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Autore: everlily    20/12/2013    10 recensioni
Damon ed Elena si conoscono quando sono solo adolescenti.
Non hanno niente in comune, se non i casini e la confusione che entrambi si portano dentro. E' un'amicizia improbabile la loro, in cui i confini si confondono, a volte sofferta, ma di cui nessuno dei due riesce a fare a meno.
Anni dopo, entrambi si sono costruiti una propria vita lontani l’uno dall’altra: ma l'inatteso ritorno di Damon a Mystic Falls può ancora mandare all’aria molti piani e finire per rimettere tutto in discussione.
Dalla storia. “Per tutto ciò che ha spinto, e forse spinge ancora, me e Damon ad avvicinarci, c'è sempre stato anche qualcos'altro, più nascosto e latente, una forza contraria sempre pronta ad esplodere e ad allontanarci con la stessa intensità. E non so se, adesso che entrambi siamo cresciuti e andati avanti con le nostre vite, anche questo sia cambiato. Forse, il vero quesito a cui è più difficile rispondere è se io voglia davvero scoprirlo oppure no."
AU/AH
Genere: Angst, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Damon Salvatore, Elena Gilbert, Un po' tutti | Coppie: Damon/Elena
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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7.efp


7.

Ever fallen in love?

(with someone you shouldn’t’ve fallen in love with)


Damon


Mi sveglio ancora prima che faccia giorno, in un letto che non è il mio. Se non altro, il profilo della donna al mio fianco, quel caschetto biondo miele leggermente mosso che arriva a sfiorarle le spalle, è familiare.

Lentamente, mi giro fino a sdraiarmi sulla schiena e chiudo gli occhi per cercare di riafferrare un sonno che tanto so che se ne è già andato.

“Quindi … Vuoi dirmi di che si tratta?” mi aveva domandato Andie la sera prima non appena avevamo messo piede in casa sua, dopo essercene andati dalla cena all’aperto con cui Barbie aveva invaso casa mia.

“Di che parli?”

“Oh, andiamo, Damon. Sono la prima ad essere d’accordo con il mantenere tutto molto disimpegnato, ma non mi piace essere presa in giro, non ne ho il tempo. Tu e quella ragazza, Elena …” Si era tolta anche il secondo tacco, aveva gettato entrambi i sandali neri a terra accanto al divano e si era avvicinata a me scalza, alzando un sopracciglio in modo eloquente. “… il modo in cui ti guardava, il modo in cui tu guardavi lei …. Se ne sarebbero accorti anche i sassi del giardino ed io ho un quoziente di 125. Mi piace considerarmi intelligente. Onestamente, mi chiedo se quel suo fidanzato sia davvero così cieco o soltanto tanto bravo a fingere di non notarlo. Quindi … qual è la storia? E’ la tua ex?”

“Non è la mia ex.”

Aveva allungato le dita per iniziare a sbottonarmi, senza fretta, i bottoni superiori della camicia.

“Ne sei ancora innamorato?”

“Ti ho detto, non è la mia ex.”

Un veloce sorriso sagace mentre faceva saltare anche l’ultimo bottone.

“Come se una cosa escludesse l’altra.”

Le avevo scansato i capelli dalla nuca e depositato un bacio sulla porzione di pelle che avevo scoperto.

“Lo sono stato, è vero,” mi ero ritrovato ad ammettere, mentre cose a cui da tempo ho imparato a non pensare iniziavano a minacciare di tornare a galla. Le avevo affogate di nuovo, in una serie di baci più voluttuosi contro il suo collo. “Molto tempo fa. E non avrei dovuto. Ho discretamente incasinato parecchie cose.” Avevo raggiunto la cerniera laterale del suo vestito e lo avevo fatto cadere a terra. La mia camicia già aperta era seguita subito dopo. “In ogni caso, non è un errore che intendo commettere di nuovo.”

Non appena i contorni della conversazione con Andie svaniscono, sono inevitabilmente quelli di Elena che cominciano a susseguirsi dietro le palpebre.

Elena che cerca il mio sguardo ad ogni occasione. Elena che si porta le dita a coprire un ciondolo che neanche pensavo potesse avere ancora. Elena che mi sorride, con quell’accenno di fiducia negli occhi che è sempre stato la mia rovina. Io che cedo, venendo meno al mio proposito di non intromettermi più nella sua vita e lasciarla essere felice nei modi che ritiene migliori. Cedo e la parte peggiore è che in fondo non lo rimpiango nemmeno.

Anzi no, la parte peggiore deve ancora arrivare. Arriva quando ciò che, per un attimo, mi ritrovo ad immaginare sono lunghi e lisci capelli color cioccolato sparsi sul cuscino, su un’altra schiena nuda che non è quella che ho accanto, insieme ad un ago infilato tra le costole a ricordarmi che quella, invece, è un’immagine che non vedrò mai.

Getto un’occhiata alla sveglia sul comodino e noto che non sono neanche le cinque, ma non ho mai sentito così forte l’urgenza di allontanarmi da un letto e da qualcuno come in questo momento. Raccolgo i vestiti sul pavimento, mi rivesto e me ne vado col silenzio di una tecnica perfezionata negli anni. Quando chiudo la porta, Andie non si è nemmeno mossa.


Torno a casa solo per cambiarmi i vestiti, indossare velocemente maglietta e pantaloncini e buttarmi a correre tra i sentieri del bosco che si allarga dietro la villa. Una di quelle corse decisamente più lunghe di quanto dovrebbe, con i polmoni bruciati dal vento freddo del mattino.

Quando rientro sono già quasi le otto. Trovo Stefan e Caroline in cucina a finire di fare colazione, entrambi già vestiti di tutto punto, l’aria impregnata del gradevole odore di caffè, pancakes e succo di arancia fresco.

“Li hai preparati tu, Care?” domando alla biondina che sorseggia il suo caffè in piedi, appoggiata contro il ripiano della cucina, indicando le morbide frittelle rimaste impilate su un piatto al centro del bancone. “Potrei quasi amarti.”

“Mettiti in fila, allora,” replica lei, squadrandomi dall’alto in basso mentre sollevo un lembo della maglietta per asciugarmi il sudore dalla fronte. “E poi, puzzi.”

“Dunque non lo vuoi un abbraccio adesso?”

Le passo accanto nell’allungarmi verso il lavandino alla sua sinistra per versarmi un bicchiere d’acqua. Si allontana alla svelta con un lieve picchiettio di tacchi ed una smorfia disgustata.

“Vado. Ci vediamo stasera.”

Caroline posa la sua tazza vuota e si protende su Stefan, che invece è ancora seduto sullo sgabello vicino al bancone centrale. Alzo gli occhi al cielo mentre si baciano, a lungo, lingua e mani e tutto quanto.

“Ma guardati, tutto contento,” lo provoco con fare canzonatorio, quando la sua onnipresente fidanzata se ne è andata.

Si stringe nelle spalle mentre dà una sciacquata a tazze e piatti, ma con un abbozzo di sorriso che cerca malamente di mascherare. Chiude l’acqua ed afferra uno strofinaccio appeso sulla parete alla sua destra per asciugarsi le mani.

“C’è una cosa di cui devo parlarti.”

“E’ incinta. Lo sapevo,” lo anticipo con un sogghigno ed una pacca di congratulazioni sulla spalla.

“Non è incinta. E smettila con questa fissa di farle fare bambini,” si sottrae con un leggero imbarazzo e posa lo straccio accanto al lavandino. “Ho intenzione di chiederle di venire a vivere qui.”

Lo guardo, stranito, per qualche secondo.

Qui? Nel senso di qui in questa casa, nel senso di qui con te e me?”

Mio fratello incrocia le braccia sul petto e si appoggia all’indietro, ed ha un vago un mezzo sorriso compiaciuto mentre replica, “Pensavo che tu non avessi intenzione di rimanere a lungo nei paraggi.”

“Infatti,” mi correggo subito. “Ma, Stef … sette giorni su sette di … Caroline? Sei davvero sicuro di volerlo fare?”

“Sembra divertente, vero?” Questa volta è lui a darmi una paio di pacche consolatorie sul braccio. “Inizia ad abituarti.”


Rientrai a casa dal lavoro nel negozio più tardi del solito, trovando accesa la luce nella dependance che ormai mi faceva da casa. Perciò non mi sorpresi di scoprire che Stefan mi stava aspettando seduto sul limitare del divano alla destra dell’ingresso, con i gomiti posati sulle ginocchia ed intento a fissare in modo assente la cartolina che si stava rigirando tra le mani.

“Ehi,” lo salutai gettando le chiavi sul basso tavolino di legno in fronte a lui, “Cos’è quello?”

“Notizie da Charlotte.”

Mi tolsi la giacca e la buttai sul bracciolo accanto a lui.

“Dov’è questa volta?”

Stefan alzò lo sguardo per cercare il mio con una smorfia, intanto che con un rapido movimento ruotava la cartolina tra le dita per mostrarmene il lato anteriore: un alligatore pronto a mordere accompagnato dalla scritta ʿHaving a snapping good timeʾ [1]. Che amore.

“Florida. Almeno le vacanze di Natale quest’anno le facciamo al caldo,” commentai.

Stefan si alzò e in un paio di passi mi raggiunse dall’altra parte della piccola stanza, accanto all’angolo cottura.

“Si chiama Melvin, ha una barca e tre cani,” proseguì. Depose la cartolina su un ripiano accanto ai fornelli, tirò fuori dalla tasca i suoi bravi cinque dollari e ce li mise sopra puntandoci il dito. “Le do sei mesi.”

“Con uno che si chiama Melvin?” ribattei sarcastico. Tirai fuori la mia parte della scommessa per unirla alla sua. “Gliene do massimo quattro.”

Stefan prese sia la posta in palio che la cartolina e li inchiodò sul frigo in alto a destra con una calamita del servizio di pizza a domicilio, a fare come sempre da memo alla nostra ormai radicata abitudine di scommettere sulla durata delle fiamme amorose di nostra madre.

“Volevo parlarti di una cosa,” disse quindi, infilandosi entrambe le mani nelle tasche di jeans e dondolandosi appena avanti indietro, come ogni volta che si sentiva nervoso per qualcosa.

Dal frigo presi due bottiglie di birra, le aprii e gliene porsi una. Mi appoggiai all’indietro contro il lavandino a sorseggiare la mia e gli feci cenno di continuare.

Stefan se la rigirò un po’ tra le dita prima di buttarne giù una lunga sorsata.

“Si tratta di ragazze,” esordì quindi d’un fiato, guardandomi incerto da sotto in su.

Sogghignai tra me e me.

"Usa il preservativo, abbastanza preliminari e, soprattutto, usa bene la lingua, e vedrai che andrai alla grande.”

Si accigliò, disorientato. “No. Voglio dire … questo lo so già, grazie,” ribatté.

Posò la birra sul tavolino e si tirò su le maniche della felpa, prendendo un profondo respiro.

“Intendevo che si tratta di … ʿragazzeʾ.”

Iniziavo a capire dove stesse andando a parare.

“Tipo …” mi sfuggì una strana smorfia “… sentimenti?”

“Sai cosa?” sospirò, “Lascia stare, non era poi così importante.”

“Andiamo, stavo scherzando,” lo richiamai di nuovo, sporgendomi per dargli un colpetto sulla spalla. “Posso farcela. Fratello maggiore a rapporto.”

“Ok, mettiamo che … hai fatto un casino.” Iniziò a camminare avanti e indietro, mentre mi chiedevo come mai, chissà perché, i casini dovevo farli sempre io. “Diciamo che - ipoteticamente - c’è questa ragazza. E ti piace. Parecchio. Ma non dovrebbe, dovrebbe piacerti qualcun’altra. Pensavi ti piacesse qualcun’altra.” Assottigliai lo sguardo su di lui, che intanto si era ripreso la bottiglia e di nuovo se la stava incessantemente rigirando tra le dita. “Quindi le dici che non sei interessato, e non lo sarai mai. E adesso lei ti odia.”

Continuai a guardarlo perplesso, con la birra in mano a mezz’aria, senza avere la minima idea di cosa diavolo stesse blaterando. Mi sarei forse messo a ridere, se non fosse stato per l’espressione grave che aveva in faccia.

Mi gettò un’altra occhiata speranzosa. “… Cosa faresti?”

“Ipoteticamente, eh?” ripetei, ma con un’altra occhiata frustrata mi stroncò sul nascere qualsiasi potenziale battuta. “Non lo so, lascerei perdere immagino.”

“Ma non voglio lasciar perdere,” protestò. “Hai mai avuto la sensazione, immediata, che con qualcuna le cose siano semplicemente …. Diverse?”

Serrai le labbra mentre mi soffermavo a pensarci, ma con scarsi risultati. Insomma, l’unica ragazza che potessi associare alle parole di Stefan era Elena, ma quella era tutta un’altra storia. Certo, le cose erano diverse con lei, ma non nel senso in cui potesse intenderlo lui.

Elena era … Elena. Mi ero ripromesso di non iniziare a pensare a lei sotto qualsiasi altro punto di vista. Di non mandare in alcun modo le cose all’aria. E poi, era una ragazzina, e decisamente aveva già troppo pensieri per lasciare che a questi mi ci aggiungessi anche io.

“Mi dispiace, Stef,” dovetti ammettere, andando ad incrociare il suo sguardo sconfortato. “Non penso di avere grandi suggerimenti in questo caso.”


***


E’ tardi, come minimo l’una passata.

Ma, dopo una videochiamata di tre ore con Alaric per mandare avanti le cose anche a distanza, sono ancora qui, nell’ufficio che una volta era di mio padre, con le gambe allungate sul divano di pelle che fiancheggia un lato della stanza perché allergico a qualsiasi genere di scrivania, soprattutto la sua. Sfoglio i verbali del consiglio degli azionisti della settimana scorsa, con il fermo intento di scovare, tra i progetti e le proposte che sono state discusse, una qualsiasi cosa in grado di risollevare le sorti della compagnia e tirarmi fuori da questo buco.

Finora, ho trovato davvero poco.

Volto la testa quando vengo richiamato da un colpo leggero sulla porta.

“Sto andando a casa,” mi annuncia Stefan facendo capolino.

Ha il suo ufficio proprio accanto a questo qua, gentile cortesia dovuta al fatto che a differenza di me lavorasse qui già da prima che nostro padre ci lasciasse nei casini. Io, d’altro canto, sono praticamente inchiodato nella medesima stanza in cui avevo giurato di non mettere più piede.

Alzo lo sguardo davanti a me, fissandolo verso la finestra alle spalle della scrivania.

“Perché pensi che abbia voluto lasciare a me la quota di maggioranza?” gli domando corrugando appena la fronte.

Stefan lascia la porta socchiusa, avanza di qualche passo e si appoggia contro la scrivania a braccia conserte, una gamba incrociata sopra l’altra.

“Non so,” alza le spalle, “Però forse lo capiremmo, se solo tu leggessi quella lettera ….”

“Non voglio leggere la lettera,” lo fermo subito. “Voglio sapere cosa ne pensi tu.”

Ci pensa qualche secondo. “Gli mancavi.”

Scuoto la testa e piego la bocca in un sorriso doloroso.

“Stronzate. Non avrebbe mai preso decisioni importanti basandosi su stupidi sentimentalismi. E poi, se fosse stato quello, avrebbe potuto prendere quello stramaledetto telefono e chiamarmi. Non l’ha mai fatto.”

“Dovresti leggere la lettera,” ribadisce, “Non capisco perché ti ostini a non farlo.”

“Vuoi sapere il perché? Ok. Perché tu pensi che sia una sviolinata sui rimpianti ed il valore della famiglia.” Gli getto un’occhiata, vedo le sue labbra contrarsi sottilmente e so che ho colto alla perfezione il suo pensiero. “Non negarlo. Ma io so che non è così. In ogni caso, qualsiasi cosa avesse avuto da dirmi, ha avuto otto anni per farlo. Adesso, non me faccio niente.”

Stefan inclina il capo ed abbassa lo sguardo sulle sue scarpe sportive, alle quali non riesce a rinunciare neanche in un ambiente più professionale. Mi fa pensare che, da qualche parte, sia ancora il ragazzino sempre con l’incrollabile ed ingenua speranza che per qualsiasi problema si possa trovare una soluzione.

Tuttavia, non ribatte questa volta, lasciando che il silenzio si estenda ancora un po’ più a lungo.

“Dovrei andare.” Mi passa accanto ed esita, fermandosi sulla porta. “Non fare troppo tardi,” mi dice quindi prima di andarsene.

Cerco di ritornare a quello che stavo facendo, anche se è pressoché impossibile. Continuo a leggere le stesse righe e gli stessi dati per minuti interi senza neanche vederli.

Lo squillo del cellulare mi distrae. Allungo una mano all’indietro, verso il comodino a cui sto dando le spalle, per afferrarlo e vedere di chi si tratti, anche se in fondo lo sapevo già. Andie.

Esito qualche istante. Poi ignoro la chiamata, insieme alla prospettiva di un po’ di un sesso per la notte. Non sono neanche troppo sorpreso di vedere che lei non insiste.

Mi alzo e vado fino alla finestra, per chiudere le veneziane, finire lì la giornata ed uscire finalmente da quella stanza.

C’è uno scorcio della fontana al centro della piazza principale che spicca nel mezzo del buio più rischiarato rispetto al resto. Colpa di un paio di luci ancora accese provenienti dal Grill, che si riflettono sulla superficie dell’acqua e che mi portano a domandarmi se per caso non sia troppo tardi per andare ad incassare quel famoso caffè insieme alla proprietaria.


“Mi sono già perso l’ultimo giro?”

Elena, di spalle, sobbalza così violentemente che un vassoio vuoto le cade di mano, abbattendosi sul pavimento con un tonfo metallico. Si volta di scatto e si porta una mano all’altezza del petto non appena mi vede uscire dalla cucina.

“Santo cielo, Damon, mi hai spaventato a morte!” esclama chinandosi per raccogliere il vassoio e posarlo sul bancone. Si passa il dorso della mano sulla fronte e sospira pesantemente. “E’ chiuso, come diavolo hai fatto ad entrare?”

Avanzo di qualche passo nel locale deserto, rivolgendole un veloce sogghigno.

“Ho usato il vecchio trucchetto con la porta di servizio,” spiego facendo riferimento ad un difetto nella porta delle cucine che mi aveva mostrato anni prima. “Non pensavo neanche che avrebbe funzionato. Dovresti pensare a farla sistemare. Ehi, Jenna.”

Jenna esce dalla dispensa e si blocca sorpresa nel vedermi. Mi squadra accigliata.

“Ehi, Damon,” risponde, marcatamente sospettosa, mentre io mi siedo su uno sgabello davanti al bancone e le sorrido pacifico. “Che succede?”

“Jenna, puoi andare se vuoi. Qua finisco io,” le dice Elena.

“Sei sicura?”

Le due si scambiano un lungo sguardo. Elena infine annuisce ed accompagna Jenna alla porta principale per farla uscire, quindi la richiude di nuovo dando un paio di giri di chiave.

Si volta di nuovo, ma rimane qualche secondo ancora ferma sull’ingresso, dalla parte opposta del locale. Vengo colpito dall’improvvisa consapevolezza che siamo per davvero solo noi due e, forse, è lo stesso anche per lei. A dispetto di ciò che ha detto, non sembra più così sicura adesso.

“E’ tardi, Damon …” sottolinea l’ovvio e, probabilmente, anche l’inappropriatezza, mentre infine si muove per raggiungermi.

“Lo so,” le faccio sapere, a bassa voce. “Immagino di non essere mai stato bravo a scegliere il momento giusto.”

Le suscito l’accenno di un debole sorriso.

“Posso andarmene, se vuoi.”

A giudicare dal conflitto che le attraversa lo sguardo, c’è una parte di lei che quasi lo spera. Solo che poi scuote la testa e si siede, sullo sgabello adiacente.

“No. Resta.”

“Quindi … come vanno le cose?” chiedo, ruotando di un poco il busto verso di lei.

“Vanno bene, in realtà …” piega appena le labbra verso l’alto, lo sguardo abbassato sulle sue mani, distese sul bancone.

Sono così vicine alla mia che l’idea di sfiorarle con le dita è un istinto paurosamente naturale. Ma c’è quell’anello onnipresente a ricordarmi che, in realtà, non lo è.

“Sono contento che tuo padre si sia rimesso in sesto,” le dico piano, ripensando a ciò che aveva detto un paio di sere prima dopo il barbecue in giardino.

Increspa le sopracciglia e socchiude le labbra, ma si blocca come se fosse stata sul punto di dire qualcosa ed avesse cambiato idea all’ultimo momento.

“Sai, circa due anni fa …” comincia quindi, “Una sera era rientrato a casa in condizioni peggiori del solito. Lui e Jeremy hanno iniziato a litigare, pesantemente. Non so neanche come, ma sono arrivati alle mani. E’ stato orribile. E’ stato lì che ha capito che era andato troppo oltre, è andato in riabilitazione dopo pochi giorni. Non si è mai perdonato per quella sera.”

Sentirla parlare è una ferita ricucita a malapena che si riapre di colpo tutta insieme. Avrei dovuto esserci.

“Come sta Jeremy?” domando, pensando che io, al posto suo, non avrei preso affatto bene una situazione del genere.

Sul suo volto una piccola smorfia si confonde con un sorriso amaro. “Vorrei saperlo. Per di più, ha smesso di parlarmi da quando l’ho sorpreso nella dispensa a fare sesso con una cameriera.”

“Lui …” aggrotto la fronte, pensando di non aver capito bene. “… cosa?”

Devo essermi lasciato sfuggire un mezzo ghigno, perché Elena mi lancia un’occhiataccia storta.

“Non esserne così colpito! Jer era minorenne fino a solo due mesi fa!” esclama indignata, mentre io mi sforzo di non ridere di nuovo, “Sono così felice di averla licenziata.”

“Hai licenziato la sua ragazza? Ci credo che è incazzato.”

Le si spalancano gli occhi per l’indignazione. “Da che parte stai? ...”

“Andiamo, Elena, è un ragazzo ed ha diciotto anni. E’ chiaro che non pensa con la testa.”

“E con cosa …?” si interrompe da sola di fronte al mio sopracciglio alzato, e dal cipiglio confuso passa all’improvvisa illuminazione. “Ooh.”

Ciò che segue dopo è facile. Fin troppo facile.

E’ facile starla ad ascoltare intanto che pian piano si rilassa e ammette, coprendosi la fronte con una mano, che quella è probabilmente la cosa più imbarazzante che le sia mai capitata, e ciò include un paio di circostanze degli anni del liceo di cui solo in pochi siamo a conoscenza e che avrebbero decisamente potuto contendersi il premio.

E’ facile saltare da un argomento all’altro. E’ facile essere catturato dalle risate che si liberano dalle sue labbra quando la metto al corrente dei momenti più bizzarri di Alaric. Credere al modo in cui dice che le piacerebbe da morire poterlo incontrare.

Nessuno dei due ha veramente voglia di andare a toccare argomenti – matrimoni e cuori spezzati, passati e non – che potrebbero infrangere la fragile illusione che per un attimo sembriamo esserci creati.

E forse è anche un po’ colpa della notte, che si sa tende a far cadere più facilmente qualsiasi apparenza, anche quelle meglio costruite, ma è dannatamente facile anche ritrovarmi a riconoscere quanto Elena mi sia mancata, mentre me ne stavo dall’altra parte del continente.

Così come è facile ricadere, di nuovo, in una vaga sensazione di amarezza al pensiero di ciò che avrebbe potuto essere, della quale ero certo di essermi liberato. Per un attimo penso che forse, se non fossi stato così avventato, se avessi aspettato, se le avessi dato più tempo …

Per fortuna mi costringo ad interrompere il mio inutile e pericoloso gioco dell’ ʿe se …ʾ prima che possa andare troppo oltre.

Accade tutto talmente in fretta che in un batter d’occhio sono quasi le quattro del mattino, ed è qualcosa di piuttosto imbarazzante da realizzare. Tanto che il quieto commiato sulla porta che segue a quelle poche ore che abbiamo condiviso, in mezzo ad una cittadina adesso davvero deserta, è l’unico momento che porta con sé un non meglio imprecisato disagio. Non so neanche io bene perché, ma credo che sia un bene non sforzarsi di capirlo.


***


Ottenere un pomeriggio libero, da Rose, era un evento piuttosto raro, dunque immaginai di dover ringraziare la comparsa inaspettata di un “vecchio amico” che, da quel poco che avevo avuto modo di intuire, era un mezzo cantante itinerante che di atteggiamento amicale aveva ben poco. Mi avevano cacciato fuori dal negozio alla svelta, appena prima di avvinghiarsi sulla prima superficie disponibile.

Non avevo nessun programma, di conseguenza una visita al Grill era sembrata, sul momento, una buona idea. Ingenuo che non ero altro.

“Ehi. Jenna.”

La barista carina, anche quel giorno come al solito di turno nel tardo pomeriggio, sollevò lo sguardo verso di me e mi sorrise di rimando. Quando arrivai vicino al bancone, non ebbi neanche bisogno di chiedere.

“Se cerchi Elena, Damon,” mi disse mentre finiva di spillare una birra. “La trovi nel retro.”

Girai quindi sulla sinistra attorno al bancone, conoscendo ormai perfettamente la strada, passai davanti alla cucina e percorsi lo stretto corridoio fino alla porta lasciata socchiusa del piccolo ufficio.

Stavo per aprirla, ma ciò che intravidi dallo spiraglio rimasto aperto mi fece immobilizzare all’istante.

Elena, di spalle, incrociò le mani per afferrare i bordi della t-shirt nera e tirarli su, fin sopra la testa. Prima che i lunghi capelli bruni si liberassero dalla maglietta per ricadere di nuovo, leggermente elettrizzati, mi si presentò una fugace visione della sua schiena.

Nuda.

Niente reggiseno.

Ruotò appena su stessa, quel tanto che bastava per afferrare il ricambio posato lì vicino.

Non riuscii ad evitarlo. Lo sguardo mi cascò sulla morbida curva disegnata dal profilo del seno prima ancora che avessi il tempo di poter razionalizzare. Deglutii a forza intanto che, in gola, qualcosa si inspessiva all’istante. Non solo lì.

Mi ritrassi di scatto, prendendomi qualche secondo per appoggiarmi alla parete del corridoio, chiudere gli occhi e riprendere il controllo. ʿMaledizione, datti un contegno,ʾ mi ripetei mentalmente. Neanche avessi visto certe cose per la prima volta.

“Ehi.”

Quasi trasalii quando mi sentii chiamare da Elena, mentre usciva dalla stanza chiudendo, questa volta del tutto, la porta alle sue spalle. Non poteva pensarci prima?

“Non ti aspettavo oggi,” mi squadrò con aria improvvisamente preoccupata, “E’ tutto a posto?”

Con un’altra rapida sbirciata, diedi un controllo veloce. Nuova maglietta e questa volta, sì, un reggiseno al di sotto. Annuii in risposta, concentrandomi per non fissarci troppo sopra lo sguardo.

“Ho un pomeriggio libero.”

“Bene. Stavo andando a prendere Jeremy agli allenamenti, vieni con me?” mi chiese mentre con le mani si raccoglieva i capelli e li fissava in una coda alta.

“Ok.”

“Sei sicuro di stare bene?” mi domandò soppesandomi attenta con lo sguardo, mentre ci incamminavamo fuori dal locale. “Sembri … strano.”

“Sto benissimo. Andiamo.”

Abbastanza fastidiosamente, continuò lo stesso a gettarmi occhiate dubbiose finché non arrivammo al piccolo campo da baseball. Ci sedemmo entrambi sugli spalti sul lato sinistro, in mezzo a mammine apprensive e padri troppo coinvolti per notare quanto i loro figli facessero schifo, a guardare un branco di ragazzini troppo magri o troppo cicciottelli giocare la peggiore partita che avessi mai visto in vita mia.

“Forza, Jer! Puoi farcela!” gridò Elena sporgendosi in avanti quando suo fratello si alzò dalla panchina e, con una faccia da patibolo, iniziò a dirigersi verso il quadrante e a mettersi in posizione per colpire la palla.

“Perché lo stai illudendo così? Quel ragazzo è terribile,” commentai con una smorfia, distendendomi all’indietro appoggiato sui gomiti, mentre Jeremy faceva roteare la mazza nel vuoto e mancava la palla di almeno cinque centimetri.

“Si chiama incoraggiamento,” sbuffò Elena con un’alzata di occhi al cielo. “Ne hai mai sentito parlare?”

Aggrottai la fronte mentre, a dispetto del suo tono retorico e sarcastico, mi prendevo qualche secondo per riflettere sulla sua domanda.

“Non proprio.”

Tornai a guardarla, ma era di nuovo tutta concentrata sulla partita.

Le coda alta le scopriva la curva del collo. La percorsi con lo sguardo a partire dall’incavo dietro all’orecchio, verso il basso, lungo la gola, fino al solco della clavicola, dove appena più sotto …

“ …. e tuo fratello è uno stronzo.”

Scattai di nuovo con lo sguardo verso l’alto, sicuro di non aver capito bene.

“Cosa?”

“Ma mi stai ascoltando almeno?” chiese assottigliando lo sguardo su di me. “Ho detto che tuo fratello è uno stronzo.”

Perplesso, accennai un vago sorriso che però non fece altro che attirarmi un altro sguardo fulminante.

“Lo trovi divertente?”

“Abbastanza, in realtà. Insomma, sono sicuro che lui si sente ripetere una cosa del genere praticamente di continuo, ma per me … questa è di sicuro una prima volta. Cos’ha fatto?”

“Caroline non se lo meritava. Lei stava solo cercando di essere gentile. E’ stato così …. cattivo da parte sua, trattarla male in quel modo! E dirle che non sarà mai interessato a lei, solo perché ad un tratto è arrivata la sua ragazza.”

La osservai scuotere la testa, il naso corrucciato in un’espressione infastidita per il grave oltraggio subito dalla sua amica, mentre io venivo lasciato a mettere insieme i pezzi, a dir poco confusi, di cosa cavolo avesse voluto dire Stefan un paio di giorni prima.

Un fischio prolungato segnò la fine dell’allenamento ed Elena balzò in piedi per raggiungere il fratello, che intanto si apprestava a lasciare il campo con aria mesta.

“Andrà meglio la prossima volta, Jer.”

Il ragazzino replicò solo con una smorfia ed una scrollata di spalle. Lei sospirò e lo seguì con lo sguardo mentre andava a togliersi, con gesti stizziti, le protezioni.

Mi alzai anche io e la raggiunsi, mentre mi spremevo per farmi venire una qualche idea in grado di farle sparire dal viso quell’espressione affranta. Non avevo idea di cosa fosse che andava a smuovere, dentro di me, ogni volta che la vedevo così triste.

“Senti …” iniziai, infilandomi le mani nelle tasche laterali della giacca di pelle. Il motivo per cui l’amico di Rose era piombato in città mi aveva improvvisamente dato uno spunto. “ … So che c’è una specie di festival cittadino a Blue Ridge, sai, con …” presi un profondo sospiro, non potevo credere che lo stessi dicendo veramente, “… musica locale, e dolci, e cuccioli carini, e sì, insomma, tutte quelle robe che piacciono tanto ai bambini. E’ solo un’ora di macchina. Vuoi andare? Magari lo tira su di morale.”

Elena si voltò e dischiuse appena le labbra, osservandomi stupita.

“Lo faresti?” chiese con un filo di speranza a trasparire dalla voce.

Mi strinsi nelle spalle. “Tanto non ho altro di meglio da fare.”

Partì da un angolo delle sue labbra, che si curvarono di un poco verso l’alto. Il momento dopo, strano ma vero, Elena stava sorridendo. Completamente. Insomma, occhi, guance, naso. Tutto. Non sapevo neanche che ne fosse capace, di sorridere in quel modo.

E, dio, se fu una bella sensazione.


Questa volta non è un campo da baseball: grazie a dio il ragazzo ha capito che non era proprio storia.

Mi avvicino all’area in cemento, sulla quale sbiadite linee bianche ed un solo canestro sulla destra dall’ombra allungata sono quanto più si avvicini ad un campo da basket. Mi siedo su una panchina all’ombra tiepida di fine pomeriggio, accanto a borsoni e felpe abbandonate, e mi metto a guardare, di fronte a me, i cinque o sei ragazzi che si urlano contro mentre si contendono la palla.

Jeremy mi nota quasi subito ma, a parte un attimo di distrazione, per il resto fa finta di niente e continua a giocare. Così aspetto, pazientemente, fino a che la partita improvvisata non finisce ed i ragazzi iniziano a separarsi con svariate pacche sulle spalle.

Jeremy saluta gli altri e si dirige spedito verso uno dei borsoni, ci fruga dentro e prende un lungo sorso dalla borraccia che ne tira fuori, senza guardarmi neanche per sbaglio.

“Cosa vuoi?” mi chiede però, freddamente.

“Stavo solo guardando la partita,” mi stringo nelle spalle. “Non fai completamente schifo.”

“Stronzate,” ribatte con una smorfia. Con un gesto brusco afferra una felpa che era scivolata per terra, le dà una scrollata e se la infila, lasciando la cerniera aperta sul davanti. “Ti ha mandato mia sorella.”

“Cosa sono, il suo galoppino?” replico con fare offeso. “Tua sorella se vuole può parlare da sola.”

Un altro ragazzo con gli occhi scuri, un piercing al sopracciglio e l’aria da sbruffoncello si avvicina, squadrandomi dall’alto in basso.

“Allora vieni?” domanda a Jeremy.

“Sì, arrivo. Dammi solo momento, Kol [2].”

Il suo amico si allontana e Jeremy afferra il proprio borsone per metterselo sulle spalle.

“Ok, senti,” torna a rivolgersi a me, sbrigativo. “Non mi serve nessuna lezione di vita da un tizio a caso che crede che siamo amiconi solo perché giocavamo ai videogiochi quando ero bambino.”

Gli scoppio a ridere in faccia, cosa che per un attimo lo lascia interdetto.

“Lezione di vita? Ma mi hai visto? Non sono nella posizione di dare lezioni di vita a nessuno.”

Continua ad osservarmi, guardingo. Non posso certo dire di conoscere il ragazzo, considerando che, prima di ritrovarmi di nuovo a Mystic Falls, l’ultima volta che ci avevo interagito non era neanche alla soglia della pubertà. Ma, in mezzo a tutta quella diffidenza, mi sembra ugualmente di vedere un barlume di interesse.

“E allora cosa vuoi?” mi chiede, alzando un sopracciglio.

“Riportare il tuo culo a casa.”

“Allora stai sprecando il tuo tempo.”

La piccola apertura di qualche secondo prima se ne va all’istante e, visto che gira sui tacchi, vedo che anche lui è sul punto di fare la stessa cosa.

“Ehi. L’ho capito,” di colpo mi alzo in piedi e lo richiamo con una leggera spinta sulla spalla. E’ più che mai infastidito, ma almeno si volta di nuovo ad ascoltarmi mentre io proseguo in tono più duro. “La vita fa schifo, bella scoperta. Cosa hai intenzione di farci? Prendertela con l’unica persona a cui importa qualcosa di te solo perché ti ha licenziato la fidanzatina?”

“Non è la mia ragazza, ok?” ribatte con più rabbia del necessario. “Anzi, se proprio vuoi saperlo, dopo quello che è successo mi ha mollato subito senza pensarci due volte! Non gliene fregava un cazzo di me.”

Ed ecco che di colpo capisco, cos’è che lo tormenta davvero. E’ vero, dopotutto, che spesso non è il cervello ciò con cui ragioniamo e che non c’è niente di peggio di un cuore spezzato per iniziare a comportarsi da vero idiota.

“Le stronze capitano,” dico con una smorfia e la consapevolezza, questa volta, di poter parlare per esperienza. “Benvenuto nel club.”

Non replica, ma intuisco lo stesso che potrei aver fatto centro quando, invece di spararmi un’altra rispostina stizzita, getta il borsone a terra e si siede, sulla panchina, con i gomiti posati sulle ginocchia e lo sguardo su un punto imprecisato davanti a sé.

“Come sta Elena?” mi chiede piano, dopo un po’.

Prendo la sua borsa, gliela tiro di nuovo e con la testa gli faccio cenno di andare.

“Andiamo a casa e chiediglielo tu stesso, campione.”


Fermai la macchina nel vialetto di ingresso di casa Gilbert. Le luci al piano terra erano accese.

“Mio padre è già a casa,” mormorò Elena, osservandole. “Non è un buon segno.”

Guardai l’ora sul display della radio e notai che era oltre mezzanotte. La nostra gita fuori programma era durata un po’ più del previsto.

“Pensi che si arrabbierà?” domandai, preoccupato di averla messa nei casini.

“Penso che neanche se ne accorgerà,” rispose con una strana nota nella voce, continuando a guardare davanti a sé. La Elena di qualche ora prima, quella che girava estasiata tra le bancarelle e che aveva insistito per rimanere almeno per sentire l’inizio del concerto serale, era già sparita. Gettò uno sguardo verso il fratello, che durante il ritorno si era addormentato sui sedili posteriori, e prese un lungo sospiro. “Andiamo.”

L’accompagnai fin dentro casa, con alle calcagna il piccoletto che rischiava di crollare a terra per il torpore da un momento all’altro. Elena dovette raddrizzarlo almeno un paio di volte.

Quando entrammo, Grayson Gilbert era steso scompostamente sul divano, più privo di sensi che addormentato, a giudicare dalla persistente traccia di alcol che era possibile avvertire nell’aria.

“Puoi portare Jeremy di sopra?” mi chiese Elena, fin troppo imperturbabile.

Con una mano sulla schiena spinsi un Jeremy barcollante di sonno verso le scale, anche se a metà mi voltai per gettare un’altra occhiata verso la sala, in tempo per vedere Elena sistemare un paio di cuscini sotto la testa del padre e mettergli una coperta addosso.

Io, al posto suo, non lo avrei fatto.

“Avanti, ragazzino, ora della nanna,” dichiarai solennemente quando lo ebbi infine scortato fino alla porta della sua camera.

Si voltò a guardarmi, gli occhi gonfi ma curiosi, fin troppo per i miei gusti.

“Sei il fidanzato di mia sorella?” mi domandò. Così, di punto in bianco.

“Cosa?” esclamai con una smorfia. “No.”

“A me sembri il suo fidanzato.”

Assottigliai lo sguardo su di lui, osservandolo dall’alto in basso, per capire se fosse serio o se stesse solo cercando di prendermi per il culo.

“Non sono il suo fidanzato. Proprio no. Nel modo più assoluto.”

“E allora cosa sei?”

“Jer?” La voce di Elena giunse dalle mie spalle, dalla cima delle scale. Mi voltai, felice di non dover rispondere, e, un paio di secondi dopo, anche lei ci aveva raggiunto. “E’ tardi, vai a dormire.”

Lo accompagnò fin dentro la camera, gettandomi uno sguardo silenzioso nel passarmi davanti, mentre io rimanevo in corridoio, con la stupida domanda di un ragazzino di dieci anni ancora sulla mia testa.

“Non fare caso a lui,” mi disse Elena sottovoce quando riemerse dalla camera di Jeremy, chiudendosi la porta alle spalle.

Misi su un mezzo sorriso, probabilmente piuttosto tirato, ignorando la strisciante sensazione di ambiguo scombussolamento che mi aveva colto tutto insieme.

“Nessun problema.”

“Grazie per oggi. Mi sono divertita. E anche Jeremy,” bisbigliò, una segreta contentezza che per un attimo riaffiorò nella sua voce sommessa. “Buonanotte, Damon.”

Senza assolutamente nessun preavviso, si sporse sulle punte, accostò il volto al mio e premette le labbra sulla mia guancia. D’istinto chiusi gli occhi, mentre sentivo il lieve solletico dei suoi capelli sul collo, il vago profumo di zucchero filato che vi era rimasto addosso, la morbidezza della sua bocca sulla mia pelle.

Quando si staccò, la voglia di non permetterglielo fu improvvisa e prepotente. In quella frazione di secondo, pensai davvero che l’avrei attirata di nuovo verso di me e baciata, baciata davvero, solo per scoprire che sapore potesse avere e cosa si provasse ad avere il suo corpo, al quale tutto il giorno avevo cercato così disperatamente di non pensare, contro il mio.

Invece, rimasi con entrambe le mani affondate nelle tasche della giacca, più rigide che mai, senza muovermi di un solo millimetro.

E fui contento di non aver mosso un muscolo.

Non avrebbe portato ad altro che disastri. Decisamente non ero il tipo adatto a fare il fidanzato di nessuna e, con tutta probabilità, neanche lo sarei mai stato.


“Capolinea,” annuncio accostando la Camaro al marciapiede.

“Guarda che casa mia è là più avanti,” mi ricorda sarcasticamente Jeremy indicando con il dito, qualche centinaio di metri più avanti, una casa i cui contorni iniziano a perdersi nel crepuscolo che avanza.

“So perfettamente dov’è casa tua,” replico mentre giro la chiave per spegnere il motore. “Ma tu da qui te ne vai a piedi.”

Mi guarda stranito corrugando le sopracciglia, io rimango impassibile. Gli faccio anche sciò-sciò con la mano, nel caso il concetto non fosse ancora abbastanza chiaro.

Scrolla le spalle e finalmente si decide ad aprire la portiera. “Come vuoi.”

Non un ʿci vediamo in giroʾ, non un ʿgrazie per il passaggioʾ. Quel piccolo ingrato.

Poggio il gomito contro lo sportello alla mia sinistra e le dita sul volante, pronto a ripartire.

Tra un paio di minuti.

Rimango ad osservare Jeremy camminare lungo il marciapiede con le mani in tasca, tirare un calcio a un sassolino che si è trovato davanti, riposizionarsi la borsa sulla spalla, fino a che non arriva alla casa. Nella distanza, una luce si accende al piano inferiore ed un’altra la segue quando la porta di ingresso si spalanca, per lasciar uscire Elena che si precipita ad abbracciare il fratello.

Visti da qui, non sono altro che due figurine scure nella luce fioca della sera. Ma posso immaginare il sorriso che lei deve avere in questo momento ed è sorprendente quanto possa essere, ancora oggi, una bella sensazione.

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Note:

[1] Gioco di parole un po’ intraducibile sul doppio significato di “snap” = chiudersi di scatto (come il morso del coccodrillo) e qualcosa di simile all’ “essere in forma”

[2] Kol qua è un amico di Jeremy, quello da cui lui era andato a stare. Non è il fratello di Elijah, non ci incastra niente ed è del tutto irrilevante. Probabilmente, neanche lo rivedrete più.


Spazio autrice.


Buonasera! C’è qualcuno che si ricorda ancora di me e di questa storia? ...

Spero, naturalmente, di sì, così come spero che siate riuscite a riprendere il filo delle vicende dove le avevamo lasciate, nonostante la lunga pausa negli aggiornamenti.

E’ stato un periodo che non mi ha davvero lasciato spazio per efp, ma ho approfittato di questi giorni di calma pre-vacanze per cercare di recuperare un po’ del tempo perso e pubblicare questo capitolo.

Spero solo che come ritorno non vi abbia deluso. E’ stato un capitolo forse più introspettivo ma era un passaggio importante dal punto di vista di Damon, che forse non si è così liberato di quello che prova/provava per Elena come crede/vuole credere. Ma non temete che presto di cose inizieranno a succederne fin troppe.

Titolo/citazione ispirato dalla canzone dei Buzzcocks, Ever fallen in love (with someone you shouldn’t’ve fallen in love with)? Letteralmente: Ti sei mai innamorato (di qualcuno di cui non avresti dovuto innamorarti)?

Piccola curiosità: ci sono due commenti fatti da Damon che al momento possono essere sembrati senza molta importanza, e che forse avrete a malapena notato … Ma non sono stati messi a caso, e vi assicuro che tra qualche capitolo assumeranno tutto un altro significato. Qualche idea? :)


Se tutto va bene, conto di tornare con il prossimo aggiornamento intorno ai primi gennaio.

Con questo vi mando un abbraccio e auguro un Buon Natale e buone feste a tutte voi, con la speranza che non mi abbiate abbandonato del tutto e di potervi sentire anche nei commenti! :)


A presto



   
 
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