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Autore: La figlia di Ade    16/12/2013    1 recensioni
Adelaide ha 15 anni e una vita intera davanti, ma capisce che tutto sta per cambiare quando dei fenomeni iniziano, da quando è piccola, a insinuarsi nella sua vita. Questa è la storia di una ragazza che verrà travolta da un amore sbagliato, ma che la segnerà per sempre.
"Ti renderò più facile, decidere ciò che è inevitabile." Negrita- Destinati a perdersi.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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Niente. Mi guardavo intorno e vedevo il niente, nella sua forma più perfetta. Il primo posto che mi venne in mente e, forse, l’unico, era la chiesa. Mi ritrovai davanti alla parrocchia, tutta sudata, con gli occhi persi e l’aria da vagabonda. Entrai di soprassalto, urlando: “Dov’è padre Gioele?”
Le suore mi assisterono, quando, con molta noncuranza, caddi a terra sulle ginocchia e scoppia in lacrime e brividi. Mi presero in braccio e mi portarono dal prete, che era intento a leggere il suo sacro libro. “Cos’è successo?” Mi chiese poggiandomi una vecchia veste da chierichetto sulle spalle. Alzai lo sguardo, le labbra mi tremavano: “Sono prossima ad una possessione.”
Il silenzio mi rimbombava nelle orecchie e nel cuore, lasciandomi assordare dalla quiete.
“Cosa intende?” Chiese sconvolto;
“I miei genitori... Vogliono dare via la mia anima.”
Il suo sguardo si accese in rabbia, si alzò di scatto e mi prese il braccio in malo modo, per spingermi via dalla chiesa. “Eretica!” Mi gridò, prima di chiudermi la porta di legno in faccia.
Mai ho capito il perché di quel gesto, se per paura della verità o di poter perdere il buon nome della sua umile chiesa. Forse non era suo dovere, ma in ogni caso una cosa è certa: mi lasciò nel bel mezzo di una bufera. Mi misi la mano in tasca, tremante, ma a mia sorpresa non c’era più alcun foglio.
Ritornai a casa febbricitante e con conati, ma feci in tempo a rientrare prima dei miei genitori. Mi buttai sotto le coperte, in preda agli spasmi e brividi. Mi addormentai nel dolore di quel giorno soffocante. Ma, ovviamente, non finì lì.
Mi risvegliai nella mia stanza, c’era una strana umidità e puzza di carogna. Con una leggera sensazione di vertigini, cercai di posare i piedi a terra, ma amia sorpresa il pavimento era scomparso e sotto i miei piedi c’era il vuoto. Riuscii a posare i piedi in uno strato invisibile.
Il sangue mi si gelò e il nero nel mio soffitto si fece più intenso. Lo fissai fino a perdere le forze per poi cadere a terra. Delle grida mi rimbombarono nel cranio, per poi cessare di colpo. Mi raddrizzai a sedere, con una sensazione assurda di cadere nel vuoto, ma ero ferma. Feci un grosso respiro prima di essere mangiata viva dal nulla. Il pavimento trasparente si alzò in aria emettendo uno strano scricchiolio, per poi schiacciarmi.
Mi svegliai di soprassalto, col fiatone e la fronte grondante di sudore. Era mattina e sentivo gravemente la mancanza di Beatrice, ormai in viaggio da qualche giorno.
Bea stava crescendo e cambiando e io non potevo ribellarmi, sarebbe stato ridicolo e inutile.
I suoi capelli si tinsero di rosso elettrico, il suo trucco si fece pesante e la sua vena artistica aumentò incredibilmente.
“Amo viaggiare, capisci?” Mi ripeteva continuamente. Io in realtà non capivo.
Ma non sono qui per raccontarti le mille avventure di Beatrice, ma una storia totalmente diversa.
Un giorno finii pure per svenire fuori dall’ingresso della biblioteca. Quel giorno stavo così male da cercare consolazione nei libri centenari nella biblioteca di paese. Ma, mentre tentavo di leggere, nella mia testa rimbombava il suono dell’orologio.
Tick, tack, tick, tack tick, tack.
L’immagine delle ombre, del contratto scomparso, dei miei genitori... tutto mi invase la testa. Sei una farfalla, mi ripetevo, ma una farfalla non soffre così, muore dopo due giorni e questo mi avrebbe fatto comodo. Ma ero lì, mentre gli occhietti rossi delle ombre mi mangiavano viva.
Tremavo, piangevo contorta dal dolore dell’anima, alla fine mi si avvicino la bibliotecaria, la signora Cristina, mi guardò tubata per poi chiedermi: “Che succede?” Mi voltai, mi guardai intorno e poi sussurrai, ancora in preda alle lacrime: “Mi sento osservata...”
“Chi ti osserva?”
“Ovunque io guardi vedo i suoi occhi...”
“Gli occhi di chi?”
“Occhi maligni...” Lo dissi talmente piano che lei non mi sentì;
“Cosa dici?”
“Occhi maligni.” Ripetei;
“Di chi?”
“Di Lucifero.”
Lei scosse la testa, fece una strana smorfia e poi si voltò e scomparve tra gli scaffali. Pensava che scherzassi? Impossibile; pensava che ero pazza? Sicuro.
Corsi in bagno per sciacquarmi il viso. Dopo aver tentato di annegare tra le mie mani, alzai il viso. Dietro di me: occhi rossi. Le lacrime che mi scendevano in viso: rosse. Non feci in tempo a voltarmi, ad urlare, a respirare, che l’ombra si avvicinò alla luce. Scusa, umanoide e con lunghi artigli. Ansimavo e piangevo lacrime di sangue. L’ombra cacciò un urlo disumano, quasi animalesco, facendo scoppiare il muro in fuoco e polvere. Chiusi gli occhi, accecata. E quando la luce si attenuò, davanti a me di nuovo il muro, ma con una scritta: “Tu sei mia.”
Romantico...
Corsi via, in preda all’agitazione e l’ansia. Svenni fuori dalla porta.
Mi risvegliai con un panno bagnato in fronte e mia madre che mi accarezzava il viso. La scostai nervosamente, pensando fosse la mano della morte.
Davanti a me un’immagine raccapricciante: mia madre che parlava con una presunta infermiera, in modo dolce... di me!
Rimasi in silenzio a guardare quell’immagine impossibile, per poi capire tutto nel momento in cui l’infermiera se ne andò.
“Che cavolo ti salta in mente? – Ecco mia madre- Adesso pensano che sei malnutrita e che ti maltratto. Vedi, vedi come ti faccio svenire io a casa. Pensi che io ti maltratto, Adelaide?”
Feci cenno di no. Non si può discutere con mia madre, questo è certo.
“Hanno trovato qualcosa in bagno?” Chiesi;
“Ma cos’è? Ti droghi pure, ora?”
“No... è che... non fa niente.”
Ritornai a casa pallida e tremolante. Sentivo di non avere nessuno e la parte più triste è che quel presentimento era pura e rauca verità.
Il giorno seguente evitai il più possibile di stare a casa. Ma fuori da quella prigione mi aspettava il mondo, che di certo non era meglio. Caso strano incontrai un gruppo di ragazzi al parco, tanto per essere fortunata, tra cui c’era anche Riccardo Maggio. Appena ci passai davanti, con le gambe bloccate, i ragazzi cessarono i loro discorsi di colpo. Dal silenzio si squarciò una voce: “Hey!” Era Riccardo. Mi voltai. “Dici a me?”
“Avvicinati.” Lo feci;
“Tu sei Adelaide, giusto?” Come se non lo sapesse...
“Sì...”
“Posso chiederti una cosa?”
“Dimmi..”
“Ma tu... per caso vedi ombre, demoni o cose simili?”
“...”
“So benissimo che è dura. Ma, di noi puoi fidarti...”
“Io...”
“È vero, quindi?”
“Sì...”
“Ti senti continuamente perseguitata, impotente...”
“Impotente..” Ripetei, avevo lo sguardo fisso nel nulla;
“Posso chiederti una cosa?”
“Dimmi.” Stavolta lo guardai in faccia;
“Puoi dirmi per favore chi è il tuo pusher? Quella che hai preso, sembra roba buona.”
Lo guardai negli occhi, sorrisi e le parole mi uscirono da sole: “Può darsi che ora tu ti senta più potente e migliore di me, ma ricorda che davanti alla morte siamo tutti uguali.”
“Che significa?”
“Che se fossi in te non spererei di vivere ancora a lungo dopo tutte quelle sigarette.” Alzai i tacchi e scomparvi con un sorriso fiero sul volto.
  
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