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Autore: LilithJow    21/12/2013    2 recensioni
Io avevo sempre odiato la morte, così come le persone che le andavano incontro; quelle che rinunciavano alla propria vita, sperando in un'esistenza migliore, che però non c'era e io lo sapevo bene. Non capii perché nella mia mente si materializzò l'idea di permettere a Sebastian di uccidermi e non era qualcosa di simile a ciò che era successo in precedenza.
Avevo deciso di sacrificarmi per permettere a Simon di vivere e ritenevo che fosse una buona motivazione. Ma allora, una ragione non c'era, eppure lo desideravo comunque. - SEGUITO DI "LULLABIES"
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lullabies Saga'
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Capitolo 18
"No fear"



Non temere la morte: è solo la fine del tuo dolore”.

Avevo ben impressa questa frase. Me l'aveva sussurrata una donna anziana, durante il Medioevo. All'epoca, avevo l'aspetto di una ragazza dell'alta borghesia e lei era una del popolo, immersa nella miseria. Non seppi mai perché me la disse, ma non potei mai scordare la serietà nei suoi occhi quando lo fece. 

Avevo ripetuto tali parole nella mia testa, quella notte, in fondo a quel crepaccio buio e freddo, ma il dolore non era cessato. C'erano solo due ipotesi, allora: o era tutto una menzogna oppure ero ancora viva.

Non ci misi molto a capire che la più valida era la seconda alternativa.
Sollevai a fatica le palpebre. Mi trovavo in una stanza anonima, dalla pareti bianche, pallide come le lenzuola che ricoprivano il letto sul quale ero distesa. Una fastidioso ronzio riempiva l'aria, interdetto da dei brevi e intensi suoni regolari, che quasi scandivano i secondi.
Non avevo la benché minima idea di dove mi trovassi: sicuramente in un posto dove non ero mai stata prima. Tentai di muovermi, ma ogni muscolo del mio corpo mi fece male e mi impedì di compiere qualsivoglia gesto.

«Sei sveglia». Riconobbi subito la voce di Simon e forse arrivò alle mie orecchie un po' più acuta del solito. Lo vidi in piedi accanto a me, mentre sorrideva appena, probabilmente nel tentativo di rassicurarmi.

«Non è un sogno, vero?» domandai, con tono innocente e fiacco. Lui accennò una risata. «No» disse. «E' tutto reale». Afferrò una sedia che si trovava proprio alle sue spalle e si sedette di fianco al letto.

«Dove siamo?» chiesi ancora.

«In ospedale».

Era chiaro. Avrei dovuto intuirlo solo dalle mura spoglie e da quei rumori strani. «E sei rimasto qui tutta la notte?».

«No». Scosse appena la testa e abbassò lo sguardo. Poco dopo, lo sollevò e mi guardò con quella dolcezza che sempre gli era appartenuta, nonostante quei piccoli e lievi cambiamenti fisici. «Sono rimasto qui per tre giorni, in realtà. I dottori hanno detto che avresti dormito per parecchio, a causa dei sedativi e... Volevo essere qui quando ti saresti svegliata».
Non potei fare a meno di curvare le mie labbra all'insù, per quanto tutta quella situazione mi sembrasse assurda. C'erano tante risposte che avrei voluto avere, spiegazioni logiche e non eccessivamente complesse.
Ma, solo per un attimo, mi concessi il lusso di mettere da parte il desiderio di informazioni per godermi il fatto che il mio Simon fosse lì con me; perché ero sicura che quello fosse il mio Simon e non il ragazzo senza memoria plagiato da Tamara.

Rimasi in silenzio, semplicemente a fissarlo, finché lui non sfiorò piano la mia mano, piena di aghi che mi pizzicavano, e la strinse lievemente tra le proprie dita. Osservai quel gesto, confusa e felice allo stesso tempo.

«Perché sei tornato?» sussurrai e non ero del tutto convinta di volerlo sapere. Lo sentii sospirare e lo vidi fissare le nostre mani intrecciate. «E' una storia un po' lunga» replicò.

«Beh, io non credo di poter andare da qualche parte, per cui...».

Rise, ma senza entusiasmo. «Immaginavo l'avresti detto». Con la mano libera, tastò il lato interno della felpa blu che indossava e ne tirò fuori qualcosa. «Ho trovato questa» spiegò. Me la mostrò: era la stessa foto che teneva nel suo diario e che io avevo visto per la prima volta quando mi ero recata nella vecchia casa di Chicago per recuperare quelle pagine necessarie al suo recupero; quella foto che ritraeva noi due in un momento di dolcezza e semplicità.
«Ho pensato che...» mormorò «.. che se una persona ne guarda in quel modo un'altra, non può essere capace di farle del male, per nessuna ragione al mondo. E poi...». Fece una breve pausa e solo a quel punto i suoi occhi tornarono sul mio viso. «Poi ho... Sentito Tamara parlare con delle persone e... Non era quella che credevo e ho capito forse fin troppo tardi quanto sono stato stupido a credere a lei e alle sue parole e... E allora sono scappato e ho iniziato a cercarti».

Trattenni il respiro per un secondo. Avevo l'impressione di essere... Com'è che si diceva? Ah, sì, in un dejà-vù.
Era già accaduto che lui si allontanasse da me per mancanza di fiducia e che tornasse tempo dopo, avendola ritrovata.

«Mi dispiace, Hazel» aggiunse poco dopo, a bassa voce. «Non lo so, io non... Non credo che essere di nuovo qui e chiedere semplicemente scusa sistemi le cose perché non... Non è nemmeno giusto che accada e... Se dovrò dirti che mi dispiace tutti i giorni, lo farò. Se è necessario affinché tu mi perdoni, io... Io posso farlo». Aveva iniziato a balbettare e non sapevo nemmeno se avesse idea di quel che stava dicendo. Era cambiato fisicamente – era evidente – ma quanto del resto era diverso? Quanto ancora era estraneo al mondo?

«Una volta, una persona mi ha detto che gli umani tendono a commettere errori, perché... Perché sono esseri contraddittori e lontani anni luce dalla perfezione» sussurrai, riportando alla mia memoria le stesse parole che mi aveva sussurrato quel giorno sulla Willis Tower.

«Doveva essere una persona molto realistica».

«Lo era. Ma era anche... Disposta a rimediare ai propri sbagli».

Riuscii a strappargli un sorriso, mentre stringevo più forte che potevo la sua mano. Non era molto: ero debole e mi sentivo a pezzi, ma, per il momento, bastava.

Avrei continuato quel discorso o sarebbe andato bene anche solo rimanere a fissarlo, in silenzio, se la porta della stanza non si fosse aperta, cigolando. Tale rumore catturò la mia attenzione e mi voltai appena. Sulla soglia, c'era Thomàs.
Assunsi un'espressione mista di sorpresa e angoscia, non seppi nemmeno perché. La sua, invece, non potei decifrarla. «Puoi lasciarci un attimo da soli, Simon?» disse e non suonò proprio come una domanda. Fu quasi un ordine.
Simon tentennò per un istante, prima di accettare, mormorando un «Okay». Mi sorrise lievemente e dopo abbandonò la camera, chiudendosi, piano, la porta alle spalle.
Thomàs rimase ai piedi del mio letto, con i pugni stretti lungo i fianchi e gli occhi fissi su di me, con uno sguardo che mi mise i brividi.
«Sei arrabbiato» sussurrai. Lui rise, sarcastico. «Sono molto più che arrabbiato». Avrebbe urlato, ma qualcosa mi suggerì che si stesse trattenendo dal farlo. «Ho dovuto rubare una macchina per cercarti e, dopo ore, ho trovato la mia, distrutta, in un crepaccio. Ma tu non c'eri. C'erano... C'erano degli agenti di polizia che mi hanno spiegato cos'era successo e mi hanno detto che ti avevano portata in ospedale, così sono corso qui e... E tu immagina la sorpresa quando ho visto Simon nel corridoio».

«Non so come abbia fatto a trovarmi, non...».

«Non mi interessa come ha fatto». Stroncò la mia frase e il volume della sua voce aumentò. Prese un respiro profondo, per calmarsi. «Il punto è...» continuò, a tono normale. «Ora che farai? Quando potrai alzarti da questo letto, riprenderai da dove avevi lasciato e andrai dalla Creatrice, oppure il fatto che lui sia tornato cambia le cose?».

Quella sua domanda fece precipitare ogni mio entusiasmo e spianò la strada alla ribalta dell'angoscia. Socchiusi gli occhi, stanca. «Dobbiamo parlarne per forza ora?» mormorai.

«Sì, dobbiamo».

Sbuffai. «Non lo so» dissi «non so cosa succederà adesso. Credevo di essere morta in quella specie di burrone e, sinceramente, non ho avuto il tempo di pensarci».
Thomàs scosse più volte la testa. Scansò il letto e mosse qualche passo così da essermi più vicino. Il suo volto era corrucciato in una smorfia che gli avevo visto addosso solo una volta e... Non era stato piacevole. Ero a conoscenza di cosa la rabbia e la tristezza scatenassero in lui; volevo evitare che scattasse in quella stanza d'ospedale.

«Io, invece, lo so». Mi aspettavo urlasse, invece pronunciò quelle parole con tono del tutto calmo e piatto. «So che adesso resterai perché... Perché a me puoi benissimo dire addio, mentre a lui no».

Trattenni il respiro. Si era avvicinato a tal punto che i nostri visi si trovarono uno di fronte all'altro e sostenni a sforzo il suo sguardo tagliente. «Dimmi che non ti stai mettendo a confronto con lui, ti prego» dissi e riuscii ad essere decisa e non fragile pronunciato quella frase.

«No, non mi permetterei mai. Il piccolo e ingenuo Simon è incomparabile». Fu sarcastico, ovviamente.

«Perché dici queste cose? Perché... Perché adesso?».

Si allontanò di poco, appena un passo, e allargò le braccia, lievemente. «Non lo so» esclamò «forse perché dovrei essere felice del fatto che tu sia viva, che tu stia bene e invece... E invece non ci riesco a causa della troppa rabbia».

«Scusa se ho deluso le tue aspettative». Usai anche io un briciolo di sarcasmo. Ero troppo stanca per discutere e Thomàs sembrava essere lontano anni luce dal demordere.

«Hazel...» sussurrò e io lo interruppi subito. «Puoi andartene, per favore?» dissi.

«Non...».

«Ho bisogno di riposare. Vai via».

Lui tremò appena e mi avrebbe detto qualcos'altro contro molto volentieri. Tuttavia, alla fine si arrese e uscì dalla stanza, sbattendo la porta e lasciandomi da sola.

***

 

Sprofondai nel sonno.
Neppure lo volevo, ma probabilmente fu a causa delle medicine con cui mi avevano imbottito in quell'ospedale.
Quando mi svegliai, non ero più sola. Simon era tornato nella stanza e aveva ripreso posto seduto proprio accanto al letto. Mi sorrise appena, tranquillo; tuttavia, io non potei fare a meno di notare come sotto il suo occhio sinistro fosse comparso un grosso livido scuro che prima non c'era.
Mi tirai su a fatica, su quei cuscini fin troppo scomodi. Mi pentii quasi subito di quei gesti che fecero solamente pulsare la ferita sulla coscia e un po' tutto il resto del mio corpo.

«Che è successo?» chiesi, leggermente allarmata.

Simon scosse appena la testa. «Cerca di non muoverti troppo» disse, ignorando la mia domanda.

«Che è successo?» ripetei.

«Nulla».

«Hai un occhio nero. Faccio un po' fatica a credere che non sia accaduto niente».

«Hazel...».

«Simon».

A quel punto sbuffò e dovette arrendersi. «Non è nulla di grave» disse. «Ho... Avuto una sorta di discussione con Thomàs».

«Ti ha colpito?».

«Sì, ma non... Non fa niente. Anzi, dovresti vedere lui: è ridotto peggio».

Lo guardai storto. Simon era molto più minuto di Thomàs e, anche volendolo, non avrebbe mai avuto la forza di contrastarlo. Feci fatica a credergli.

«Okay, non è vero» rimediò. «Sono io quello messo peggio».

Abbozzai una risata, ma fu del tutto priva d'entusiasmo. Ormai ero a conoscenza del rapporto di Thomàs con la rabbia e che Simon se la fosse cavata con solo un livido era pressapoco un miracolo. Forse qualcuno li aveva fermati prima che la loro lite degenerasse e fui lieta di ciò.
Tuttavia, tale fatto non riuscì a smorzare la mia furia. Ce l'aveva con me, solo ed unicamente con me, e invece aveva preferito prendersela con Simon, come se fosse tutto più facile.
Sì, per lui era davvero molto più semplice prendersela con chiunque, tranne che non la diretta interessata.

«Dov'è andato?» domandai.

«Non lo so. E'... Scappato via».

Avrei dovuto immaginarlo: gli piaceva scappare.

Socchiusi gli occhi e sospirai. Sebbene avessi dormito per quelle che parvero ore, non avevo la forza sufficiente per fare qualcosa, specie imbattermi in qualche rimprovero o un nuovo litigio.

«Simon?». Pronunciai il suo nome con evidente più dolcezza rispetto al tono che avevo usato poco prima. «Vieni qui vicino a me?».

Assunse un'espressione strana, mista di stupore e gioia. «Posso?» domandò, quasi con timore.
Non dissi nulla in replica, cercai solamente di scansarmi sul letto per fargli posto, nonostante la ferita alla gamba che mi impediva di muovermi in maniera decisa. Lui esitò per qualche secondo, poi si alzò e, goffamente, si accovacciò al mio fianco.
I nostri visi si ritrovarono alla stessa altezza e non potei fare a meno che lasciar scivolare una mano a cercare la sua, che strinsi con la poca forza che avevo.

«Ricordi qualcosa?» sussurrai. «Intendo... Della tua vita. Qualche cosa è tornato?».

«Alcune cose» rispose, tentennando.

«Per esempio?».

«E'... Complicato. Sono dei flash che compaiono davanti ai miei occhi in momenti che non controllo. Sono dei frammenti di istanti passati che non so collocare nel tempo, ma sono consapevole di averli vissuti».

«E' un bel passo avanti».

«Lo è. E poi...». Esitò per qualche secondo e lo percepii stringere più forte le mie dita. «Poi, spesso, ci sei tu» continuò. «I tuoi occhi, più che altro. Sono particolari e sono certo siano tuoi. Nessuno li ha così».

Sorrisi appena. La sua solita dolcezza sembrava tornata – o forse non lo aveva mai abbandonato - e non potei non gioirne.
Era una di quelle piccole cose che amavo di lui e... Io lo amavo così tanto.
Forse era abitudine farlo, forse quella maledetta profezia o quel che era incasinava tutto e... E Thomàs incasinava tutto e ciò che era successo quella dannata sera e il solo fatto di doverglielo dire, un giorno, mi provocò una fitta al petto. Mi sentii quasi non potessi essere degna di guardarlo negli occhi. Fu strano.
Ero interdetta, bloccata tra quel momento di felicità accanto a Simon e la consapevolezza di averlo tradito in qualche modo.
Certo, lui se ne era andato, ritenendomi la sua assassina, quindi probabilmente non si poteva parlare di effettivo tradimento, ma sicuramente qualcosa dentro di me era stata macchiata.
Non sapevo ancora come comportarmi a riguardo e mi sentii anche egoista a pensare alla mia situazione sentimentale con il caos che da un momento all'altro avrebbe potuto scoppiare.
Ma non si basa tutto, poi, sui sentimenti? Il mondo intero, tutta la storia e i più grandi avvenimenti terrestri sono fondati sull'affetto e la repulsione tra gli umani.
Magari era giusto che pensassi alle mie sensazioni seppur in un momento critico come quello.

«Grazie» sussurrai, con lieve imbarazzo.

Lui non rispose a parole: sorrise e basta.

«Posso chiederti un'altra cosa?» dissi allora io.

«Puoi chiedermi tutto quello che vuoi».

«Come... Come hai fatto a trovarmi dopo l'incidente? Insomma, tu... Non avevi la benché minima idea di dove potessi essere e...».

«Non lo so» mi interruppe, in maniera non brusca, ma quasi fosse naturale. «Dopo che...» continuò «Dopo che sono scappato da Tamara, ho cominciato a vagare senza meta. Ho chiesto un passaggio per strada e a qualcuno devo essere sembrato abbastanza disperato per farmi salire sulla loro auto. Sono stato... Sono stato in giro per giorni, perché neanche mi ricordavo dove fosse la nostra casa e poi... Qualcosa dentro di me mi ha suggerito di recarmi proprio lì dov'eri, non so perché. Era come se dovessi essere in quel posto, in quel momento; come se qualcuno mi avesse sussurrato in un orecchio la via giusta per trovarti e poi l'ho fatto per davvero».

Quasi mi mancò il fiato.

Se fossi stata abbastanza coraggiosa da osare, mi sarei sporta nella sua direzione e lo avrei baciato. Ma, ovviamente, non feci nulla del genere, anche perché non riuscivo propriamente a muovermi.
Forse Simon avrebbe agito al posto mio. Tuttavia, mi rimase il dubbio, perché qualcuno entrò nella stanza e chiuse la porta con poca delicatezza. Non dovetti nemmeno voltarmi del tutto per capire chi fosse: Thomàs.

«Dobbiamo andarcene» esclamò.

Avrei replicato, ma Simon si era già alzato in piedi e mi precedette: «Andarcene? Dove?».

«Da qualche parte. Il più lontano possibile da qui, comunque».

«Perché?».

«Perché la tua amichetta Tamara ci ha fatto visita e non era esattamente contenta».

«Tamara era qui?» intervenni.

«Già» disse Thomàs. «Di solito, le persone intelligenti, quando scappano, tendono a non lasciare tracce alle loro spalle. Invece qualcuno ha praticamente indicato il proprio percorso alla perfezione con una linea rossa. Fosforescente».

Sentii Simon sbuffare. Evidentemente avevano discusso in quel modo anche precedentemente.

«E adesso dov'è?» chiesi io.

«L'ho mandata nel limbo» rispose Thomàs «ma c'è già stata una volta, sa come uscirne, per cui abbiamo poco tempo».

«Non sei un Cacciatore?» esclamò Simon. «Non potresti, tipo, “cacciarla”?».

Fu l'altro a fare una smorfia, allora. «Ho bisogno, tipo, delle mie armi. Scusa se non giro con un'ascia nella tasca della giacca».

Ci sarebbe stata un ulteriore replica, ma a quel punto li interruppi: «Non potreste, tipo, smetterla?».
Entrambi si voltarono verso di me, con le mani poggiate sui fianchi e quasi la stessa espressione stampata in faccia. Probabilmente, si aspettavano continuassi il discorso o che li rimproverassi, ma la situazione era già piuttosto seccante in quel modo, perciò non aggiunsi nulla.
Thomàs fu il primo a reagire dopo il mio silenzio: roteò gli occhi e lo vidi raggiungere l'armadio bianco presente nella stanza, aprirlo e tirare fuori alcuni dei miei vestiti che avevo lasciato nell'ultimo motel dove eravamo stati, senza l'intenzione di tornarci.

«Vuoi darti una mossa, ragazzino?» esclamò e lanciò gli indumenti addosso a Simon. Fui dell'idea che lo avesse fatto presumendo che li afferrasse, ma i suoi riflessi non erano certo dei migliori, anzi, tutt'altro. «Aiutala a metterseli».

«Come faccio a...».

Simon non riuscì nemmeno a finire la frase che Thomàs aveva già intuito a cosa si riferisse, addirittura prima di me. Mi fu accanto senza che me ne rendessi conto e, senza concedersi un briciolo di delicatezza, strappò via gli aghi della flebo che avevo attaccati al dorso della mano sinistra. Mi fece male e non riuscii a trattenere un mezzo urlo.

«Ora è a posto» commentò. «Muoviti». Si allontanò nuovamente e riprese a trafficare nell'armadio, guardando, di tanto in tanto, nervosamente, fuori dalla finestra.

Il mio sguardo rimase fisso su di lui per qualche secondo, ignorando il sangue che iniziò a fuoriuscire dalla mano. Era tornato ad essere il ragazzo sarcastico e alquanto menefreghista dei primi tempi e non sapevo quanto ciò fosse positivo.
Solo Simon fu in grado di farmi focalizzare di nuovo su ciò che stava avvenendo, senza perdermi in mille pensieri. Si era preoccupato subito della mia nuova ferita, tamponandola con un fazzoletto di stoffa.
«Grazie» mormorai e lui mi sorrise appena. Poi mi aiutò a liberarmi di tutti gli altri aghi e tubicini che i medici avevano piazzato su di me e del camice d'ospedale; dopo, con gentilezza, mi fece vestire, infilandomi piano una t-shirt azzurra, molto larga e dei vecchi pantaloni di tuta nera.
«Vedi? Se ti impegni, riesci a fare le cose» esclamò Thomàs e si affiancò al letto, reggendo un piccolo borsone, evidentemente con la mia roba dentro. «Ora spostati. La porto fuori io».
Dedussi stesse parlando di me, dal momento che, a causa della ferita alla gamba, non potevo camminare. Simon abbozzò una risata, ironica. «Perché dovresti essere tu a portarla?» replicò e anche lui si riferì a me quasi fossi un oggetto da trasportare da una parte all'altra.

«Beh, perché tu a malapena sai reggere dei vestiti. Non è che mi fidi molto».

«Posso portarla benissimo».

«Sì? Io non credo. I muscoli dove li hai lasciati?».

Sbuffai. «Sapete, penso di potercela fare da sola» commentai, stizzita.

«Ovviamente non puoi» mi stroncò Thomàs. «Avanti, chi vuoi che ti porti?». Il suo sarcasmo raggiunse i massimi livelli con tale domanda e a me era tornata quella malsana voglia di picchiarlo, la stessa che mi aveva travolto il giorno in cui l'avevo incontrato.

Era come un bambino capriccioso.

Scossi appena la testa e alzai – per quel che potevo – le braccia, in segno di resa. «Non mi importa chi» dissi. «E' solo qualche metro».

«Okay, perfetto». Prima che me ne rendessi conto, Thomàs scansò quasi bruscamente Simon e mi prese in braccio di peso. Dovetti aggrapparmi con la poca forza che avevo alle sue spalle per non capitombolare a terra.
Usufruì delle scale antincendio per abbandonare l'edificio ed io non riuscii nemmeno ad assicurarmi che Simon stesse tenendo il passo: Thomàs camminava in maniera troppo veloce, considerando che stava portando anche me in braccio.
Fui certa che lui ci avesse seguito solamente quando lo rividi in auto – una presumibilmente rubata - dopo che ero stata fatta accomodare sul sedile posteriore, proprio come fossi una bambina. Prese posto accanto a me, mentre Thomàs si mise alla guida e mise in moto, facendo rombare il motore.
Avrei dovuto chiedermi cosa sarebbe successo quando i medici avrebbero trovato il mio letto vuoto e non sapevo neanche quale nome avessero dato loro. Sicuramente non il mio e non quello Johanna. Ero una netta sconosciuta in quel posto, probabilmente non mi avrebbero cercata. Perlomeno, sperai non lo facessero: avevo già tante persone alla calcagna e non potevo certamente reggere una squadra di poliziotti che mi dava per scomparsa.
Il problema principale, al momento, era Tamara. Assurdo come fosse riuscita a scavalcare la Creatrice e il Creatore e privo di senso il modo in cui ero passata dal volermi consegnare al desiderare di combattere sia contro di lei che contro tutti gli altri.
Sì, forse... Forse Thomàs aveva ragione: io non ero in grado di dire addio a Simon e... In realtà non ero in grado di dire addio a nessuno, lui compreso.
Quel che avevo intenzione di fare era un'azione disperata, di una me completamente persa e ancora allo sbaraglio. Ma in quell'attimo, seppur in fuga e ferita, mi sentii più forte; come se davvero ci fosse quella soluzione tanto agognata di cui mi parlavano sempre.

Volevo credere ci fosse. 

  
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