzio. La mattina dopo convinco mio padre a non lasciare il corpo alla clinica. Non sopporto l'idea che un corpo così morbido, caldo e amato finisca in cenere in un secondo, solo perché la vita ormai lo ha abbandonato. Il cielo è così azzurro, e tutti sembrano felici, felici di un estate che a me invece ha portato solo dolore. Quello sguardo mi tormenta. Mi torna a trovare quando non me l'aspetto, mi sveglia la notte o non mi lascia dormire. Mi cerca nei miei incubi.

Mi hai abbandonato.

Mi hai abbandonato.

Sono morto da solo, ed è colpa tua.

Sono io a ritirare il corpo. Ho voluto farlo, perché era mio dovere. Non toccava a nessun altro occuparsene. Il veterinario della clinica mi racconta come è morto, dice che non ha sofferto. Mi accompagna nei meandri della clinica, per consegnarmelo. Dopo qualche minuto che camminiamo entra in una stanza. Lo seguo. Sul tavolo, un sacchetto dalla forma irregolare ma familiare. Si riconoscono le zampe e la testa. D'istinto, mi viene da vomitare. Il veterinario se ne accorge, e mi tocca la spalla, comprensivo. Sembra gentile, ma per lui provo solo odio. Eppure non è l'odio a dominarmi: il mio senso di colpa pulsa dolorosamente all'unisono con il silenzio assordante della morte. Con una smorfia, lo prendo in braccio. Prima di tornare alla macchina per tornare a casa mi siedo sulle panchine dell'ingresso e cullo il corpo come se potesse servire a qualcosa. Mentre lo cullo gli parlo, sottovoce. Gli spiego quanto è stato importante per me e quanto mi sia pentito di averlo lasciato morire da solo, in gabbia. Quanto terrore e quanta rabbia deve aver provato prima di passare nel vuoto...Il suo silenzio mi annienta. Quel cuore piccolo e fragile non batte più. Ci sarebbe stato il tempo della rabbia, delle inutili ricerche per risalire al responsabile dell'avvelenamento, delle battaglie legali atte solo a sfogare la propria frustrazione contro la noncuranza che ce l'ha portato via...ma non oggi. Qusto è il giorno del cordoglio. Sono sempre io a seppellirlo. Scavo anche se sono debole e i miei muscoli bruciano, scavo per seppellire i miei errori...scavo fino ad accorgermi del sangue caldo che mi scorre dalle mani sulla terra smossa. Poi lo appoggio con delicatezza sul tumulo improvvisato, accarezzandogli la testa piano, come se avessi paura di fargli male. Vicino a lui lascio le sua pantofole preferite. E con lui, se ne vanno i tredici anni migliori della mia vita.

La morte è un mostro che caccia dal gran teatro uno spettatore attento, prima della fine di una rappresentazione che lo interessa infinitamente.

- Giacomo Casanova -

 

  
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