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Autore: rosie__posie    24/12/2013    4 recensioni
“Noi siamo una specie particolare, i Boswell Krameri.” John s’azzarda a mettere fuori un po’ di più di se stesso e ora Sherlock riesce a vedere ben due terzi di viso. È un bel bambino, il suo bruco.
“Mai sentita come specie!” asserisce, stringendo le braccia al petto.
“Siamo in via d’estinzione, in effetti. Il più delle volte, la nostra esistenza termina prima di riuscire a trasformarci. Pochi di noi sono così fortunati da trovare il proprio compagno e riuscire a mutare in esseri umani!”

Note: kid!lock - caterpillar!John
Genere: Fantasy, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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A Knightingale da Sparrow <3

 

 

 

A Sherlock hanno detto che mamma Violet non sta bene e che potrebbe non esserlo mai più.

Beh, in verità non gliel’hanno detto: ha origliato la conversazione tra suo padre, suo fratello e il dottor Hearst stando nascosto nel sottoscala.

Dubita che qualcuno della sua famiglia si sarebbe mai fatto carico dell’urgenza di metterlo a parte delle condizioni di sua madre.

Non pensa che certe cose solitamente non vengono dette ai bambini di undici anni. No, Sherlock pensa solo che la gente lo voglia tenere lontano da tutto, ogni cosa.

E allora si dice che farà da solo, che tanto lui è grande. Ha “ben” undici anni.

È per questo che da allora se ne sgattaiola fuori di casa ogni mattina poco dopo l’alba, passando per la porta posteriore, quella della cucina, quando non ci sono ancora i domestici in giro. Si stringe nel cappotto scuro e si avvolge la sciarpa di lana fin sopra il naso. Con le mani affondate nelle tasche, raggiunge i prati che si snodano a perdita d’occhio dietro casa. Sono ricchi di fiori, erbe e piante d’ogni genere. Ne raccoglie una specie diversa ogni giorno, poi torna a casa e la studia. Di nascosto, in silenzio.

Da solo.

Alcune vengono scartate quasi a priori, altre vengono aggiunte all’elenco da studiare.

Da quando mamma Violet si è ammalata, il piccolo Sherlock rimane alzato sino a notte fonda alla sua scrivania, il capo chino sui suoi libri, sul suo computer, sui suoi attrezzi alla ricerca d’una cura, con i pallidi raggi argentei della luna che gli accarezzano i bei riccioli sino a quando Morfeo non viene a chiamarlo.

“Non funziona, non funziona!” ringhia un giorno davanti a una piccola aiuola di fiori azzurri. La sera prima Sherlock ha somministrato il suo ultimo ritrovato di scienza a un topolino che aveva acciuffato nella rimessa degli attrezzi e quello, dopo aver emesso un verso che gli aveva raggelato il sangue nelle vene, era spirato.

“Come posso essere io di una qualche utilità al mondo se non riesco a salvare le persone a cui voglio bene?”

Sherlock tira su col naso e si guarda attorno. I suoi occhi chiari scivolano su un piccolo bruco blu che se ne sta pigramente sdraiato sopra un fiore dalla corolla gialla.

“Amare fa soltanto male. È inutile!” sibila il ragazzino a denti stretti.

E poi il bruco si tira in piedi. Si tira in piedi e a Sherlock par proprio che… lo stia guardando.

“Ottimo, ho anche le allucinazioni! Saranno stati i fumi di quel fungo dell’altro giorno...” borbotta il bambino, voltando le spalle al manto di fiori e sedendosi a terra, le braccia incrociate al petto e la fronte aggrottata.

“Forse dovrei aumentare le dosi di deca...”

Sweesh

Una folata di vento gli sferza il viso e un attimo dopo Sherlock si ritrova con il bruchino in grembo. Il primo istinto è quello di irrigidirsi e di piegare un angolo delle labbra, inorridito. Ma poi si dice che lui è uno scienziato e, insomma, non può proprio aver paura di un bruchino. Lui, che cattura topi come niente.

E allora raduna tutto il suo coraggio di undicenne e si china bene a osservare quel bruchino.

È un piccolo esserino blu, dagli occhi grandi e dello stesso colore, con una peluria color del grano maturo che ricopre quella che dovrebbe essere la sua testa. Ha un certo non so che di umano, questo esserino. E più Sherlock si piega per osservarlo meglio, più quello sgrana gli occhi e allarga la sua minuta boccuccia in ciò che al bambino ricorda un vero e proprio sorriso.

Non gli fa ribrezzo, dopotutto, decide Sherlock. I topi: quelli sì che fanno schifo. Ma questo esserino è davvero buffo.

“Sai, sto cercando una cura per la mia mamma. Non sta molto bene, ultimamente...” sussurra Sherlock. Non che il bruco possa comprenderlo: ovviamente lui non lo pensa. Lui è un genio. Ma qualche volta ascoltare la propria voce parlare all’indirizzo di qualcuno – o qualcosa che non siano i suoi becher – fa bene al cervello.

“Stavo cercando di sintetizzare una cura per lei da queste erbe” continua, avvicinando un dito al bruco e iniziando ad accarezzarlo. È una bella sensazione, la sua carne bianco latte contro quel blu acceso. “Ma credo di non essere proprio in grado...”

Il bruchino si scuote tutto a quel contatto, emettendo uno strano verso, simile a un tintinnio. Poi fa una piroetta e si butta a pancia in su, nel grembo di Sherlock. Forse soffre il solletico...

Il bambino scoppia in una bella risata, fresca, cristallina. Come non ne faceva da tempo. Accarezza ancora un po’ il bruchino ed egli si scuote ancora tutto.

“Ce l’hai un nome?” domanda Sherlock. Il bruchino, con un rapido movimento, si rimette a schiena in su e abbassa i piccoli occhietti. Al bambino sembra quasi triste.

“Ti piace John come nome? C’era uno scienziato di cui ho letto che ha fatto tante scoperte interessanti che si chiamava John. È un bel nome, sai!”

La scelta sembra incontrare il gradimento del bruchino, che tira fuori la sua piccola lingua per leccare dolcemente il dito di Sherlock. Due volte.

“Lo prendo come un sì!” Si sente quasi sollevato, il bambino, ed è davvero da molto tempo che non stava così. Forse dovrebbe sentirsi stupido, prendersi in giro da solo al posto dei suoi idioti compagni di classe, perché sta parlando con un bruco. Ma non è così.

Sherlock non si è nemmeno reso conto d’aver abbassato le palpebre e aver permesso a lacrime silenziose di rigargli il viso. Soprattutto, non si è accorto che, non senza fatica, John il bruco s’è arrampicato fin sul suo viso e ora le sta amorevolmente asciugando tutte, raccogliendole via con la sua piccola lingua.

Una a una.

Sino a quando il bambino non cade in un sonno profondo, senza sogni.

 

§§§

 

Quando Sherlock riapre gli occhi, gli sembra d’aver dormito per ore. Le strie color cremisi che intingono il cielo gli suggeriscono che probabilmente è così. Borbotta all’aria tutto il suo disappunto mentre si tira in piedi e si rassetta i vestiti.

Suo padre, suo fratello e la servitù tutta saranno in allarme. È anche probabile che lo metteranno in punizione.

Noioso.

Sta ancora finendo di sistemarsi e allacciarsi la sciarpa che si blocca di colpo.

Pietrificato, sarebbe meglio dire.

Uno strano senso di disagio lo assale: dove è finito il bruco?

E poi lo vede. John il bruco giace a terra, avvolto da strani fili bianchi che sulle prime ricordano zucchero filato. Titubante e col respiro trattenuto, Sherlock s’inginocchia e lo sfiora con un polpastrello.

È freddo, è immobile. Sembra sia stato svuotato – risucchiato – di ciò che c’era al suo interno. Della vita.

John il bruco giace lì per terra, morto, e altro non è rimasto che la sua pelle blu raggrinzita e la sua peluria dorata che ora non ha più l’aspetto del grano pronto per la mietitura.

Sherlock china il capo e affonda con forza i denti nel labbro inferiore. “Non sono... Non sono proprio capace di tenermi stretto qualcuno...” sono le amare parole che gorgogliano fuori dalla sua bocca.

“A me hai fatto del bene, invece” trilla una voce alle sue spalle. Con un balzo e il cuore in gola, Sherlock si volta. “Chi... Chi ha parlato?” chiede con finta autorità e il petto in fuori. A parte il prato, i fiori e un olmo, non vede proprio nulla.

“Io...” mormora una voce stridula. È seguita da un colpo di tosse. “Sono io. Scusami, devo ancora modulare bene la mia nuova voce...”

E poi Sherlock lo vede, che sbuca da dietro un ramo: un occhio azzurro e una zazzera color del bel grano maturo. Muove due passi verso l’olmo, ma l’altro bambino scompare dietro il tronco. “Mi hai chiamato John, poco fa...”

Sherlock è spaventato, ma l’ultima cosa che desidera è darlo a vedere. Così, s’avvicina all’albero ma rimane al di qua del tronco. “Ho dato quel nome a un bruco, non a un bambino” borbotta, “chi sei tu?”

“Sono quel bruco. Ho semplicemente completato la mia mutazione” spiega John, facendo scivolare una mano al di qua del tronco: è decisamente una piccola mano umana. Sherlock si ritrae.

“Sciocchezze, i bruchi mutano in farfalle. Lo sa persino Anderson!” esclama, il pensiero che va rapido al suo più detestato compagno di scuola.

“Noi siamo una specie particolare, i Boswell Krameri.” John s’azzarda a mettere fuori un po’ di più di se stesso e ora Sherlock riesce a vedere ben due terzi di viso. È un bel bambino, il suo bruco.

“Mai sentita come specie!” asserisce, stringendo le braccia al petto.

“Siamo in via d’estinzione, in effetti. Il più delle volte, la nostra esistenza termina prima di riuscire a trasformarci. Pochi di noi sono così fortunati da trovare il proprio compagno e riuscire a mutare in esseri umani!”

Il sorriso che si dipinge sul volto di John è così radioso che per un attimo contagia anche Sherlock. Per un attimo...

“Così io sarei il tuo compagno?”

“Sembra proprio di sì!” cinguetta il fu bruco.

“E ti avrei permesso di mutarti?”

“Esattamente! Non è meraviglioso?”

“Assurdità. Noiose assurdità.”

Un cenno di tristezza fa ammutolire John. È così palpabile che persino Sherlock si rende conto d’aver esagerato.

“Se questa storia è vero, provala!” lo esorta.

E John lo fa: gira tutto attorno all’olmo sino ad arrivare davanti al piccolo morettino. Lo guarda negli occhi, sebbene sia più basso di mezza spalla, e gli sorride. A memoria, Sherlock non rammenta sorriso più bello. Poi John si alza appena sulle punte dei piedi scalzi e lecca Sherlock su una guancia, esattamente come ha fatto poco prima, quando la sua lingua era ancora piccina.

Sherlock squittisce terrorizzato, serra le palpebre e si spalma con la schiena contro il tronco dell’albero: Cielo, è stato baciato da un altro essere umano! O, meglio, leccato da un altro essere umano! E, perdiana, non è stato per nulla spiacevole...

“Allora, che ne pensi? Sono sempre il tuo John?” sentono dire le piccole orecchie di Sherlock.

Il bambino emette un confuso mugolio, prima d’azzardarsi a riaprire gli occhi. E, quando lo fa, il bel viso di John gli sta sorridendo radioso, promettente.

“Ci sono buone probabilità che tu sia... Chi dici di essere, insomma” ammette Sherlock, gesticolando nervosamente. Ma poi si rende conto che, a parte quella strana cosa bianca avente la consistenza dello zucchero filato, John non indossa proprio nulla.

“Ehi, ehi, ehi, dovresti coprirti! Sei mezzo nudo!” gli fa notare il bambino moro, sempre più terrorizzato e serrando nuovamente gli occhi.

John si guarda intorno e poi i suoi piedi. “Io... Non so come fare...” conviene alla fine, la voce pregna di tristezza.

“Ok, facciamo così: per adesso tieni il mio cappotto...” inizia Sherlock, mentre si toglie l’indumento e, con un solo occhio mezzo aperto e le gote normalmente pallide imporporate d’un insolito rossore, lo avvolge al corpo freddo di John. “Poi a casa cercheremo qualcosa di più adatto.”

“Oh, allora posso venire a casa con te?” Lo sguardo speranzoso di John si alza verso il nuovo amico, illuminandosi di una luce vivissima. “Mi sembra di ricordare che apparentemente sono il tuo compagno, o qualcosa del genere...” borbotta Sherlock.

È così preso dall’apparire il più possibile disinteressato da non accorgersi che la sua mano destra ha iniziato ad accarezzare con intensità la schiena dell’altro, per donargli un po’ di calore. E la cosa che lo sorprende di più è che pian piano questo calore sta avvolgendo anche lui ed è una cosa meravigliosa.

“Penso dovremmo incamminarci ora...” dice Sherlock pensieroso, la mente che si perde via tra il cercare una possibile interpretazione a ciò che sta accadendo e una giustificazione plausibile per la sua famiglia.

“Non scordarti quello, però!” incalza John.

“Che cosa?”

“La mia vecchia pelle” risponde, indicando con il mento quel bozzolo bianco e azzurro privo di vita che giace per terra poco distante dai loro piedi.

Sherlock aggrotta la fronte. “E a che cosa mai ci servirebbe?”

John gli si para davanti, saette di eccitazione che gli animano gli occhi. “Quello è ancora un piccolo bozzolo di vita! Ti servirà a curare la tua mamma!”

Il bambino moro storce il naso: è assurdo. Certo, anche John che parla davanti a lui è l’emblema dell’assurdità, dopotutto...

Così assurdo da meritare un tentativo.

Allora Sherlock raccoglie il vecchio corpicino del bruco, tenendolo tra le mani e osservandolo con occhi curiosi. C’è un nuovo e fantastico mondo, tra le sue mani così come accanto a lui in quello strano essere umano di nome John. Un nuovo e fantastico mondo che non vede l’ora di essere scoperto dal piccolo Sherlock Holmes.

E lui non desidera più attendere.

   
 
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