Fanfic su attori > Tom Hiddleston
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Autore: Clio93    12/12/2013    4 recensioni
Dal Prologo :"Quando incontro un paio di grandi e limpidi occhi azzurri, un volto dai lineamenti delicati, fanciulleschi e la fronte ampia su cui, elegantemente scomposti, ricadono boccoli bagnati e rivoli di pioggia, trattengo un singulto.
No, non può essere lui.
Non può essere…
Tom Hiddleston.
E non posso fare a meno di scoppiare nuovamente in lacrime.
Questa è stata, ed è, una giornata veramente di merda."
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 1
La scimmia urlatrice è lieta di presentare:
“Una serie di sfortunati, anzi sfortunatissimi eventi”,
con la partecipazione straordinaria di un povero attore,
quasi diventato killer!
 
Questa è la segreteria telefonica di Berenice Minardi:
se dopo il segnale acustico dovete chiedere dei soldi,
insultarmi, ricordarmi che sono una pazza maniaca del
controllo allora fareste meglio a non sprecare fiato perché
non risponderò. Se invece siete o mia madre, o mio padre,
se volete offrirmi un lavoro o una borsa di collaborazione
allora non ci sono problemi.
Bene, ora potete lasciare il vostro messaggio. BIP.
- “Ma a te cosa fa male!? Bernie che razza di segreteria telefonica è?
Comunque è la quarta chiamata! Rispondi è importante. Darcy.
Ah, comunque, fatti vedere da un bravo psichiatra, ti serve”
 
Dio mio! E questi dovrebbero essere degli elaborati di studenti magistrali!? A parte gli orrori di ortografia (che sia io a correggerli, povera immigrata italiana, è tremendamente comico), ma i contenuti sono quelli di un ragazzino di quattordici anni che si improvvisa universitario. E’ inaccettabile, e dire che durante il tutoraggio mi sono spolmonata per rendere chiaro quello che pretendevo da loro e mi sono pure offerta di aiutarli durante la stesura. Avevo chiesto, più di una volta, se avessero capito e mi sono fidata, mi sono fidata degli sguardi vacui e dei cenni automatici della testa. Beh, se la metto così allora l’ingenuità è stata mia. No, questi maledetti inglesi devono assolutamente ridimensionare il loro ego colonialista e farsi una lavata di coscienza.
Malgrado sia quasi Natale il tempo è clemente, così ecco che mi ritrovo, imbacuccata dalla testa ai piedi, seduta in un angolino al sole di uno dei prati dell’UCL[1]: se avessi continuato la correzione di quegli aborti al caldo del mio piccolo studio, sono sicura mi sarebbe venuta una sincope.
Tiro fuori la matita rossa, afferro malamente un compito ed inizio a tracciare pesanti solchi sul foglio; la mano mi trema e non posso fare a meno di lasciare commentini acidi ad ogni riga, ridendo soddisfatta ed invasata come una delle Baccanti di Dioniso.
Almeno con Dioniso ti potevi fare una bevuta e una, anzi molte belle scopate! Sei in crisi di astinenza bella mia.
Sta zitta, cornacchia. Questa sera mi vedo con George e vedrai tu…
Se non vedo, non credo.
Con la mia coscienza è una battaglia persa, lo so, ma non posso farci nulla: se una è matta, è matta e poi mi piace litigare con me stessa. Sono figlia unica e da piccola (oddio, anche adesso pensandoci) mi capitava di parlare da sola: in fondo sono una buona compagna di me stessa. No, ridimensioniamoci, sono una che pensa troppo, polemica, intransigente, borbottona, tendenzialmente malinconica e un po’ misantropa; ho, ovviamente, i miei pregi, nessuno al mondo può arrogarsi il diritto di considerarsi un disastro totale. Nessuno, tranne me.
Lo so, lo so, ho un ego smisurato anche se lo nascondo perché odio profondamente scoprirmi, fare vedere chi sono…
Non ce la faccio, mi dispiace, non ce la faccio: questi scritti fanno schifo.
E’ venerdì, c’è bel tempo, questa sera ho un appuntamento dopo mesi di clausura e mi rifiuto di farmi rimporre la giornata da un branco di analfabeti che si credono i Popper o i Russel del 2000.
Sbuffo e accartoccio, letteralmente, i compiti dentro la sacca; mi alzo, mi pulisco il didietro dalle foglie e dai ciuffi d’erba e mi dirigo verso la metropolitana più vicina.
Non fraintendetemi, la carriera accademica è la mia passione: ho lottato con le unghie e con i denti per arrivare dove sono ora; ho studiato matta e disperata per riuscire a fare il dottorato in Storia della Filosofia antica all’UCL e ce l’ho fatta. Contro tutti i pronostici negativi, adesso, faccio un lavoro che mi appassiona, vivo a Londra, la città dei miei sogni, e il tutto studiando una materia che, mi duole ammetterlo, non ha molti sbocchi nel mondo del lavoro.
Ho provato a studiare Economia: ricordo ancora me, matricola, piena di entusiasmo alla prima lezione all’università. Mi piacque , insomma l’economia mi interessava ma… ricordo benissimo che la mattina dopo mi sono svegliata piangente, dicendo: “Lo so che questa sarebbe la scelta giusta, ma non posso… tutta la vita così. Se non facessi Filosofia me ne pentirei per tutta la vita”.
E come dice sempre mia madre: “Meglio un topo di biblioteca felice che una ragioniera frustrata”. Brava mamma!
L’università, però, non è il mio unico luogo di lavoro: infatti, per foraggiare la mia permanenza a Londra, avevo fatto anche stage di editoria e di giornalismo e così, attualmente, mi ritrovo a fare altri due lavori l’uno per una casa editrice indipendente e l’altro per una piccola ma onesta rivista mensile di arte, cultura e spettacolo.
Il giornale “Umanitas” (modestamente il titolo l’ho scelto io) è stato il mio primo impiego. Il colloquio lo feci quasi per gioco, data la mia non-esperienza giornalistica, eppure, sorprendentemente mi presero nella squadra. E’ vero: eravamo sull’orlo della bancarotta, sottopagati, la sede era un vero disastro, con infiltrazioni piovane e la quasi totale assenza di riscaldamento, ma ci siamo risollevati. Abbiamo perorato la causa, ci siamo improvvisati manager e siamo riusciti a far comprare il giornale da un magnate del petrolio, tal Jeremy Montgomery-Brown che, malgrado l’aria da pappone e spacciatore, si è rivelato un ottimo mecenate e amministratore. Mi piace il mio lavoro da capo-redattore/giornalista e poi la compagnia è stupenda: ci sono quella pazza, eccentrica di Darcy, poi Eliot, il nostro bravissimo e meticoloso grafico, quindi Rory, Megan, la nostra artistica fotografa e chi più ne ha più ne metta (diciamo che i nomi degli altri quindici si perdono nella memoria). Siamo noi, i fantastici cinque, la squadra operativa, la miglior gioventù.
Penso e per tutto il tragitto non posso far altro che sorridere felice: Londra mi fa bene. Altro che psicanalisi, la Gran Bretagna vale più di Freud e Jung messi assieme!
Arrivata a destinazione, faccio le scale a due a due per giungere al quinto piano del palazzo in centro dov’è la sede di “Umanitas”. Saluto Nelly, la segretaria, che credo abbia un altro dei suoi attacchi allergici tanto piange e mi dirigo con passo baldanzoso lungo il corridoio.
“Buongiorno a tutti, raggi di sole!” Esordisco ridente una volta entrata in redazione.
Lo sguardo che i miei colleghi mi rivolgono non è quello che mi aspetto.
Occhi rossi, sconvolti, oso dire disperati.
Ammutolisco,guardandomi attorno; le cose sono due: o Nelly ha contagiato tutti con una congiuntivite batterica fulminante, oppure è successo qualcosa. Qualcosa di molto grave.
“Bernie! Dove cazzo eri finita? E’ tutta la mattina che ti chiamo” Dal tono duro e dalla posizione aggressiva di Darcy sono più propensa per la seconda opzione.
Meccanicamente, prendo il cellulare dalla tasca e controllo: 20 chiamate e dieci messaggi.
“Che è successo?” Chiedo titubante. Ecco, signore e signori, come crollano i castelli di carta!
“Vieni” Darcy mi prende il braccio e mi trascina verso la sala riunioni, dove Eliot, Rory e Megan sono già seduti, chi camminando avanti e indietro, chi tenendosi la testa tra le mani e chi, come Rory, sbraita al telefono.
“…Non è possibile! Non c’è una legge, un sindacato che possa impedirglielo? Dei del cielo…tre mesi! Va bene, va bene. Buona giornata pure a te” Chiude il telefono di scatto e lo sbatte violentemente sul tavolo.
“Vaffanculo al liberalismo!” Impreca Rory, gettandosi su una sedia con gli occhi chiusi.
“Mi dite che succede?” Chiedo spazientita.
Quattro paia di occhi mi fissano allucinati: è inutile che mi guardino così, non posso sapere perché non ero presente.
“Finalmente! La desaparecida  è ricomparsa” Dice brusco Eliot.
“Ero all’università…”
“Sì, ma Darcy ti ha provato a chiamare un milione di volte” Mi rimprovera Megan.
“E che caz…”
“Basta !” Si intromette Darcy sedando la lite: “Fare così non ci porterà a nulla. Siedi Bernie” Ordina, con fare autoritario e sbrigativo. Non l’ho mai vista così: di solito è allegra, solare, sorridente, mentre ora è una maschera di preoccupazione e frustrazione.
“Raccontate” Li sprono, seduta sulla sedia in posizione rigida. Sto sudando freddo e ho il terrore che da un momento all’altro tutto il mio mondo crollerà; devo cercare di non tremare.
“Allora” Inizia Darcy: “Questa mattina mi chiama la segretaria della segretaria della segretaria di Montogomery. Mi chiede se quella mattina tu, Bernie, verrai al lavoro e io le rispondo di no, al che lei fa: “Perfetto” e dice qualcosa a qualcuno vicino a lei. Quindi mi comunica che verrà l’avvocato del padrone e David Brody, il legale del giornale. La cosa mi è puzzata fin da subito, quando ci sono avvocati in giro, ne so qualcosa dato che faccio parte della categoria, c’è sempre qualche problema. E infatti…” Darcy trema e si morde il labbro, un lampo di rabbia sfavilla negli occhi chiari una volta dolci e gentili.
“Arrivano alle 10 e 30 in giacca e cravatta quasi si trattasse della CIA. Ti dico solo che non si sono neanche premurati di parlare in un linguaggio comprensibile: sciorinavano decreti e leggi come se stessero parlando dei risultati del campionato di calcio. Vergognoso!” Non riesco a capire se a parlare è Darcy l’avvocato indignato contro la sua professione, o Darcy futura attivista politica. Fatto sta che ancora non si è giunti al punto della questione e io sto seriamente iniziando a sentirmi male: mi alzo, mi verso un bicchiere d’acqua e mi appoggio all’angolino di fronte alla finestra che dà sulla piccola strada laterale, sul retro del palazzo.
“Comunque, in parole povere, abbiamo un preavviso di tre mesi” Conclude, incrociando le braccia sotto al seno, il volto esausto.
“Preavviso per cosa?” Oh, ti prego non ditemi che ci affibbiano un’altra filiale e che saremo costretti a sgobbare come muli pure durante le vacanze di Natale: ho già il volo prenotato per Roma e non vedo i miei da troppo tempo per potermi defilare. Mi rilasso: in fin dei conti è solo lavoro in più; oddio, è vero che in queste circostanze ci sono molti licenziamenti ma, insomma, si può sempre trovare una soluzione.
Immaginavo che il signor Montgomery volesse ampliarsi, aveva sempre dato l’impressione di voler qualcosa di più grande: poi, negli ultimi mesi, ci aveva costretti in uno stato di semi-schiavitù perché dovevamo stilare il progetto per l’anno venturo, vari bozzetti, ricerche per nuovi sponsor…
Aspettate! Perché i miei colleghi si guardano così? Sembra quasi non riescano a trovare le parole, o meglio, sembra come se non sapessero a chi debba andare l’oneroso compito di mettermi al corrente di tutto. La cosa mi puzza, mi puzza molto e inizio nuovamente a sudare, con le mani che tremano così tanto  che non riescono a tenere fermo il bicchiere. Per dissimulare, mi porto l’acqua alle labbra e ingoio…
“Per il licenziamento Bernie. Vende e tra tre mesi chiudiamo”
SPRFFF
Eliot e Darcy,che mi erano davanti, fanno un salto all’indietro per evitare che l’acqua che ho appena sputato li bagni.
Chiudiamo.
Si vende.
Licenziamento.
Mi devo trovare un appartamento meno costoso.
Non ti puoi comprare quel bellissimo completino intimo blu notte…
Zitta! Ti pare il momento?
Li guardo stralunata e per un secondo ho l’impulso di issarmi sul cornicione e di gettarmi (non è vero, penso solo all’idea di rotolarmi per terra urlando e strappandomi i capelli. La prima opzione faceva solo molta scena); mi riprendo subito e, come di consueto, non riesco a trattenermi.
“CHE COSA?” Urlo con tutto il fiato che ho in gola, e so perfettamente che tutti, nell’arco di almeno un chilometro, mi hanno sentita. Stringo la presa sul bicchiere, accartocciandolo e schizzando di acqua tutto il pavimento.
“E’ così Bernie. Non ci hanno dato la possibilità di ribattere o altro.” Spiega Morgan che si è alzata e si è avvicinata a me, stringendomi dolcemente per le spalle.
Sono incazzata come una vipera, non solo e non tanto per quel maledetto sfruttatore pervertito di Montgomery, quanto perché non ero presente nel momento in cui ci buttavano in mezzo ad una strada. Quei vigliacchi hanno accuratamente premeditato di evitarmi, perché sanno perfettamente che su queste cose non transigo. Gli inalienabili diritti del lavoratore sono santi, soprattutto per me.
“NON POSSONO! E’ ILLEGALE! CI DOVEVA CONCEDERE ALMENO SEI MESI!” Sbraito e mi dimeno, allontano violentemente Megan da me e stringo i pugni: mi dico di darmi una calmata perché altrimenti la vena che mi pulsa violentemente sull’occhio scoppierà.
Faccio un respiro profondo, chiudo gli occhi e razionalizzo: ci deve essere una soluzione, una scappatoia legale; quanto meno posso riuscire a posticipare la chiusura di altri tre mesi, così, chi non ha già altri lavori, può iniziare a cercare con più tranquillità. Pensa Berenice, pensa…
“Bernie, purtroppo può…” Esordisce Rory che dalla telefonata non aveva più fiatato.
“No che non può” Sibilo.
“Sì, perché lo stronzo ci ha lasciato queste” Mi porge due lettere, una con la data di ieri, nella quale si ribadisce la vendita dell’attività e la chiusura, «dato il preannuncio ricevuto in data…»; prendo l’altra lettera e inorridisco: è di tre mesi fa, tre mesi fa…
“Io non ho ricevuto nessuna lettera” Dico a fior di labbra: la cosa sa tanto di fregatura.
“Infatti, nessuno l’ha ricevuta. Quando lo abbiamo fatto notare, Brody era visibilmente imbarazzato e ha balbettato che lui l’aveva, ne era a conoscenza e che numerose copie erano in archivio…” Spiega Darcy.
“Non è vero: l’archivio e tutta la documentazione li ricontrolliamo tutti i mesi più di una volta” E capisco. Capisco tutto: quei maiali hanno fatto in modo che, puff, come per magia, le lettere apparissero in archivio, facendo così ricadere la colpa su di noi. Ed io che pensavo di essermi lasciata tutto questo schifo politico-burocratico in Italia.
“Chissà quanto hanno dato a Brody per fare questa bastardata. Adesso finalmente potrà comprare a quella baldracca della moglie la casa al mare che tanto desiderava” Fa Eliot disgustato.
Devo fare qualcosa, non posso rimanere con le mani in mano. Ho passato gran parte della mia giovinezza ad ingoiare bile e a borbottare nell’ombra, adesso basta. Forse l’ho capito troppo tardi che con l’onestà e l’impegno si ottiene poco, se non si aggiunge un po’ di spavalderia e coraggio di alzare la testa, ma ora non posso più esimermi, devo dire la mia.
“Dobbiamo fare qualcosa” Dico e mi siedo al grande tavolo bianco, dove abbiamo passato tante notti insonni a scrivere, progettare e lavorare; apro la borsa e tiro fuori l’agenda: lo stanerò, fosse l’ultima cosa che faccio.
“E cosa? Rory ha parlato anche con il padre che lavora al Ministero dell’Interno. Non si può fare nulla, ci ha fregato e intentare una causa legale è un suicidio: Montgomery è uno dei più grandi petrolieri dello stato” Ma perché Eliot deve essere sempre così maledettamente razionale? Dio santo! Se Robespierre non fosse stato un po’ tocco (e lo era), con il cacchio che si faceva la Rivoluzione.
“Eliot” Parlo, cercando di mantenere il controllo, onde evitare di prenderlo a schiaffi: “Non pretendo di evitare la chiusura di Umanitas, né tanto meno ho intenzione di intentare causa: voglio solo fargli credere che lo faremo e che abbiamo la possibilità di farlo. Tanta gente campa con questo lavoro, tre mesi sono troppo pochi” Prendo il telefono portatile che sta su un comodino lì a fianco e inizio a digitare il numero dell’ufficio di Montgomery alla City.
“Voi chiamate alla sede di New York, quella di Città del Messico e quella dell’Arabia Saudita: se conosco il tipo, avrà appena acquisito il dono dell’ubiquità” Mormoro agli altri, tenendo il cordless tra la clavicola e l’orecchio, mentre sono in attesa di parlare con la segretaria della segretaria, e spargendo numeri a destra e a manca.
“Evviva! I magnifici cinque in missione per salvare l’umanità” Saltella Darcy, tutta contenta ed eccitata.
Pronto, Montgomery Oil corporation SPA. In cosa posso esserle utile?” Ed è la voce stridula di quella gallina della segretaria che mi dà il coraggio.
“Ehm, sì, pronto. Buongiorno sono Berenice Minardi, capo-redattore di Umanitas, vorrei parlare con il signor Montgomery, è una questione piuttosto urgente.”
Aspetti in linea. Controllo…”
A noi due «tal Jeremy Montgomery-Brown»…
E infatti, come avevo previsto, il signor Montgomery era magicamente tanto a New York quanto a Città del Messico: un classico. Avevo vivamente sperato che avesse più fantasia ma, ahimè, per quanto ricco possa essere, rimane pur sempre un imbecille patentato.
“Abbiamo chiamato ovunque: uffici, club, casa a Londra, casa in Scozia, casa in America e casa alle Maldive. E’ ovunque e non è da nessuna parte…” Megan si abbandona scompostamente sulla sedia: è sfinita, lo siamo tutti, ma io non ho intenzione di demordere.
“Si passa al piano  B” Mi alzo in piedi con fare solenne e li guardo, ad uno ad uno.
“E quale sarebbe?”
“Sfacciataggine, Darcy, sfacciataggine. Pensavo tu fossi brava in questo”.
 
Avete presente quando nei film i protagonisti si aggirano come pazzi in giro per la città alla ricerca di qualcosa? Solitamente i fotogrammi sono più veloci, grazie al miracolo di qualche principio fisico di cui non ho la minima conoscenza. Ecco, la situazione di Darcy e me è stata la stessa. Se poi vi piace immaginare la scena come se steste al cinema, fate pure, ma in questo caso vi occorre una colonna sonora ad effetto e una coppa gigante di pop corn: quella non deve mancare mai.
 
Prima sequenza: Danza Russa dallo Schiaccianoci.
Darcy e io che corriamo fuori dal giornale, andiamo alla metro, prendiamo la metro, sbagliamo linea, usciamo dal treno, cambiamo linea, scendiamo e corriamo verso la Montgomery Oil e vattela a pesca il resto. Entriamo, andiamo all’accettazione e ci dicono che è appena uscito. Ce ne andiamo e riprendiamo la metro, direzione: club ad almeno dieci km di distanza e tre cambi metro.
 
Seconda sequenza: Can can o come diamine si scrive!
Tre cambi metro, sigaretta per me, bagno per Darcy. Prendiamo la strada a destra o a sinistra? Sinistra, si va sempre a sinistra. Quattro km e dieci vesciche dopo chiediamo informazioni: abbiamo sbagliato. Dovevamo girare a destra e, dato il tipo, non ci sarebbero dovuti essere dubbi. Altri quattro km e altre dieci vesciche, giriamo a destra e il club è a pochi metri. Qui cambiamo tattica: Darcy improvvisa un malore all’ingresso e io faccio il giro del locale, scorgo un albero e mi ci arrampico; peccato che soffro di vertigini e ho l’equilibrio di un elefante in calore. Scavalco, do una culata stratosferica e non contenta mi graffio contro la siepe irta di spine; mi guardo intorno e vado verso il ristorante: quel trippone suino sicuramente sta bevendo. E infatti eccolo! Mi catapulto dentro ma purtroppo il bar è riservato agli uomini e mi chiedono gentilmente, almeno all’inizio, di uscire. Mi impunto e inizio a sbraitare: errore. Il suino si accorge di me e con un’agilità che credevo non avesse neanche da giovane, sparisce (solo dopo Darcy mi dice che lo ha visto correre alla macchina e partire a tutto gas).
 
Terza sequenza: Morte del Cigno dal Lago dei cigni.
Cinque cambi di metro. Centro di Londra. Corriamo come pazze squilibrate, ad un tratto mi blocco perché mi sono accorta dell’immenso cratere sul maglione all’altezza della tetta sinistra. Tiro giù tutti i santi beati del Paradiso (non è vero, non sono così sboccata, ma come al solito fa scena) e inizio di nuovo a camminare, sbattendo i piedi e borbottando. Arriviamo al palazzo più lussuoso di tutti i palazzi lussuosi del circondario: è il suo. Suoniamo una volta, due volte, tre volte, quattro, cinque e tutte le tabelline, addizioni e connessi vari del mondo. Niente! Nada de nada! Il suino l’ha fatta franca.
 
“Hai fatto tutto quello che potevi” Mi dice Darcy, stravaccata sul mio divano che si ingozza di cioccolatini.
Io sono seduta al bancone della cucina con un bicchiere di aspirina davanti, mentre mi massaggio le tempie. Ho un mal di testa da cani e sono stanca morta.
“No, con il cazzo che mollo!” Dico, sbattendo una mano sul bancone in maniera molto dolorosa.
“Oggi vedi George, vero?” Mi chiede Darcy, ingoiando l’ultimo cioccolatino.
“Oddio, quanto non mi va!” Sbuffo e inizio a picchiettare la fronte sul tavolo, scandendo il ritmo e facendomi un bel bernoccolo.
“Oh, tesoro! Esci, bella di casa. Fatti una sana notte di sesso perché ne hai proprio bisogno” Ride e quando Darcy ride non puoi fare a meno di ridere con lei. Sì, devo proprio uscire e cercare di ricostruirmi una vita sentimentale: ho lasciato il mio eterno fidanzato da un anno e mezzo e mi sono talmente buttata nel lavoro che le occasioni di spassarmela sono state veramente scarse, veramente troppo scarse.
Mi alzo, mi avvicino alla mia migliore amica inglese e le do un bacio sulla fronte: “Come farei senza di te!?” Le soffio in volto, facendole il solletico.
“Non lo so, cocca, ma vatti a fare una doccia perché puzzi” Mi prende in giro e io le rispondo con una linguaccia. La adoro. Se la mia timidezza si è ridotta ai minimi storici è solo grazie a lei.
Ci dirigiamo entrambe verso la mia camera da letto, alla ricerca del vestiario per la serata: devo essere provocante ma non volgare; devo mostrare ma non scoprirmi; elegante ma sobria.
Sobria lo sono sempre, volgare solo con le parole: non dovrebbe essere difficile trovare qualcosa… eccolo, l’abbinamento perfetto! Vestitino nero corto, di pizzo, un poco scollato sulla schiena, stile impero che mette in mostra la mie forme, sfortunatamente molto generose (essendo una persona che odia stare al centro dell’attenzione, avere una terza abbondante mi crea non pochi problemi, anche perché, data la mia naturale goffaggine, spesso sono protagonista di scene molto, ma molto imbarazzanti). Il tutto è correlato a calze nere, sottili, parigine di lana che mi arrivano sopra il ginocchio e scarpe, anch’esse parigine: ci sono affezionata a questo paio, sono state acquistate con la mia prima busta paga. Intendiamoci, odio le scarpe alte e i vestitini super-femminili, sono un tipo più alla mano, che ama la comodità, però, ogni tanto, mi ricordo di essere donna dopotutto e mi lascio trasportare dal romanticismo. Questi tacchi sono scomodissimi, ma non sono fatti per rimanere troppo a lungo ai miei piedi.
Darcy si congeda con un bacio, l’augurio di una buona serata e la promessa che mi avrebbe chiamata l’indomani, e che forse sarebbe anche passata per un saluto.
Attendo di sentire la porta chiudersi, quindi mi spoglio ed entro nella doccia: l’acqua calda è qualcosa di divino. Il tepore mi entra nelle ossa e la mia anima tira un sospiro di sollievo; adoro la doccia calda, passerei le ore ad ascoltare il suono dell’acqua e ad assaporare il gusto e il profumo dei vari saponi che applico su corpo e capelli.
Il bagno è il mio momento sacro, nessuno può entrarvi, solo i miei pensieri, purtroppo anche quelli molesti, e i miei “sogni vigili”: posso essere chiunque, fare qualunque cosa; certe volte mi vengono idee talmente geniali che mi stupisco di me stessa, anche se, poi, sfortunatamente, non posso portarmi un taccuino con me e quindi dimentico tutto. E’ bello galleggiare così e non posso far altro che canticchiare la canzone di Giorgio Gaber, Shampoo. Ah, come, come vorrei vivere sotto la doccia, con la schiuma che sembra panna. Sarebbe tutto molto più facile e certamente molto, molto più piacevole.
Devo ammetterlo, George ha buon gusto: il piccolo e intimo ristorante a nord di Londra sembra appartenere ad un’altra epoca, quasi fossimo tornati indietro di duecento anni.
Lo guardo mentre legge, concentrato, il menù, con le sue mani affusolate che si toccano il mento e non posso fare a meno di pensare a quanto mi piacerebbe che quelle mani mi toccassero in luoghi ormai non più molto frequentati.
L’idea di poter fare qualche bella capriola tra le lenzuola è quasi opprimente, quasi più opprimente della rabbia al pensiero della brutta fine che il mio adorato giornale farà.
Detta così potrei passare per una suora, tutta casa e Chiesa, che non vede l’ora di commettere qualche bel peccato…
Non è che sembra, lo sei!
Cornacchia acida e impicciona!
“Che c’è? Ho i capelli fuori posto?” Mi dice George allarmato, ed è così che mi rendo conto che lo sto fissando insistentemente, probabilmente con una faccia da assatanata sul volto.
Oh, tranquillo per i tuoi peli rossi, tra qualche ora saranno più che scompigliati…
Oddio, pure tu no!
Ecco che rispunta Lolita, la parte disinibita di me che si palesa, come la Cornacchia, sempre nei momenti meno opportuni.
Oh, no. Sono perfetti, davvero… stavo pensando al giornale, brutta giornata. Non puoi capire che è succ…”
“Non dirlo a me! Oggi in ufficio è stato un disastro e…” George inizia a starnazzare sulla sua giornata così orribile che ha addirittura ricevuto una promozione: io perdo il lavoro e quello si lamenta per l’aumento di stipendio! Odio quelli che fanno così, quelli che se tu hai un problema tentano in tutti i modi di sminuirlo, non consolandoti, non sia mai, ma perché hanno anche loro dei problemi e, apparentemente, sono sempre peggiori dei tuoi.
George è bello, molto e lo sa, ma avevo già notato quanto narcisista e petulante potesse essere: ho sempre cercato di non badarci, contando sul fatto che per fare del puro e semplice sesso non si deve usare la bocca (o meglio, non si deve usare per parlare, al più per ansimare).
Non fare la schizzinosa, adattati e zitta.
Seguirò il tuo consiglio… solo per questa volta!
Mi riscuoto dai miei pensieri e mi accorgo che sta ancora ciarlando: che palle! Mi immergo nuovamente nella contemplazione, lasciando che le sue parole assumano il suono dello sciabordio delle onde: sono molto brava con questa tattica, è vero che certe volte mi pongono le domande e rispondo pan per focaccia, ma la figura è nulla a confronto con l’atroce sensazione di dover prestare attenzione a cose che ti fanno schifo, che non capisci o di cui non te ne importa una sega.
Sobbalzo, sentendo il cellulare vibrare. George non se ne accorge, il suo monologo continua ed ho così l’opportunità di prendere il cellulare e di vedere un messaggio di Darcy.
“Qualche problema?” Cazzo G., perché non potevi continuare a parlare?
“Nulla, scusami” Mi guarda un po’ contrariato, si è accorto che non lo stavo cagando di striscio e che non mi sdilinquivo di fronte al suo “avvincente”, quanto soporifero racconto.
Ordiniamo e intanto ci portano del buon vino rosso.
Guardo la bottiglia come fosse veleno, sperando di dissimulare la mia faccia disgustata.
George si versa un bicchiere e poi, con galanteria, versa un po’ di vino anche a me, mentre una zaffata di alcol mi investe: trattengo un conato.
Dovete sapere che è da almeno sei anni che non riesco più a sentir parlare di vino rosso, né tanto meno riesco a sentirne l’odore: prima sbronza seria e prima vomitata della mia vita.
Ma dove minchia ero quando abbiamo ordinato da bere?
Se ascoltassi, invece di farti viaggi mentali, forse ora non saresti costretta a farmi sorbire quel calice amaro.
Tu, eh!? Perché io che mi dovrò tenere la nausea e far finta pure che vada tutto bene, no?
Il cellulare vibra altre due volte e poi una terza e una quarta, mentre lo sguardo di George si fa sempre più affilato.
“Scusami, sai la mia collega è preoccupata per la rivista e…”
“Sì, sì. Me lo hai già detto” Dice con aria di sufficienza, prendendo il cellulare e iniziando a… giocare a Candy Crush! Cosa? Ma vaffanculo maledetto egocentrico: è vero che avrei dovuto chiudere il telefono ma santo Socrate! Da qui a ignorarmi deliberatamente ci passa sotto non un fiume, ma un oceano di acqua.
Stizzita, afferro bruscamente il cellulare (e lo faccio premurandomi che si accorga del mio fastidio) e inoltro la chiamata a Darcy.
“Che vuoi?” Sibilo come una vipera.
“Bernie, scusa, scusami tanto ma è importante”
Certo più importante anche della tua vita sessuale?
Taci, mostro! Questo qui è talmente manico di scopa che non gli si alzerà neanche con un’overdose di Viagra.
Che c’è?” Le chiedo brusca.
“Ian, te lo ricordi Ian si? Quello che mi sono portata a letto un mese fa, alla festa dell’…”
“Arriva al punto!”
“Beh, Ian è un informatico, un mago con i computer e, dato che lo stavo ammorbando con la storia di Montgomery, prende il computer e inizia a digitare. All’inizio ci rimango male, insomma, ti pare che mi ignori…”
“Darcy!” Strillo, facendo girare tutti.
“Ok, ok… scusami, era per completezza! Comunque, cerca che ti ricerca, dieci tazze di caffè e una litigata dopo se ne esce con un : “Eureka”, quindi mi mostra quello che ha trovato… so dov’è Bernie, so dove si trova Montgomery”
A quelle parole scatto in piedi e, nella mia goffaggine, faccio rovesciare il vino addosso alla camicia immacolata di George.
“E checcazzo, sei una cafona, stai attenta! Sai quanto costa…”
“Sì, sì… costa più della mia istruzione” Gli rispondo acida, facendo un cenno con la mano per fargli chiudere il becco.
“Ci vado, dammi l’indirizzo e tutto”
“Sarà un casino entrare Bernie, è una serata di beneficenza e per entrare devi avere un biglietto” Mi spiega Darcy.
“Ian non è un mago dell’informatica?”
“Sì, perché?... sei geniale, sei fottutamente diabolicamente geniale” Mi dice, trapanandomi un orecchio.
“Mandami l’indirizzo per messaggio, tanto in ghingheri ci sono già”.
Chiudo la chiamata, afferro il cappotto e la borsetta e faccio per andarmene, quando una mano mi afferra il braccio e stringe: abbasso lo sguardo, stralunata, verso la scheletrica mano di George e poi lo rialzo incontrando il volto furente del ragazzo.
“Dov’è che vai? Mi devi ripagare la camicia, stronzetta” La mia mano parte involontariamente (non è vero) e lo schiaffo è di quelli epici, di quelli che non si possono dimenticare. George si allontana di botto, paonazzo, con una mano sulla guancia, osservandomi con la bocca spalancata.
“Stronzo e cafone ci sei tu. E sei pure un narcisista, noioso pallone gonfiato che si crede chissà chi e poi viene nei pantaloni per un bacio un po’ più infuocato di quelli a stampo che ci si dà alle elementari” Bello sputtanare la gente così! Mi sembra di volare, sì, di librarmi in aria leggera. Sono talmente euforica che non ho la minima intenzione di sprecare altri minuti preziosi… ho una missione e devo portarla a termine.
Giro sui tacchi e corro verso l’uscita; apro la porta e sto per andarmene quando, memore di non aver finito di vomitare tutto il tappo di bile che mi tengo da un mesetto a questa parte, mi volto e dico: “Comunque, la Cappella Sistina non è scolorita. E’ il tuo cervello che ha perso colore a forza di farti fare seghe nei bagni pubblici”. Porco! Quella scenetta in metropolitana me la doveva pagare.
Rido diabolica ed esco all’aria fredda della Londra notturna. Rido e sento di avere il mondo nelle mie mani.
 
L’Hotel Baglioni si trova proprio di fronte Hyde Park. E’ tutto illuminato e all’ingresso c’è un via vai di persone. Meglio così, sarà più facile eludere la sorveglianza.
Faccio un respiro profondo e mi faccio coraggio: attraverso la strada e mi avvio, facendo finta di nulla, dentro la hole dell’albergo.
E’ magnifico, non sono mai entrata in un hotel a 5 stelle.
Vado alla reception, chiedo della festa, inventandomi una scusa per il mio immenso ritardo, e, con mia sorpresa, la signorina non mi fa domande e mi dice precisamente la direzione che devo prendere.
Perfetto, primo step superato.
Lungo il corridoio si possono udire le note soffuse di un’orchestra jazz e il vociare degli invitati.
E’ vero che sono vestita elegante, ma lo sono solo per i miei standard: dalla tenda rossa fuoriescono donne ingioiellate e con abiti talmente eleganti che probabilmente non basterebbe un anno di uno dei miei stipendi per acquistarne uno.
Cazzo!
“Posso esserle utile?” Un funzionario dell’albergo, con fare affabile e gentile, si para davanti all’entrata della sala dove si sta tenendo la cena. Vai, Bernie! E’ ora che tu metta a frutto la secolare capacità italiana di imbastire: ars imbastendi!
“Sì, sono un’invitata. Purtroppo sono in ritardo, arrivo dall’aeroporto e ho dimenticato l’invito. Potrebbe controllare sulla lista elettronica?” Ian, spero vivamente tu sia un bravo hacker, perché non solo farei una figura di merda, ma oltretutto mi giocherei l’ultima e unica carta che mi rimane per parlare con Montgomery.
“Attenda un momento” Mi dice l’uomo sorridendo, per poi sparire oltre la pesante tenda di velluto rosso.
Mi sto massacrando le mani, sto sudando freddo e sento che i miei capelli si stanno arricciando. Vado verso uno dei grandi specchi del corridoio e mi do una controllata: infatti, come sospettavo! I capelli, da lisci e perfetti che erano, si stanno facendo mossi; il trucco è un po’ colato ai lati e il rossetto è sparito.
Damn! Tiro fuori di fretta e furia la matita, il mascara e il rossetto scuro che applico, immediatamente, sulle labbra; passo a contornare gli occhi di nero e poi restano solo le ciglia.
Purtroppo, faccio a tempo a farmi solo un occhio, perché, non appena avvicino il pennello all’altra ciglia ecco che ritorna il tizio di prima: “Può passare, signorina! Oh, scusi, mi scusi tanto” Era arrivato tutto baldanzoso, contento di non essere costretto a sbattermi fuori, ma nel farlo, mi aveva fatto prendere un infarto: sussulto e mi ficco il pennello nell’occhio che inizia a lacrimare e vattela a pesca il trucco.
“N-non si p-preoccupi… n-niente” Balbetto gentile mentre soffoco un gemito di dolore, quando quello mi dà le spalle, imbarazzato, e mi apre la tenda per farmi passare. Vorrei insultarlo pesantemente ma questo comprometterebbe la mia copertura.
“Le auguro una buona serata e scusi ancora” Mi dice il giovane uomo, indugiando sull’abbondante decoltè: che palle! Aveva iniziato tanto bene.
Mi guardo attorno: è un carnaio; ci sono almeno un centinaio di persone tra politici, alti funzionari e persino attori (mi è sembrato di scorgere “Harry Potter”, wiiii), ma non ho tempo per stare a fare la scolaretta; devo trovare Montgomery.
Mi aggiro per la sala stringendomi addosso il cappotto a mo’ di difesa: “Signorina, mi vuole dare il cappotto?”
No, dannazione, no! Poi con cosa mi nascondo?
V-va b-bene, g-grazie” Me lo sfilo e lo do alla giovane cameriera.
“Il bar è lì” Mi dice facendomi l’occhiolino: deve aver colto il mio nervosismo.
Mugugno una sorta di ringraziamento e sfreccio verso il bancone del bar: mi devo fare coraggio e una buona tequila non ha mai ucciso nessuno. Mi sento terribilmente inadeguata, più cammino più noto gli sguardi e voluttuosi e schifati della gente; è tutto troppo per me, troppo chic, troppo ricco, troppo importante per una povera topolina di biblioteca. Infatti, quando raggiungo il bancone, mi accascio letteralmente sulla sedia e con un tono da funerale chiedo: “Una tequila sale e limone, anzi facciamo due tequile senza il sale e senza il limone”
“Perfetto, 20 sterline” Cosa? Ma è un furto, un furto bello e buono: Cristo, a Campo dei Fiori me la sarei cavata con quattro euro! Con venti sterline mi compro almeno due magliette e un paio di mutande alle bancarelle.
Il barman sta aspettando con le braccia incrociate e uno sguardo di sospetto stampato sul volto. Deglutisco sonoramente e porto la mano alla borsa; tiro fuori il portafogli e lo guardo: non sono una tirchia, ma è un latrocinio bello e buono.
Tiro fuori le banconote e gliele porgo senza guardarle, quasi singhiozzando.
Ora c’è solo da aspettare, quindi mi volto verso la sala e aguzzo lo sguardo, cercando di cogliere un movimento, un ventre enorme o una zucca pelata.
“A lei” Mi volto ed ecco il mio siero della felicità: davanti a me ci sono due bicchierini di cristallo, colmi di un liquido trasparente. Ne afferro uno e lo porto alla bocca, ingurgitando il contenuto come fossi un assetato nel deserto: l’alcol fa immediatamente il suo effetto; una sensazione di calore si propaga dal petto al resto del corpo, sino al cervello che immediatamente diviene come piuma e si annebbia un poco. La tequila è una delle poche prove dell’esistenza di Dio, altro che quelle di  Tommaso[2].
Sto per prendere l’altro shottino, continuando a guardarmi incontro, quando una voce calda, virile e molto, molto inglese si insinua, piacevole, nell’orecchio: “Posso unirmi a lei?” Il proprietario è vicino, lo sento dal brivido di piacere che la sua voce provoca sul mio collo: se mi girassi, probabilmente le nostre labbra si incontrerebbero. E sto per farlo, sto per voltarmi perché l’uomo ha un odore buonissimo, sensuale, dolce e forte nello stesso tempo.
Ecco, ora mi volto e… Cazzo, è lui, è Montgomery! Lo vedo con la coda nell’occhio, ma tanto mi basta, so dove è diretto. Mi alzo di colpo, prendo il bicchierino e bevo tutto di un sorso, senza degnarmi dell’uomo dalla voce affascinante; mi giro e sfreccio verso l’altro capo della sala dove è il tavolo del mio datore di lavoro.
“Aspetta un momento” La Voce prova ad afferrarmi, ma io mi divincolo, urlandole: “Scusa, affari di stato!” e sparisco tra la folla.
Secondo me era gnocco e tu, al solito, te lo sei lasciato sfuggire.
Per Zeus! Se tutto va come deve andare, dopo potrai avere il dolce.
Ora sono dietro le spalle di Montgomery: sta fumando un sigaro, il cui odore giunge acre alle mie narici, e conversa allegro con alcune signore che sembrano pendere dalle sue labbra. Lo osservo come farebbe un cacciatore con la sua preda, fredda, calma e decisa ad appendere la sua testa sopra il piccolo caminetto che troneggia nel mio salone.
Diplomatica, devo, assolutamente, essere diplomatica: ne va del futuro di venti persone.
“Ehm, ehm” Simulo un colpo di tosse, affinché si possa accorgere di me. Vedo il panzone irrigidirsi, mentre, con una calma che non è di questo mondo, si gira per fronteggiarmi.
Quando mi vede spalanca gli occhietti sanguigni, la sua espressione si fa agitata ed inizia a sudare: che schifo, penso, ma cerco di non far trapelare dal mio volto il disgusto.
“Buonasera signor Montgomery, come sta?” Chiedo cortese, sorridendogli gelida. Il tono sarcastico del mio tono non deve essere sfuggito né a lui né alle sue uditrici, che tacciono immediatamente e sviano lo sguardo, chi sulle mani, chi sul resto della sala.
“Oh, signorina Mynard! Che piacere! Non sapevo fosse invitata…” Sorvoliamo sul fatto che abbia sbagliato il mio cognome (sono tre anni che lo fa e sono giunta alla conclusione che lo faccia con cognizione di causa, solo per indispettirmi), ma so per certo che sia a conoscenza del fatto che, se mi trovo lì, c’è unicamente un motivo, un motivo che lo riguarda direttamente. Rispondo alla frecciatina con un sorriso tirato e mi avvicino un poco.
“Infatti, sono venuta qui per parlarle. Quando ho saputo che era qui sono rimasta sorpresa: c’è chi mi ha detto che era a New York ed altri addirittura asserivano che si trovasse in Asia…” Uno a zero palla in centro, cocco!
Il grassone mi guarda inferocito, ma è questione di un attimo: è in quel momento che mi rendo conto di averlo sottovalutato. L’espressione si fa furba e calcolatrice, mi osserva come fossi, improvvisamente, diventata io la preda e non il contrario.
“Suppongo che mi debba parlare della rivista, non è vero?” Dritto al punto: accidenti e io che pensavo avrebbe cercato di arrampicarsi sugli specchi.
“La rivista? Caro, ma non avevi intenzione di chiuderla?” Una signora bionda, completamente rifatta da capo a piedi, con delle labbra talmente gonfie da sembrare contuse, gli prende la mano e lo guarda civettuola. Conato di vomito. Non andrei a letto con un tipo del genere neanche per tutti i soldi del mondo.
“Certo, cara, certo. Infatti non capisco cosa altro ci sia da aggiungere. Avete ricevuto le lettere, tutto è stato fatto legalmente e tutti avrete una cospicua liquidazione. Sono stato molto generoso, in fondo, ci tengo al giornale e a voi tutti; odio quegli imprenditori che non pensano minimamente ai loro sottoposti: lede l’immagine della categoria. Sono affari e negli affari tutti sono alla pari” Alla pari un accidenti che ti piglia, stronzo! Montgomery non ha fatto altro che ricordarmi che sono una povera dipendente stipendiata che deve tacere e magari anche ringraziarlo; perché il discorsetto sulla sua presunta santità imprenditoriale? Ne vogliamo parlare?
“Oh, lei è molto generoso, davvero.” Dico ironica, alzando un sopracciglio scettico. So benissimo che quello che sto praticando non è diplomazia, ma non posso farne a meno, odio quando la gente non si rende conto con chi ha a che fare, quando pensa che sono solo una ragazzina facilmente abbindolabile: “Ma c’è un problema: le lettere in questione sono, ehm, come dire? Magicamente comparse solo questa mattina. Non si ricorda? L’archivio l’abbiamo controllato solo due settimane fa e, al tempo, le lettere non erano presenti… è davvero strano, non trova? Visto e considerato che sono datate tre mesi fa…” Prendo una lettera dalla borsetta (non so neanche perché me la sono portata dietro, diciamo forse sesto senso) e gliela porgo, mentre il vecchio porco strabuzza gli occhi e diviene paonazzo. Lo devo aver messo in imbarazzo e sono talmente soddisfatta di questo da non rendermi conto che, forse, questa mia è una tattica sbagliata.
Montgomery la guarda per un momento che mi sembra infinito, quindi la piega in due , con estrema gentilezza me la mette tra le mani e mi sorride sornione: qua si mette male e sento la mia pazienza che vacilla pericolosamente.
“E’ la mia parola contro la sua” Dice con fare inequivocabilmente allusivo: E’ la mia parola contro la sua, io sono miliardario e lei arriva forse a 55 000 sterline l’anno; io sono un politico navigato e lei è appena entrata nel mondo.
“Non solo la mia, ci sono anche gli altri” Rispondo con tono rabbioso, riducendo gli occhi a fessure.
“Non cambia molto, non è il numero di persone, signorina. Sono affari e basta, non è un fatto personale. E’ tutto, non ho altro da aggiungere, le conviene andare prima che qualcuno si renda conto che questo non è il suo posto.” Mi fa un lieve inchino con il capo, quindi si gira, lasciandomi così, di stucco, incapace di replicare, senza la consolazione di sapere di essermi battuta con onore e aver perso con dignità. Rimango interdetta per un poco, ma non posso rimanere lì, purtroppo devo andare, sentendo fin nelle viscere il veleno che si propaga, il veleno della frustrazione e l’umiliazione.
Sto per andarmene quando, credendo che non ci fossi già più, quel vecchio barilotto di grasso parla, e dice cose che avrebbe dovuto evitare di dire: “Poveraccia, quella ragazza è così piccolina e sprovveduta. E’ italiana, sapete come sono gli Italiani: furbetti, ma non troppo intelligenti… mi fa pena” Pena,pena,pena,pena… Mi fa pena!
Ok, adesso Berenice calmati, respira e vattene.
Che c’è cornacchia, hai paura? Pena, preferisco l’odio alla pietà.
Lo so.
Io vado, non ce la faccio a resistere, vedo rosso.
Ehm… fa come vuoi.
Non me lo faccio ripetere due volte. Mi volto, dirigendomi come una furia verso il tavolo, mi avvicino e con tutta la rabbia e la forza che ho un corpo batto tutte e due le mani sul tavolino, facendo infrangere parecchi bicchieri e strillare parecchie delle gallinelle siliconate.
“PENA!LE FACCIO PENA EH!” Urlo, urlo con tutto il fiato che ho in corpo: non resisto all’ira, sento il fiato accelerare e quasi non ci vedo tanto la rabbia.
“E’ pazza, lei è pazza” Mi dice Montgomery, alzandosi in piedi e sovrastandomi. Gonfio il petto e, dove l’altezza non può giungere, ecco che l’ira fa il resto.
“NO, NON SONO IO LA PAZZA! LEI E’ UN MALEDETTO CRIMINALE. QUELLE LETTERE NON LE ABBIAMO MAI RICEVUTE, CI HA TOLTO TRE MESI, TRE MESI! E’ ILLEGALE!”
Dio, Bernie. Se avessi saputo che avevi una voce così tonante ti avrei fatto fare qualche lezione di canto.
Taci, mi devo sfogare o mi saltano le coronarie.
Stai attenta che non ti saltino anche i denti.
Ero talmente concentrata che non mi ero minimamente resa conto che, attorno a noi, era calato il silenzio: ma se io non me ne ero accorta, Montgomery sì, perché si guardava attorno, umiliato. Io non avevo certo finito di umiliarlo, se dovevo soccombere, lo avrei fatto avendo l’ultima, trionfale, grandiosa parola.
“Non può provarlo, lei non ha niente” Sussurra agitato, iniziando a gocciolare ancora più di prima.
“Ci dia quei sei mesi, ce li dia tutti” Sibilo, respirando affannosamente. Montgomery sembra rifletterci su, si contorce le mani, si guarda attorno e… si volta di scatto verso di me, fulminandomi con lo sguardo e io indietreggio.
“No, non le do proprio nulla. Questo è quanto… ho altri progetti, progetti più importanti. Siamo in guerra signorina e i giornali non aiutano certo, non pensa anche lei? Ringrazi che non la sbatta fuori senza aspettare i tre mesi o, peggio, che la denunci per diffamazione” La sua voce è melliflua, suadente e viscida, ma non ha sortito gli effetti sperati. Montgomery si risiede, dandomi le spalle: mossa sbagliata, perché il suo discorsetto non ha fatto altro che inviperirmi ancora di più.
“LEI E’ UN MAFIOSO!” Strillo isterica: “UN BASTARDO” Evviva.
“UN PORCO CAPITALISTA. SI’, LEI E’ UN PORCO CAPITALISTA CHE MANDA A PUTTANE LA VITA DEGLI ALTRI PER COSA? PER FARE BOMBE? VISTO CHE LI HA I SOLDI CHE LE ESCONO DA QUEL GRASSO CULO CAPITALISTA CHE SI RITROVA, POTEVA ANCHE CONTINUARE A GIOCARE CON IL GIORNALE: NON AVREBBE UCCISO NESSUNO E AVREBBE GARANTITO LA SOPRAVVIVENZA DI GENTE CHE CON QUEL LAVORO CI CAMPA. MA COSA LE IMPORTA A LEI, PORCO CAPITALISTA!” Mi sento bene, so che ho esagerato e che mi sono spinta troppo oltre, ma mi è piaciuto. Volontà di potenza da salotto, ma una volontà di potenza con le palle, per Bacco.
Il Porco Capitalista si alza di scatto, si mette di fronte a me e avanza inesorabile: so benissimo che vorrebbe mettermi le mani al collo, ma non può scomporsi. Malgrado sia una tappa, esile e con la pressione bassa (bassissima direi), non mi tiro indietro né mi faccio intimorire. Guardo Montgomery che fa un cenno con la testa a qualcuno dietro le mie spalle e poi torna a guardarmi con espressione omicida.
“Non la denuncerò perché lei è una selvaggia squilibrata che non sa cosa significhi stare al mondo. Non la denuncerò perché mi fa pena, sì pena, povero uccellino. Per il giornale non si preoccupi, quelle persone non possono pagare per lei…tre mesi, ha tre mesi per fare in modo che le vendite rimangano stabili, perché se noto anche un calo di 1 sterlina, la spezzerò e rimpiangerà amaramente di essere nata” Se la prima parte del discorso era stata detta in modo tale che tutti sentissero, l’ultima era stata rivolta a me, e a me soltanto.
Sento delle mani che mi afferrano le braccia, contorcendole fastidiosamente dietro la schiena, mi volto e vedo due energumeni della sicurezza che incombono su di me.
“Portatela via, la signorina Mynard ha avuto una giornataccia”
I due stringono la presa, mentre io mi divincolo furiosa: “MINARDI, MINARDI E’ IL MIO COGNOME. LEI NON PUO’, NON PUO’…LASCIATEMI, LASCIATEMI” Uno dei due mi ha issata sulle spalle. Vedo Montgomery allontanarsi o meglio, mi sto allontanando da lui, sto lasciando la sala mentre ancora scalcio e mi divincolo: non provo nulla. Sono un povero cerbiatto che tenta di lottare contro un puma, una lotta inutile, una lotta fatta per puro spirito di auto-conservazione; quando lo scimmione mi getta malamente a terra e mi lascia così, senza una parola, ad una delle uscite laterali dell’hotel, continuo a non sentire nulla. Ed è solo quando so di essere sola che le lacrime iniziano a scendere copiose. Non posso fermarle: con l’orgoglio ferito e con la sconfitta che mi brucia sulla pelle, non faccio altro che piangere. E un freddo crudele mi avvolge, portandosi via anche la mia ultima speranza.
 
[1] University College of London
[2]  San Tommaso d’Aquino e le sue “cinque vie”
ANGOLO DELL'AUTRICE Buonasera a tutti. Questa è la prima parte del primo capitolo (in tutto sarebbero 21 pagine ma ho evitato di ammorbarvi); la seconda parte la pubblicherò la prossima settimana. Tom è presente, ma non viene nè caratterizzato nè appare esplicitamente: dovrete aspettare una settimana. Se poi non volete aspettare, ditemelo e io pubblicherò. Per qualsiasi mio eventuale errore (sono una frana a battere a macchina, sono una a cui piace piuma e calamaio) non esitate a comunicarlo; per qualsiasi incomprensione, suggerimento o delucidazione sono qui per voi. Vorrei chiedervi anche di dirmi, quando caratterizzerò Tom, se vi piace o meno, se lo volete diverso...cercherò di accontentarvi. Godetevi la lettura e a presto (non vedevo l'ora di pubblicare)! :) Un bacio Clio PS Ringrazio tutte coloro che hanno postato: vi ringrazio di cuore, veramente, senza di voi credo non avrei continuato! E grazie a chi ha letto!
  
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