Storie originali > Soprannaturale
Segui la storia  |       
Autore: LilithJow    30/11/2013    4 recensioni
Io avevo sempre odiato la morte, così come le persone che le andavano incontro; quelle che rinunciavano alla propria vita, sperando in un'esistenza migliore, che però non c'era e io lo sapevo bene. Non capii perché nella mia mente si materializzò l'idea di permettere a Sebastian di uccidermi e non era qualcosa di simile a ciò che era successo in precedenza.
Avevo deciso di sacrificarmi per permettere a Simon di vivere e ritenevo che fosse una buona motivazione. Ma allora, una ragione non c'era, eppure lo desideravo comunque. - SEGUITO DI "LULLABIES"
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Lullabies Saga'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Capitolo 15
"Defeated"


Ci sono sessanta secondi in un minuto, tremila e seicento in un'ora.
Li contai tutti, uno dopo l'altro, perché pensai che focalizzandomi su qualcosa che non fosse il disastro che mi stava attorno, lo avrei automaticamente rimosso dalla mia testa.
Funzionò, fin quando non arrivai a tremila e seicento-uno. Fu allora che smisi di contare ed ogni cosa tornò a travolgermi.

Fu peggio di prima.

Ero ancora in piedi nella stanza – ora vuota – di Simon. Dalla finestra aperta provenivano folate di vento gelido che mi facevano venire i brividi, ma non mi sforzai di andare a chiuderla. Era come se avessi sviluppato una sorta di apatia ed estraneità al mondo al di fuori e che niente potesse veramente scalfirmi a livello fisico. Semplicemente non mi importava. Ero sul punto di crollare. Avevo estremo bisogno che qualcuno raccogliesse i miei pezzi e li rimettesse insieme, che qualcuno mi confortasse, che qualcuno mi dicesse che ogni cosa si sarebbe sistemata, credendoci sul serio.

E invece non c'era nessuno. Simon se ne era andato, Martha era lontana anni luce.

Sì, mi stavo spezzando.

Abbandonai lentamente quel luogo, lasciando la porta spalancata. La casa era immersa nel silenzio, così in contrasto al caos che avevo dentro di me.
Le mie gambe erano pesanti, dovetti trascinarle lungo il corridoio.
Non seppi perché, dopo qualche secondo, mi ritrovai davanti alla stanza di Thomàs. Non volevo recarmi lì. La mia mente mi diceva che... No, la mia mente si era spenta del tutto, mi aveva abbandonata. Non ero più razionale, non ero più lucida. Ero allo sbaraglio.

 

Bussai piano alla porta. Lui ci mise un po' ad aprire: aveva ancora l'espressione assonnata quando lo fece. «Hazel?» biascicò. «Sono le... Quattro di notte. Che ci fai sveglia?».
Non risposi. Lo fissai e basta, immobile. Thomàs aggrottò le sopracciglia, perplesso. «Tutto bene?» domandò. Fu allora che persi completamente il controllo, sotto ogni punto di vista.
Mi gettai su di lui, posando un palmo sul suo collo e uno sul petto. La mia bocca finì sulla sua, lo baciai.

Lo baciai non perché lo volessi, ma perché ne avevo bisogno, pur consapevole di quanto fosse inaccettabile e del tutto scorretto nei suoi confronti. In quel momento, tuttavia, non mi importò.
Quando mi distaccai, avevo il fiatone per aver trattenuto il respiro durante quel gesto. Thomàs mi fissò, confuso e allo stesso tempo felice.
«Stringimi» mormorai e fu lui a baciarmi di nuovo, tirandomi dentro e chiudendo distrattamente la porta alle nostre spalle. Mi cinse i fianchi con entrambe le mani e, senza abbandonare le mie labbra, indietreggiò fino a quando non raggiunse il letto. Si sedette e fece mettere me a cavalcioni sulle sue gambe.

Le sue dita iniziarono a scorrere sulle mie cosce e piano si spinsero più su, sotto la t-shirt bianca che indossavo. Ero perfettamente consapevole di ciò che stava per accadere e, purtroppo per me, i sensi di colpa si erano dissolti, erano scappati via.
Me ne sarei pentita, avrei rimpianto quel giorno per sempre, eppure non ebbi l'impulso di fermarmi.

Non quando lui mi spogliò.

Non quando io spogliai lui.

Non quando mi sdraiai tra quelle lenzuola e respirai il suo odore.

Perché in quel momento concedermi a Thomàs sembrava essere la soluzione ad ogni mio problema. Per me, per dimenticare e per sentire qualcosa di diverso dal dolore lacerante che continuava ad opprimermi ogni secondo.

Le sue labbra vagavano lievi sul mio collo e sul mio petto, tra i seni. Respiravo a fatica, ancora, ma non avevo intenzione di chiedergli di fermarsi. Ogni parte del mio corpo stava formicolando, desiderosa, bruciata da quella che – per sentito dire – era passione.
Già, gli umani usavano spesso quella parola, anche se io non avevo mai avuto occasione di provare una sensazione così forte sulla mia pelle. Una delle conseguenze dell'apatia forzata: tutto era attutito e percepito in maniera eccessivamente minore rispetto al normale.
Socchiusi gli occhi, lasciandomi trasportare da ogni singolo fremito che mi stava pian piano avvolgendo. Quando li riaprii, il viso di Thomàs era tornato a livello del mio. Pregai affinché non proferisse parola. Sostenere il suo sguardo era un conto, ma se solo avesse parlato, mi avrebbe costretta a pensare e... Pensare non era affatto una buona idea, in quell'istante.
Così, per evitare ciò, premetti il mio viso contro il suo. Un altro bacio e poi un altro e un altro ancora. Le mie mani andarono fra i suoi capelli, glieli tirai e lui gemette appena. Dopo mi afferrò per i polsi e mi bloccò le braccia ai due lati della testa. Non opposi resistenza, nemmeno per un secondo: sarebbe stato stupido.
Mi abbandonai completamente a lui, ai suoi gesti a tratti lievi e a tratti rudi, al suo mordermi le labbra e sfiorarmi appena le guance.
La mia prima volta da umana fu ben diversa da come l'avevo immaginata. Ciò che provai fu diverso: puro piacere, misto a quell'accennato dolore che però era bello da sopportare. Strinsi i pugni e, involontariamente, mi conficcai le unghie nei palmi.

E dopo chiusi gli occhi.

 

***


Riuscii a dormire, per quanto ventidue minuti potessero essere attribuiti a tale verbo. Probabilmente fu il mio corpo, stremato, a decidere di concedermi quel poco tempo di riposo.

Quando mi svegliai, mi trovavo ancora nel letto di Thomàs. Un fine lenzuolo bianco mi ricopriva dal busto fino a metà coscia, lasciandomi spalle e gambe scoperte.
Lui era ancora assorto nel sonno. Sperai non si svegliasse, poiché non avrei avuto il coraggio di guardarlo negli occhi – perlomeno, non allo stesso modo – dopo le ore appena trascorse. In realtà, ero certa che non sarei riuscita neanche a fissare il mio riflesso allo specchio, come previsto.
Cercai di alzarmi senza produrre il minimo rumore, ma riuscii solamente a mettermi seduta sul materasso e toccare il pavimento con un solo piede che la voce di Thomàs mi fece sobbalzare.

«Stai cercando di sgattaiolare via?».

Feci una smorfia e mi sentii incredibilmente goffa. «No, io...» cercai di dire e lui mi aveva già raggiunto, in ginocchio dietro di me, con le mani sui miei fianchi e la bocca premuta sul mio collo.
Lentamente, le sue dita scivolarono più in su, fino al mio viso. Mi invitò a girare appena il capo, così da potermi baciare sulle labbra. Fu a quel punto che dovetti costringermi a distaccarlo e mi sforzai di non essere troppo brusca.

«Che c'è?» domandò Thomàs, ancora pericolosamente vicino alla mia faccia.

«Questo non...» balbettai. «Non farlo più».

«Perché?».

«Perché... Non voglio che tu ti sia fatto una strana idea e... E pensi che adesso siamo una coppia o qualcosa del... Del genere». Feci una breve pausa, solo per riprendere fiato. Era come se fossi in apnea, mentre parlavo. «Quello che è successo stanotte» aggiunsi «non si ripeterà».

Lui accennò una risata. Evidentemente, il mio balbettare aveva reso quel discorso esilarante. «Paura che il ragazzino ci abbia sentito?» esclamò. Roteai gli occhi, strisciando indietro sul materasso, con il solo scopo di allontanarmi il più possibile dal suo viso. «No» dissi. «Simon... Simon se ne è andato».
Dopo quella frase, Thomàs cambiò espressione. Non la riconobbi come rabbia o rancore. Era qualcosa di assolutamente indecifrabile, né triste, né felice, ed era quella che, più di tutte, riusciva a rendermi nervosa. Forse si era reso conto che ero andata da lui solo per consolazione e nulla più.
Conoscendo i suoi trascorsi, avrebbe potuto scattare e divenire quell'essere irriconoscibile che aveva attaccato Martha e... Sì, appunto, Martha.
Se solo avesse scoperto quel che era appena accaduto, sarebbe impazzita. Era come se l'avessi tradita in qualche modo.

«Mi dispiace» disse Thomàs, dopo qualche secondo. «Per... Simon». Aggrottai le sopracciglia, perplessa. «Perché? Tu lo odi».

«Non lo odio. E' solo che non nutro particolare simpatia nei suoi confronti».

Abbozzai una risata, priva d'entusiasmo. «Quale sarebbe la differenza?».

«C'è una sottile e significativa differenza tra le due cose» esclamò e si alzò dal letto rapidamente, indossando solo un paio di boxer bianchi. «Sinceramente, però, non mi va di spiegartela» aggiunse.
Feci per replicare, ma un suo gesto mi precedette. Sulle mie gambe ancora distese, semi-coperte dal lenzuolo, Thomàs poggiò la sua maglietta celeste e si allontanò con disinvoltura. «Questa cos'è?» domandai, retorica.

«La mia maglia» rispose, già dall'altra parte della stanza.

«E... Che dovrei farci?».

«Metterla».

La perplessità crebbe e avrei detto qualcosa, ma, ancora una volta, mi anticipò: «Oppure no. Non lo so, è abitudine. Tu fai quel che vuoi, io... Vado a fare una doccia».

Si congedò con quella frase, chiudendosi dentro al piccolo bagno della stanza. Io rimasi ferma, seduta sul materasso. Rigirai la t-shirt tra le mani. Per un solo attimo ebbi l'impulso di indossarla, ma sarebbe stato abbastanza sciocco. Era sciocco soprattutto rimanere in quella stanza.
Mi alzai, allora, e rapidamente raccattai i miei vestiti e me li misi addosso. Sperai di non aver fatto troppo rumore, anche se il getto d'acqua calda della doccia avrebbe dovuto attutire ogni cosa.
Corsi via dalla camera di Thomàs, rintanandomi nella mia, poco distante. Chiusi addirittura la porta a chiave, come se quella fosse una sorta di difesa da... Praticamente tutto.

Essere sola portò a galla tutti i pensieri della sera precedente, più ulteriori sensi di colpa, rimorsi e rimpianti che si erano ammutoliti e colsero l'occasione per tornare alla ribalta con prepotenza.

Avevo seriamente trascorso la notte – era solo qualche ora e per di più quasi al mattino, ma il concetto era quello – tra le braccia di Thomàs con la catastrofe che mi stava accadendo attorno?
Ero davvero stata così egoista da mettere il mio bisogno di consolazione e supporto di fronte a un bene esageratamente superiore? Di fronte all'amicizia di Martha e... E al mio amore per Simon. No, quello non era scomparso, nemmeno per un istante.
A volte, nel tempo appena trascorso, chiudevo gli occhi e, quando li riaprivo, speravo di vedere il suo volto e pregavo affinché tutto il resto fosse solo un brutto sogno.
La parte peggiore era che sentirmi in colpa aumentava i miei sensi di colpa, poiché pentendomi delle mie ultime azioni, ferivo inesorabilmente Thomàs.

Era un'arma a doppio taglio e io stavo continuando a guadagnare cicatrici.

 

Passai il resto della giornata chiusa nella mia camera, seduta sul davanzale della finestra. Fissavo fuori e mi aspettavo che, da un momento all'altro, avrei visto Simon tornare e, insieme, avremmo rimediato ad ogni cosa.
Non accadde nulla, ovviamente. Creai mille piani d'azione nella mia testa, come uscire, trovare Tamara e darle una lezione, ma da sola, lì fuori, sarei durata poco. Inoltre, non avevo la benché minima idea di dove cercarla e in che modo farlo. Per quanto ne sapevo, avrebbe potuto essere lontana solo un paio di chilometri o in un altro continente.
Presumevo anche che Thomàs bussasse insistentemente alla mia porta, chiedendo ciò che per giorni si era rifiutato di fare – parlare – ma ebbi di nuovo torto.

A fine giornata, a sole già calato da un pezzo, solo la fame mi costrinse ad abbandonare la mia stanza e a scendere al piano di sotto.
Controllai che il corridoio fosse libero – nemmeno fossi una ladra – e mi precipitai giù per le scale. L'idea era quella di prendere qualsiasi cosa avessi trovato e tornare di corsa al piano di sopra, di nuovo nella mia solitudine.
Tuttavia, giunta solo in salotto, ebbi la cattiva sensazione che qualcosa fosse fuori posto. Non seppi dire con certezza cosa e il buio in cui era immerso il luogo non aiutò.
Volevo accendere la luce, ma prima che la mia mano raggiungesse l'interruttore, mi sentii afferrare per le spalle, con forza. Qualcuno mi tirò e andai a finire, di peso, contro la parete opposta della stanza. Battei violentemente la spalla destra e trattenni a stento un urlo. Seppur intontita da quel dolore, tentai di rimettermi in piedi, ma non ci riuscii: chiunque mi avesse attaccato pochi secondi prima, mi aveva già raggiunto e fu pronto a stringere le dita sulla mia gola, sollevarmi e gettarmi nuovamente a terra, con maggior foga.
Allora urlai, sia perché mi stava facendo male, sia per implorare aiuto. Cercai di difendermi come meglio potevo, però il mio aggressore era più agile di me e molto più forte. Non potei evitare i pugni che mi colpirono il viso e i calci che mi martellarono lo stomaco, nemmeno strisciando sul pavimento per allontanarmi e scappare.
All'improvviso, però, essi cessarono. Non fu un bene poiché le mie gambe furono bloccate da quelle del nemico e io non potei più muovermi. Ero supina sulle assi di legno che costituivano il pavimento, sentivo il sangue colarmi dal naso e della bocca, gli occhi pizzicare ed ero a corto di fiato.
Se fossi morta in quel momento, sarebbe stato davvero un brutto modo di andarsene. E poi, per opera chi?
Chi mi aveva trovata? Come era riuscito ad entrare in quella casa così isolata e serrata? E, ancora, dove accidenti era Martha? O Thomàs? Erano scomparsi del tutto anche loro, senza che me ne accorgessi?
Non dovetti attendere molto prima di avere le giuste risposte e, sinceramente, avrei preferito tenermi i miei dubbi, piuttosto che scoprire quell'atroce verità.

Bastò poco: un lieve sussurro e gli ultimi pezzi di me si sgretolarono.

«Hai finito di esistere» fu la frase e seguirono dei lievi flash rossi nel buio della notte.

Martha.

La mia dolce, tenera, migliore amica Martha stava per porre fine alla mia lunga esistenza, come da lei appena annunciato.

Non stetti nemmeno a chiedermi il perché: la ragione era scontata e palese.

Sentii il suo urlo e improvvisamente la luce si accese. Vidi Martha a cavalcioni su di me, con un braccio alzato, brandendo uno di quei pugnali incantati che avevamo usato contro Sebastian.
Era irriconoscibile, con il volto contorto da una smorfia di rabbia e isterismo. Mi fissò, per un secondo, ad occhi spalancati, poi l'attenzione di entrambi fu catturata dalla presenza di una terza persona nella stanza. Fu facile indovinare chi fosse.
Thomàs era in piedi sulla soglia della porta del salotto, con le braccia a mezz'aria, leggermente protese verso di noi – o meglio, verso Martha, per incitarla a calmarsi.

«Che... Stai facendo, Martha?» le disse. «Fermati». Usò un tono piatto, rassicurante e lei tremò appena, stringendo più saldamente il manico del pugnale tra le dita.

Io lo sapevo benissimo cosa stava accadendo.

“Se l'amore può rendere un Divoratore più umano, cosa pensi possa fare la repulsione?”: era una frase che lei usava spesso.

La repulsione da parte di Thomàs l'aveva trasformata in un mostro cieco, non in grado di riconoscere i propri affetti. Avevo sperimentato quelle assurde sensazioni sulla mia pelle, mesi prima, ed ero addirittura arrivata ad uccidere.
Avevo sempre creduto che Martha fosse immune a tutto ciò, ma ancora non conoscevo Thomàs.
In quel momento avrei potuto tentare di liberarmi, ma il solo pensiero di combattere contro di lei mi provocava una fitta al cuore. Così rimasi inesorabilmente ferma, spostando lo sguardo sul viso di Martha, mentre i miei occhi si facevano lucidi.

«Non fare cose di cui potresti pentirti, d'accordo?» implorò Thomàs. «Metti giù quel pugnale». Martha scosse vigorosamente la testa e tornò a fissarmi. «Lui è mio» sibilò con voce spezzata.

«Mi dispiace» fu l'unica cosa che uscì dalla mia bocca, in un gemito, come se stessi soffocando. «Mi... Mi dispiace».

Le mie parole non la scalfirono, anzi: ebbi l'impressione che avessero solamente incrementato la sua collera, tanto che sollevò di più l'arma, preparandosi a colpire.

«No!» urlò Thomàs, il che la rallentò. «Non farlo» proseguì con tono più basso. «Per... Per favore, okay? Non farlo... Non... Lei è la tua migliore amica e tu lo sai. Sai che non vuoi farle del male».

«E' una traditrice!».

«No, non lo è».

«Merita di morire, doveva essere già morta». Era delirante. Quella non era la Martha che conoscevo. Persino la sua voce suonava diversa.

Io ero inerme. Quello era addirittura peggio del perderla e basta: il fatto che mi odiasse e che fossi io la causa del suo cambiamento così drastico rendeva ogni cosa insopportabile, al punto che, per un attimo, desiderai che mi uccidesse per davvero.
Buffo: da quando ero umana avevo bramato la morte un'infinità di volte che quasi non mi riconoscevo in quella convinzione nella quale mi rifugiavo da Divoratrice e cioè che la fine della vita prima del suo tempo fosse un crimine atroce.

«No, ascolta» disse ancora Thomàs. «Sei arrabbiata. Non sei tu a pensare queste cose, è solamente la rabbia. Tu non penseresti mai a qualcosa del genere, tu non sei... Non sei capace di azioni così orribili».

Martha tremò nuovamente. Non seppi dire se fosse sul punto di cedere o che altro. Di certo, però, lui agiva in qualche modo sul suo comportamento.
Le parlò, ma io smisi di ascoltare. Mi ero focalizzata sul viso della mia migliore amica, sul suo sguardo che passava da me a Thomàs in maniera talmente repentina da farmi girare la testa. Ad un tratto, tuttavia, ogni suono cessò. Ci fu silenzio per esattamente sedici secondi.
Poi Martha urlò e vidi la mano che impugnava la lama scendere rapidamente e con forza su di me.

L'istinto mi portò a chiudere gli occhi, come se mi preparassi a ricevere un colpo in pieno petto, quel colpo che mi avrebbe uccisa e mi avrebbe trascinato verso la morte.

Ma quando il silenzio tornò, non accadde nulla.

Sollevai le palpebre, col cuore che palpitava ad un ritmo eccessivamente accelerato.

Il pugnale era conficcato nel pavimento di legno, a pochi millimetri dalla mia guancia. Non mi aveva sfiorato, ma era pericolosamente vicino. Avevo il fiatone dopo aver trattenuto il respiro durante quel breve intervallo, complice l'ansia e la paura.

«Godetevi il vostro tempo insieme» sentenziò, acida, e, prima che qualcuno di noi potesse dire qualcosa, si dissolse nell'aria.

  
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale / Vai alla pagina dell'autore: LilithJow