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Autore: hirondelle_    18/12/2013    1 recensioni
Si precipitò nel corridoio lottando contro l'impulso di fuggire, di scappare da quella villa maledetta, da fuggire dal demone che la sua famiglia serviva da decenni. Non lo fece, e corse verso la camera da letto dell'essere.
Pam. Pam. Pam.
Tu-tum. Tu-tum. Tu-tum.
Genere: Angst, Dark, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
- Questa storia fa parte della serie 'Tell me a story'
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Midnight
I demoni non dormivano.
Era una verità sostanziale che lo accompagnava da secoli, millenni. La notte si nutriva di lui, e poteva accorgersene perfettamente, senza dolore né paura. Poteva essere divorato e non sentire assolutamente nulla. Era una sensazione piacevole e curiosa. C'erano davvero tante cose che lo incuriosivano, nella sua immortalità: piccole sfaccettature, pezzi di tempo e ricordo che venivano cuciti insieme un po' male, un po' velocemente. Una favolosa, logorante non-vita.
Non riusciva a spiegarsi molte cose, perché non sempre se le ricordava e le sue memorie da uomo vivo si perdevano in un tempo passato e dimenticato. Non capiva, ad esempio, perché James sentisse inevitabilmente il bisogno di dormire ogni volta che facevano l'amore, lento o sfrenato che fosse. Non capiva perché sorridesse in quel modo mentre crollava nel mondo dei sogni, non capiva per quale motivo gli stringesse la mano.
Allo stesso modo, non capiva perché si ostinasse a guardarlo, ogni santa notte, sciogliendoli la treccia sovrappensiero, quando avrebbe potuto benissimo vagabondare per la città alla ricerca disperata di qualche soddisfazione.  Non capiva perché sentisse il desiderio irrefrenabile di baciarlo, di sentire ancora la sua pelle sotto le dita, di sussurrargli all'orecchio un velato: "Ti voglio".
Gli sfiorò una ciocca di capelli vermigli con le sue dita brune e rimase disteso al suo fianco, perdendosi nei pensieri come sempre. Aspettando di vedere i suoi occhi verdi.
I demoni non dormivano.
I demoni non dormivano mai.
 
Spari nella notte. Uno dopo l'altro, senza interruzione, meccanici.
Il maggiordomo si svegliò di soprassalto, stringendosi nella vestaglia e rabbrividendo nel sentire il più completo silenzio che li accompagnava. Pam, pam, pam. Non finivano più, continuavano, inesorabili, un incubo che non si estingueva, la notte che non riusciva ad assorbire il dolore.
Si precipitò nel corridoio lottando contro l'impulso di fuggire, di scappare da quella villa maledetta, da fuggire dal demone che la sua famiglia serviva da decenni. Non lo fece, e corse verso la camera da letto dell'essere.
Pam. Pam. Pam.
Tu-tum. Tu-tum. Tu-tum.                                          
Suo bisononno aveva tramandato l'insegnamento a suo nonno, suo nonno a suo padre, suo padre a lui. Era una tecnica che funzionava da generazioni, nel caso il padrone Alexander Jonathan Mortimer avesse attacchi di follia. La conosceva, ma non era mai stato in grado di applicarla: era la prima volta che gli accadeva.
 Paul Morgan aveva solo ventisette anni.
Spalancò la porta, e non si sorprese nel trovare il demone, completamente impassibile, seduto al centro del letto. Caricava, si portava la sua cilindrata alla tempia, e sparava. Uno sguardo fisso e vacuo che non gli aveva mai visto, come se fosse del tutto irraggiungibile lì, sul suo letto, lontano dalle ombre della paura.
Accese la candela abbandonata sulla specchiera accanto al letto, e si avvicinò lentamente. La lentezza era una cosa fondamentale nella vita quotidiana di Alexander.
Il demone non sembrò accorgersi della sua presenza fino a quando egli non gli prese la pistola e cautamente lo cinse con le braccia, piano, senza far rumore. Sentiva la sua pelle fredda a contatto con la sua camicia, e lacrime scure macchiargliela inesorabilmente. Un nome sbiancato vecchio da secoli.
 
Avevano aspettato che le urla s'interrompessero. Poi, spinti dalle ombre delle loro stanze, erano usciti fuori schiudendo la porta. Non avevano osato avanzare nel corridoio, erano rimasti sulla soglia a dondolarsi sui piedi, fissando gli occhi spauriti del ragazzino che avevano di fronte o le sue costole sporgenti.
Era stato scelto Il Principe. L'intoccabile. Colui che aveva sempre una razione doppia, quello che otteneva sempre tutti quei gioielli luccicanti da sfoggiare elegantemente ovunque si trovasse. Quello dagli occhi rossi e i capelli bianchi: albino. Una perla rara, tanto da essere considerata preziosa.
Forse era stata quella sua singolarità ad averlo condotto in quel posto orribile, forse era per quello che quei vecchi che puzzavano di alcool lo bramavano. Lui poteva fare solo un servizio alla settimana.
Quella volta avevano potuto vedere il cliente: un tipo tarchiato, un gigante dalla barba ispida e incolta e gli occhietti piccoli e neri. Era entrato nella stanzetta del Principe senza una parola, un sorriso bramoso di sesso.
- Che è successo Esme? Perché non urla più?
Era un sussurro. Esme. Il ragazzo dai capelli rossi rimase immobile sulla soglia della sua stanza, gli occhi fissi sulla porta del suo compagno: apriti pensava, apriti ti prego. Non voleva rispondere al piccolo che gli aveva fatto la domanda: era giovane lui, appena otto anni, non era ancora stato sverginato e probabilmente non sarebbe sopravvissuto qualora fosse successo. Cosa poteva saperne.
La porta si aprì davvero. Ma uscì solo il vecchio.
Percorse il corridoio con aria spaventosamente afflitta, accarezzandosi la peluria che gli ricopriva il cranio ossuto con imbarazzo. Camminò con sguardo basso e non si voltò a guardarli.
Sembrava essere uscito da una voragine nera di silenzio. Dalla porta non giungeva neppure un fruscio, uno schiocco secco, un gemito di dolore. Era tutto terribilmente immobile, e i bambini più temerari si affacciarono in quel buio con sguardo perso, l'odore impregnante di feci e sperma raggiungevano le narici. - Principe? - chiamavano, piano. - Principe? Principe stai bene?
Esme rimaneva immobile. Fissava la porta vuota e non parlava.
La luce del corridoio illuminava appena una grande macchia di sangue.
Sono io pensò. Il prossimo sono io…
 
 
   
 
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