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Autore: Minority    21/12/2013    3 recensioni
Il ragazzo sollevava la testa dalla tazza di caffè che stava preparando e dava un’occhiata oltre la porta a vetri, sperando di vedere l’Impala parcheggiata e poi lui che, sorridendogli, il passo spedito e carico di una certa impazienza, si dirigeva verso il bar e, entrando, ammiccava alle ragazze. Non successe mai.
[destiel - oneshot - AU]
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Castiel, Dean Winchester
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna stagione
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note: dire che sono emozionata è riduttivo. Da quando ho scoeprto cos'é il fandom di spn ne sono tipo innamorata e ne adoro tutto, quindi pubblicare una destiel per la prima volta mi onora incredibilmente. Avrei talmente tante cose da dire e su cui sclerare che non so da dove iniziare, quindi niente: sappiate solo che per me è un enorme onore pubblicare fanfic in questo fandom e, soprattutto, su questo pairing (e qui cogliete un invito implicito a perdonarmi, perché è il mio primo disperato tentativo lol). Detto questo niente, spero che vi piacerà perché è alquanto lunga, e leggere una roba infinita di cose che non piacciono non è piacevole. 
(il giallo è per un pezzo, ma forse neanche. sob, non so mettere il rating)
Buona lettura.




Midnight Snack


I. Colazione
 
Da quando sua sorella era corsa contro quel treno invece che in chiesa al matrimonio di Gabriel, quella maledetta domenica mattina, l’aria umida, le gocce di pioggia sospese nel vento che, come si era immaginato poeticamente suo padre, le annodava i capelli, la signora Novak era uscita di testa e, tutte le sere, prima di dormire, entrava in camera di Anna, la figlia che s’era buttata sotto il treno in partenza per New York, e, come quand’era piccola, le raccontava la storia di una bambina con le scarpette rosse che non volevano darle pace. Leggeva un vecchio libro di fiabe, lo stesso che aveva ascoltato da piccola, e, prima di spengere la luce e tornare da suo marito, si assicurava d’aver rimboccato le coperte ad una ragazza che, ormai, riposava per sempre.
Da quando la signora Novak era uscita di testa, il signor Novak si svegliava prima, col levarsi della luce del sole che si spingeva nella sua camera: si alzava dal letto silenziosamente, per non svegliare la consorte, scendeva in cucina e metteva le uova ed il bacon a cuocere. Gli piaceva credere che, quando la sua amata sarebbe arrivata in cucina ed avrebbe visto la tavola della colazione imbandita di tutto quel ben di dio avrebbe sorriso: lo aveva creduto per una settimana, due, tre, un mese, quattro, cinque, sei, dieci, un anno e, alla fine, si era arreso ed aveva ripreso a svegliarsi tardi.
Da quando la signora Novak era uscita di testa, il signor Novak, suo figlio maggiore Gabriel e Mr. Fiocco, l’orsacchiotto di Anna, presente in rappresentanza della sua padrona, avevano deciso che la cosa migliore da fare era allontanare Castiel da casa loro: lo avevano decretato nel periodo in cui il signor Novak aveva deciso che dovevano prendere il tè alle cinque neanche fossero in Inghilterra, tutti e tre seduti intorno al tavolo, una tazza fumante e due biscotti a testa davanti.
Presa la decisione, Gabriel si era messo alla ricerca di quello che amava chiamare “un posto nuovo per il mio fratellino” e, quando se lo rigirava in testa, in bocca, amalgamandolo con la lingua a tutto il cibo spazzatura che sua moglie portava a casa al McDonald, si immaginava a scarruffare i capelli di un Castiel sorridente come quando, da piccolo, la signora Novak usciva per fare la spesa e li lasciava tutti e tre davanti i cartoni animati per farli stare buoni. Il “posto nuovo per il suo fratellino” capitò per caso nello schermo del computer dell’uomo un mercoledì sera, dopo cena, poco prima di andare a letto: si chiama Lawrence e, a quanto diceva sua moglie, perché lui di geografia non c’aveva mai capito nulla, si trovava in Kansas.
Castiel si trasferì un mese dopo: il tempo di affittare un monolocale in periferia, trovargli un lavoro in una caffetteria del centro, fare i bagagli e il ragazzo si ritrovò a preparare cappuccini senza neanche accorgersene.
 
Ad abituarsi a Lawrence ci mise del tempo: non tanto, non poco, quattro o cinque mesi, il tempo di entrare in una nuova routine, di andare Ellen la sera a bere qualcosa prima di rientrare a casa, di farsi insegnare da sua figlia, Jo, a giocare a biliardo, di farsi la carta della biblioteca, di stringere amicizia con il vicinato e di entrare al pub e chiedere “il solito”.
La sera, dopo essere rientrato dal pub, chiamava i suoi genitori, chiedeva come stavano, loro due e Mr. Fiocco, mandava un bacio a sua madre e poi faceva lo stesso con Gabriel: chiedeva notizie di sua moglie, le mandava un saluto e poi si faceva passare Lilith, sua nipote, parlava con lei, le prometteva che lo zio sarebbe tornato a casa per il suo compleanno, le avrebbe comprato un regalo bellissimo in un negozio di giocattoli là a Lawrence e, sentendo la sua voce piena di impaziente gioia, si sentiva meglio anche lui.
La routine di Lawrence, con gli orari di lavoro che gli scandivano le giornate, dopo i primi mesi, era ancora più sistematica e codificata di quella di prima e a lui piaceva perché non gli dava il tempo di pensare e, nascondendogli le vie in cui era cresciuto, gli permetteva di non affogare nei ricordi di Anna e di perdere la testa come sua madre: si svegliava alle sette e mezza col notiziario locale che stava finendo, le ultime novità sulle fiere della contea di Douglas, il meteo del Kansas – sole anche oggi, come al solito, per quest’estate che, oltre ad essere la più calda degli ultimi trent’anni, sembra non finire mai -, si alzava, faceva la doccia, si radeva sorridendo allo specchio, si lavava i denti assicurandosi che fossero bianchi come la neve sui cui, da ragazzo, aveva insegnato a sciare a sua sorella, prendeva il bus ed andava a lavoro.
La mattina in cui la sua vita cambiò, arrivò a lavoro per primo, aprì la porta a vetri della caffetteria e, entrando, voltò il cartello da “chiuso” ad “aperto” col sorriso sulle labbra.
La mattina in cui la sua vita cambiò lo colse alla sprovvista come una febbre alta il giorno prima delle vacanze programmate da anni, candidamente come una pioggia di petali di margherita, con le guance spruzzate d’imbarazzo del colore delle lentiggini del ragazzo che, alle otto e quarantasette, si sedette al bancone ed ordinò un cappuccino.
Castiel si voltò, gli diede le spalle, preparò rapidamente, i gesti meccanici, freddi e distaccati – rassicuranti -, la bevanda e gliela servì con una bustina di zucchero ed un sorriso che al ragazzo con le lentiggini parve tanto tenero che fu tentato di ridare indietro la bustina di dolcificante.
 
 - Mio padre diceva sempre che il cappuccino è il modo migliore per iniziare la giornata.- iniziò il ragazzo a quel groviglio di lentiggini che incastonavano due rassicuranti occhi verdi. – Non ti ho mai visto: devi essere nuovo qui. - concluse sorridendogli.
 - Di ritorno. – precisò aprendo la bustina e versando un po’ di zucchero nella bevanda: -Dean Winchester, piacere. – e sollevò gli occhi dalla colazione fumante, l’angolo destro delle labbra appena sollevato.
 -Castiel Novak.
 
 
II. Pranzo
 
Dean Winchester tornò a far colazione anche la mattina dopo, quella dopo ancora e poi la successiva: intorno a un quarto alle nove entrava, ammiccava a qualche ragazzina, andava al bancone, domandava di Castiel Novak, se lo faceva chiamare, gli chiedeva un cappuccino e, ridendo sotto i baffi, lo vedeva arrossire, le guancie tinte di quel rosso candido, il colore dei boccioli di rosa nel giardino sotto il suo appartamento.
Si fermava a parlare con lui delle sue giornate, del suo lavoro, di sé stesso come se fossero amici di vecchia data che, dopo tutto quel tempo, si erano ritrovati per caso: uno lavorava in una caffetteria, l’altro era di ritorno da chissà cosa. Ed ad entrambi andava bene così.
Dean Winchester tornava sempre a far colazione, ad ammiccare alle ragazze, a domandare di Castiel, a chiedergli il cappuccino, a farlo arrossire, a parlare della sua vita e, un giorno, apparve dietro la vetrina del bar dove faceva colazione anche a mezzogiorno e trentotto: ammiccò alle ragazze, domandò di Castiel e, quando il ragazzo, lo sguardo preoccupato ed un lieve mal di pancia, lo raggiunse, le labbra sotto le lentiggini gli chiesero se voleva pranzare davanti a loro: Castiel arrossì, come al solito, dopo aver detto di sì.
 
Dean Winchester aveva parcheggiato la sua Chevrolet Impala del 1967 davanti ad un ristorante in periferia, l’aria casalinga come il pub di Ellen ma più curata, più attenta: dietro il bancone c’era una vecchina che ridacchiava piano parlando con un paio di clienti – o forse, a giudicare dalla loro età e dall’intensità delle chiacchiere, amiche – e, di tanto in tanto, chiamava John, abbiamo delle ordinazioni! afferrando con un sorriso il foglietto con gli appunti di una delle due cameriere, i capelli castani fissati in una coda alta, il sorriso bello come quello delle ragazze a cui ammiccava Dean la mattina.
Castiel, lo stomaco con una nidiata di farfalle pronte a librarsi in volo, non aveva fame ed aveva ordinato un hamburger per pura educazione, spaventato dalla possibilità di fare un torto al suo accompagnatore.
Il ragazzo con le lentiggini, invece, aveva chiesto “il solito” con un sorriso rilassato sulle labbra ad una delle cameriere che aveva una delicata collana di perle al collo e poi aveva appoggiato la mano sul tavolo, accanto a quella di Castiel.
 -Allora, Cas,- si sporse verso di lui e sussurrò – posso chiamarti così, vero? Come sei approdato a Lawrence?-
Il ragazzo con gli occhi blu oceano guardò in alto, arrossendo come un’adolescente, come, e qui dovette inspirare profondamente per non scoppiare a piangere, le guance che si gonfiavano d’aria, Anna. Arrossì senza sapere perché, se per la domanda, per il fatto che qualcuno, dopo tanto tempo, si interessasse davvero a lui o per quel soprannome, per quel modo in cui l’aveva chiamato “Cas” e poi gli aveva chiesto il permesso per farlo. Cas. Se lo rigirò in bocca dischiudendo appena le labbra e pensò di masticarlo: assaporarlo per bene e poi ingoiarlo, assimilarlo e fare Cas, quello ingenuo, quello ancora pieno di speranze che era con Dean, parte di sé.
 -E’ una storia lunga e nessuno ha mai voglia di ascoltare le mie storie – ridacchiò spilluzzicando uno dei grissini dentro il bicchiere di vetro, su un lato del tavolo.
 -Ma dai, Cas – iniziò calcando il suo nome, per farlo durare più a lungo, per farglielo assaporare – qui ci mettono una vita a portare i pranzi.-
E l’altro sorrise pacatamente, sì pulì le labbra intonse col tovagliolo, chiuse gli occhi, li riaprì e, impetuoso come un torrente in piena, iniziò a raccontare.
Iniziò a raccontare di Anna, di quando da piccola si metteva il vestito della domenica per il ballo scolastico di Gabriel al quale lei non poteva andare, di quando le aveva insegnato ad andare in bicicletta in un pomeriggio di autunno, di quando si metteva accanto al suo letto, la sera, sulle ginocchia un libro che non sapeva leggere, la voce tremante che descriveva le figure, di quando era cresciuta, di quanto era diventata bella, del suo primo ragazzo e di come sorrideva quella volta che l’aveva portata a cena per il suo compleanno, di quando aveva iniziato con quella storia del suicidio, di quando l’avevano trovata con una boccetta di pillole in mano, di tutti gli psichiatri, delle cure che non voleva fare, di quando si era buttata sotto il treno, della lettera che aveva in tasca la mattina del matrimonio di Gabriel, quella dove pregava la sua famiglia di perdonarla, di quando la signora Novak era uscita di testa e della mattina in qui suo fratello l’aveva chiamato per informarlo che si sarebbe trasferito a Lawrence, Kansas.
Dean rimase in silenzio ad ascoltarlo, per tutto il tempo, mentre Castiel continuava a soffiare fuori parole, ad annegarci dentro, mentre vedeva i suoi occhi riempirsi di lacrime e le sue maniche asciugarli con gesti fulminei.
Dean rimase in silenzio ad ascoltarlo, per tutto il tempo, mentre a Castiel parve di aver trovato, di nuovo, un equilibro stabile, mentre gli parve che, forse, tutto sarebbe potuto andare di nuovo bene.
 
 
III. Cena
Il rapporto di Dean e Castiel era scandito dai pasti: a colazione il ragazzo con le lentiggini, intorno a un quarto alle nove, entrava nella caffetteria, ammiccava a qualche ragazzina, andava al bancone, domandava di Castiel Novak, se lo faceva chiamare, gli chiedeva un cappuccino, lo vedeva arrossire, beveva il cappuccino, se ne andava e, all’ora di pranzo, tornava a prenderlo e lo portava ad ordinare un hamburger che, per qualche ragione che il ragazzo non capiva, quello che era diventato il suo Cas non mangiava mai.
 
Una sera, la Chevrolet Impala del 1967 si fermò davanti alla caffetteria, spense il motore, lasciò accesa l’autoradio ed attese che la caffetteria chiudesse. Il turno pomeridiano di Castiel terminava alle sei e, quando uscì dal negozio e vide la sua macchina, attraversò la strada a passo spedito per poi bussare sul vetro del posto del passeggero, dove, all’ora di pranzo, nel viaggio tra lavoro e hamburger, sedeva lui. Dean abbassò il finestrino e, quando affogò nel suo sguardo ceruleo, si sforzò di sorridere e gli aprì la portiera, facendogli segno di salire.
Disse di essere di partenza ed il pavimento che le sue visite e le sue attenzioni avevano costruito sotto i piedi di Castiel si sgretolò, facendolo scivolare – giù, giù, giù di corsa nel profondo di un baratro del quale non vedeva una fine.
Il ragazzo con gli occhi blu rispose che gli addii non erano il suo forte, e l’altro lo rassicurò, dicendogli che non importava, che era normale e che lo capiva.
Poi il silenzio assordante della notte, dei loro sguardi che si cercavano, calò sui loro corpi come una mannaia oscura e, facendosi incoraggiare dalle tenebre, Dean si sporse verso di lui e lo baciò - uno di quei baci che gli era rimasto bloccato in gola per tutti quei pranzi insieme ai bocconi enormi di cibo che, un po’ per non perdere tempo prezioso per parlare, un po’ per l’emozione di essere insieme, buttavano giù interi, uno di quei baci che, al solo ricordo, gli toglieva il fiato, gli faceva bramare il ragazzo con le lentiggini con ogni cellula, ogni atomo, ogni particella del suo corpo.
Dean mise in moto e, prima che uno dei due riuscisse a razionalizzare l’accaduto, erano sotto casa sua, nell’ingresso, dentro l’ascensore, correvano nel suo appartamento, le dita delle mani intrecciate insieme, finché una forza a cui non seppero dare un nome li spinse sul suo letto.
Castiel soffiò sulle sue labbra che era preso, che forse dovevano aspettare, che – che non lo sapeva neanche lui.
Dean gli baciò il collo, stringendo con fare rassicurante le loro dita insieme, disse che quello era il loro tempo e non c’era spazio per aspettare, che non avrebbero avuto un poi, che era stato bello ma che non potevano aspettare e, nella penombra che li avvolgeva, due occhi azzurri ebbero un sussulto perché non erano pronti a rantolare di nuovo, non erano pronti a correre nel buio incapaci di trovare una meta, a perdere di nuovo la propria casa ed il proprio porto sicuro – a perdere loro stessi.
Qaunto Dean valesse davvero per lui, Cas lo razionalizzò su un letto che non aveva mai visto, in una casa estranea che, comunque, gli era familiare, mentre due labbra che aveva desiderato a lungo scendevano lungo il suo collo e un ragazzo sicuro, come se si fosse preparato a quel momento per tutta la vita, gli sfilava la maglia di dosso; lo razionalizzò mentre si perdeva nel suo sapore che gli ricordava quando, da bambino, la signora Novak lo portava alle giostre, gli comprava lo zucchero filato e lui sorrideva – lo razionalizzò mentre si perdeva nel suo sapore che gli ricordava tutte le cose belle del mondo.
Percepì le sue dita scivolare sul suo petto, accarezzarlo dolcemente, rassicurandolo, mentre proseguivano fino alla cerniera dei suoi jeans che sganciarono con un gesto secco e si chiese perché non erano giunti a questa conclusione prima.
Dean fece per allontanarsi dalle sue labbra, ma Castiel glielo impedì, baciandolo con foga, sentendosi a casa, al sicuro, come quando il signor Novak gli rimboccava le coperte e, spengendo la luce, usciva dalla sua stanza sussurrandogli la buonanotte, sentendosi in pace, sincero, la coscienza libera al contrario di quando, al telefono con Lilith, le prometteva che sarebbe tornato per il suo compleanno.
Cas si strinse a lui, incapace di allontanarsi, scacciando l’incombente pensiero della partenza di Dean, di tutte le parole non dette che sarebbe scivolate a cementarsi sul fondo del suo cuore, si sarebbero accumulate e l’avrebbero fatto scoppiare a piangere ogni sera, proprio come tutti i “ti voglio bene” negati ad Anna.
Il ragazzo con le lentiggini gli seminò una scia di baci lungo la mandibola, fino al suo orecchio e, togliendosi i pantaloni di dosso, gli sussurro un “va tutto bene, Cas, sono qui” che rafforzò la presa dell’altro a lui, il modo in cui le sue mani si ancoravano alla sua schiena, e gli fece guadagnare dei baci scomposti con cui il ragazzo della caffetteria, gli occhi azzurri spenti dalle palpebre abbassate, gli sommerse le lentiggini e poi tornò a torturare le sue labbra, il suo collo, in una corsa disperata che, nel tentativo di recuperare il tempo perduto, lo stava facendo impazzire.
Dean finì di togliersi i vestiti, lasciandoli cadere accanto a loro, tra le lenzuola in disordine, e, sussurrandogli di nuovo che andava tutto bene, che erano insieme, che non doveva partire in quel momento, fece lo stesso con quelli dell’altro.
 -Promettimelo.- lo pregò Castiel interrompendo quei baci frenetici, affamati ed inchiodando i suoi occhi, scavandoci dentro, cercandovi tutte le risposte, tutta la sicurezza, tutta la tranquillità che gli mancavano da quando Anna era morta.
 -Siamo insieme, Cas – sussurrò prima di baciarlo e chiudere gli occhi, interrompendo quel contatto in cui il ragazzo sotto di lui stava annaspando.
La sensazione successiva che riuscì a percepire, l’emozione successiva in cui annegò, fu la presenza di Dean che, continuando a baciarlo sulle labbra, sulla pelle salata del collo e delle guancie, spingeva dentro di lui, di Dean che ripeteva, articolando frasi sconnesse, ricche di pause, punti di interruzione inopportuni, silenzi pieni di sospiri che bloccavano nella sua gola il fiume di frasi, di parole da dire, che era ancora lì, Cas: lui era ancora lì.
 
Fecero l’amore tutta la notte e, quando si addormentarono, Castiel stretto dall’abbraccio caldo di Dean, si convinsero della bugie secondo la quale, adesso, si erano rifatti di tutti gli sguardi silenziosi, di ogni pranzo in cui, spaventati, avevano avvicinato le loro mani sul tavolo senza mai toccarle: si convinsero che una notte di sesso potesse bastare a colmare il vuoto, ad alleggerire le loro anime delle tacite parole che ci si stavano cicatrizzando sopra.
 
 
IV. Spuntino di mezzanotte
 
Da quando Dean se ne era andato, nonostante la promessa con cui lo aveva salutato la mattina dopo quella che a Castiel piaceva ricordare come “la nostra notte”, non era più tornato.
Ogni mattina, alle otto e quarantasette, il ragazzo sollevava la testa dalla tazza di caffè che stava preparando e dava un’occhiata oltre la porta a vetri, sperando di vedere l’Impala parcheggiata e poi lui che, sorridendogli, il passo spedito e carico di una certa impazienza, si dirigeva verso il bar e, entrando, ammiccava alle ragazze. Non successe mai.
 
Per il compleanno di Lilith, Castiel tornò a casa per davvero e, quando suonò al campanello di Gabriel e sua moglie venne ad aprirgli con sua nipote in braccio, il ragazzo stringeva tra le mani un grosso pacchetto bianco con un enorme fiocco rosso che vi svettava sopra: entrò e lo diede alla bambina assicurandole che, come le aveva promesso, veniva in diretta da Lawrence; Lilith sorrise e, di rimando, suo zio fece lo stesso.
 
Tornò alla sua vita in Kansas due giorni dopo: il tempo di salutare tutti i parenti, assicurarsi che le condizioni di sua madre non fossero peggiorate da quando era partito, ed era di nuovo a preparare cappuccini.
 
Una mattina, come al solito, alle otto e quarantasette alzò gli occhi, guardò oltre il vetro della caffetteria e vide una Chevrolet Impala del 1967 parcheggiata fuori: lasciò cadere la tazza che aveva tra le mani, forse – ma solo forse: data la minima attenzione che ci prestò non saprebbe dirlo per certo – qualcuno gli bestemmiò contro e lui corse verso la vetrina, aprì la porta ma, prima che potesse raggiungere la vettura, questa ripartì. 
   
 
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