Libeccio
La
schiena si Lovino si accapponò quando venne messa a nudo.
La
luce dell’alba colò lungo la sua colonna
vertebrale,
incuneandosi nei punti in cui la pelle si increspava in minuscoli
sfregi.
Negli
ultimi due mesi, quel rituale si era ripetuto spesso:
Lovino a torso nudo e Antonio che gli esaminava la schiena, entrambi
seduti sul
letto dell’uomo. Le prime volte erano state necessarie
affinché Antonio
applicasse un unguento medicamentoso sulle ecchimosi violacee, ben
visibili
sulla pelle chiara del ragazzo. Pian piano i lividi erano retrocessi
verso un
verde malato e un giallo spento fino a sparire del tutto, lasciandosi
dietro
solo il brutto ricordo delle percosse subite.
Lovino
non si era opposto a quella terapia, ma non aveva
nemmeno mostrato riconoscenza. In un’unica occasione si era
esibito in un
abbozzo di gratitudine: la prima volta che Antonio gli aveva spalmato
la
mistura curativa sugli ematomi, il giovane gli aveva rivelato il
proprio nome.
Era stato il suo modo rozzo di ringraziarlo.
Antonio
aveva imparato due cose di Lovino: la prima, che
aveva fatto vedere i suoi lividi solo a lui, perché non
voleva che quella
storia circolasse tra le comari. La seconda, che il motivo che lo
spingeva a tornare
in quella stanza non era più la terapia, ma
l’amore per il mare: ogni giorno si
faceva raccontare qualcosa sui trascorsi da corsaro
dell’uomo, avido di
conoscenza.
«Sei
guarito» diagnosticò Antonio, richiudendo
l’ormai inutile
contenitore di pomata.
Lovino
annuì in silenzio, chiudendo la camicia.
Fu
mentre l’ultimo bottone entrava nell’asola che
sbottò:
«Cos’è
successo due anni fa?»
La
domanda freddò l’ex-capitano per qualche istante
prima
che la memoria lo soccorresse: la sera precedente, al termine del
lavoro, aveva
accennato ad un incredibile evento avvenuto due anni prima. Lovino non
dimenticava nulla che avesse a che fare con vascelli e galeoni.
«Fummo
sorpresi da una tempesta» raccontò Antonio, la
voce
di un’ottava più bassa e appena più
raspata del solito. «Poche volte ho visto
una simile furia d’acqua: non so se fosse più
aggressiva quella del mare o
quella del cielo. Le nuvole ci rovesciavano addosso cascate di pioggia,
e le
onde si abbattevano sull’albero maestro come se volessero
spezzarlo. Ci
rifugiammo sottocoperta, ma uno dei miei uomini rimase bloccato sul
ponte. Mi
legai una corda in vita e corsi a recuperarlo.»
Lovino
si era voltato per ascoltarlo meglio, le sopracciglia
inarcate ad esprimere scetticismo. Antonio non vi diede importanza:
ormai aveva
imparato che, spesso, Lovino manteneva quella facciata antipatica solo
per non
far trapelare il suo reale interesse.
«Ci
salvammo entrambi» continuò. «Ma mentre
eravamo sul
ponte, che possa essere fulminato se mento, ho visto il volto della Dea
del
Mare.»
«La
Dea?» replicò Lovino. «Ma le donne
portano male sulle
navi…»
«Forse
perché lei sarebbe invidiosa di un’intromissione
femminile nel suo regno» sorvolò Antonio, immerso
nei ricordi. «Lo ricordo
benissimo: si era levata un’onda gigantesca e lì
ho visto il suo viso, fatto di
flutti e di spuma. Era bellissima e terrificante. Non ho mai visto
niente di
simile in tutta la mia vita…» lo sguardo gli cadde
sul bastone, ed il cuore gli
crollò a terra. Non aveva mai visto niente di simile, e mai
più ne avrebbe
avuto occasione: la Dea del Mare aveva deciso di maledire il mortale
tanto
sfrontato da averla guardata negli occhi.
«Secondo
me, avevi bevuto troppa acqua di mare» lo screditò
Lovino.
Antonio
non replicò: si appoggiò al bastone per issarsi
in piedi,
silenzioso.
«E’
ora di andare a lavorare» disse, porgendogli una mano
per aiutarlo ad alzarsi.
Lovino
lo ignorò spudoratamente e
si sollevò dal letto da solo.
«Non
facciamo aspettare i clienti» mugugnò, arrotolando
le
maniche della camicia.
***
Antonio
non era stato il solo a chiedersi perché
continuassero a vedersi ogni mattina nonostante i lividi fossero
spariti da
tempo.
Lovino
si era letteralmente arrovellato per trovare una
risposta.
E
la strada che prendevano le sue ipotesi non gli piaceva per
nulla.
Aveva
giurato che non si sarebbe mai più affezionato a
niente.
Aveva
amato la sua terra natale, la sua bella Italia: il suo
cuore aveva immagazzinato l’odore asprigno delle arance, il
biancore delle case
rurali, il cielo azzurro che si specchiava nel mare. L’aveva
adorata in ogni
sua parte, ed era stato costretto ad abbandonarla. Tutti i suoi ricordi
erano
marciti in una poltiglia caustica che gli corrodeva lo stomaco quando
provava a
ripensare al suo paese d’origine.
Aveva
amato la sua famiglia, e anche loro erano spariti.
Erano volati in un luogo molto più lontano della sua patria
natia, un posto che
non si poteva raggiungere navigando. Anche loro erano stati inglobati
nel
marciume che gli avvelenava l’anima.
L’unico
a non averlo tradito era il mare, maestoso e familiare
in qualunque porto.
Aveva
giurato che non avrebbe aggiunto altre tossine a
quelle che già gli circolavano nello spirito: il suo cuore
sarebbe stato
occupato solo dall’oceano, l’unico sempre uguale a
se stesso. Non avrebbe
concesso nulla più di un contenuto distacco ai paesi e,
soprattutto, agli uomini:
la città in cui si trovava era solo un posto in cui vivere,
e non avrebbe
sofferto abbandonandola; le persone che conosceva erano suoi colleghi
di
lavoro, e non avrebbe provato grossi rimpianti nel lasciarli.
Antonio
era la variabile imprevista che incrinava il suo
progetto.
Non
aveva avuto remore nel lasciarsi alle spalle l’umorale
fruttivendolo che era stato il suo capo, anzi, ne aveva provato un
immenso
sollievo: la scarsa paga non valeva certo i maltrattamenti che subiva
ogni
giorno.
Antonio,
invece, sapeva come farsi benvolere dai suoi
dipendenti: aveva assegnato l’intero piano terra agli alloggi
del personale, ed
offriva loro un vitto decente, che aveva convertito il fisico rachitico
di
Lovino in quello asciutto e sano di un ragazzo in forma. Lui stesso si
era
sorpreso quando allo specchio aveva scoperto delle guance floride ed un
colore
più vivo negli occhi. Non pensava che il cibo potesse
operare un simile
prodigio.
Consapevole
della sua passione per la costa, Antonio gli
aveva affidato il ruolo di pescatore.
Lovino
era stato felice di quell’incarico: poteva passare
ore e ore da solo con la spuma salata, e vedere le correnti che
vorticavano
sotto la sua barca. Si era fatto insegnare alcuni trucchi dai marinai
che
intrecciavano le reti sul lido, e ne aveva fatto buon uso: aveva
imparato quali
fossero i siti più ricchi di pesce e le rotte preferite di
alcune specie
marine.
I
primi giorni aveva riportato all’albergo un raccolto
striminzito,
ma, con l’affinarsi della tecnica, era riuscito a garantire
il pesce fresco sul
menù della locanda.
Masticò
il labbro inferiore mentre analizzava la sua rete
per assicurarsi che non ci fossero dei fili strappati. Più
delle lodi
sarcastiche dei vecchi pescatori, che gli offrivano un tiro di pipa
quando lo
vedevano carico di pesce e lo chiamavano “Neleo”,
gli aveva fatto piacere
vedere il volto di Antonio rinfrancato per la scelta fatta. Il suo
precedente
padrone non gli aveva mai sorriso e Lovino non sarebbe stato
né contento né
dispiaciuto di vederlo sereno.
Si
caricò la rete in spalla, ed afferrò la canna da
pesca e
il cestino delle esche con la mano libera. Doveva ammettere che Antonio
era una
persona gentile. L’unico ad essersi dimostrato
così disponibile con un orfano
emigrato.
«Vado»
annunciò a cuochi e camerieri che finivano di
indossare le loro divise.
«Prendi
qualcosa per ripararti dalla pioggia» gli
consigliò
il capocuoco, da sopra il trambusto delle stoviglie sbatacchiate sui
fornelli.
«Il tempo non promette nulla di buono.»
Lovino
lanciò uno sguardo fuori dalla finestra: immerso
com’era nei suoi pensieri, non si era accorto del principio
di nubifragio che
si stava ammassando ad occidente. Il vento avrebbe presto spinto sulla
loro
città quei nembi gravidi di burrasca.
«Non
ti conviene metterti in barca, oggi» si premurò
una
cameriera che proprio non riusciva a raccogliere gli sfuggenti capelli
mori in
una coda. «Se dovessero esserci i
fulmini…»
«Pescherò
dal molo» sminuì Lovino. Afferrò una
palandrana
stinta dalla salsedine e decise che sarebbe stata sufficiente a
proteggerlo
finché non avesse cominciato a piovere. «Se si
scatenerà il temporale, tornerò
indietro.»
«Quando si
scatenerà» lo corresse il corpulento capocuoco,
emergendo dagli scaffali con
una selva di pentole tra le braccia grassocce. «Fai
attenzione.»
Lovino
annuì. Indossò il tabarro, si calò il
cappello da
pescatore in testa, raccolse i suoi attrezzi e si preparò ad
avventurarsi nel
mondo che minacciava tempesta.
Ma
qualcosa lo bloccò a pochi metri dall’uscita: dal
piano
superiore si udì un tonfo sordo, come di un corpo svenuto.
La cameriera
desistette dall’impresa di legare la zazzera crespa e si
affrettò a vedere cosa
fosse successo. I passi della donna aumentarono esponenzialmente la
velocità
nel discendere le scale, e si affacciò con il volto livido
di chi ha visto un fantasma.
«Diego,
sbrigati, Antonio si sente male!» strepitò,
afferrando per la collottola il cameriere appena nominato.
«E’
la gamba, vero?» sberciò il capocuoco mentre Diego
volava su per le scale. «Quando cambia il tempo, è
sempre così.»
«La
gamba?» chiese Lovino, senza dare un’inflessione
troppo
partecipe alla voce.
«Quando
si avvicina la pioggia, le vecchie ferite fanno
sempre male, ragazzo. A volte sembra di impazzire»
borbogliò l’uomo. «Ma non
preoccuparti: Diego è abituato a dargli una mano, in queste
situazioni. Vai a
pescare tranquillo.»
Lovino
annuì e si affrettò ad uscire dalla porta.
Antonio
non gli aveva mai parlato di quella sua debolezza.
Forse non lo aveva informato perché c’era Diego
ad aiutarlo.
Pestò
con forza i piedi sull’acciottolato mentre si dirigeva
alla spiaggia e al mare grigio per il nubifragio incombente.
Diego
avrebbe sostenuto il gestore della locanda. E lui
intanto sarebbe rimasto fuori a pescare.
C’era
qualcosa, in quell’equazione, che lo infastidiva come
una puntura di calabrone. Ma si rifiutò di esplorare il
motivo di quel suo
stato d’animo.
Si
sbrigò a raggiungere la risacca ruggente. Almeno lei non
avrebbe preferito Diego.
***
Il
cuscino si appiattì accondiscendente sotto la sua
schiena.
Non
si aspettava un acquazzone così violento a maggio:
credeva che ormai la stagione delle piogge e degli strazi alla vecchia
ferita fosse
terminata. C’era sempre un’eccezione alla regola,
avrebbe dovuto ricordarsene.
Scostò
un lembo del lenzuolo per osservare la gamba offesa:
Diego e Consuelo avevano stretto per bene le bende sul balsamo
antidolorifico,
ma non era servito a molto. Più i mesi passavano,
più quella cicatrice sembrava
tormentarlo. Ogni giorno che trascorreva ad ascoltare il mare
anziché viverlo
depositava una spina nella sua ferita. Ormai la sua gamba era un unico
roveto.
Per
di più, la Dea del Mare aveva deciso di colpirlo con una
stoccata a tradimento: i cirri scuri e la caligine opprimente erano gli
stessi
del giorno in cui aveva mostrato il suo viso.
«Forse
sto invecchiando davvero» sospirò, portandosi una
mano alla fronte.
Dall’arrivo
di Lovino, era diventato più difficile
combattere la malinconia, poiché rivedeva in lui tutto
ciò che era stato alla
sua età: un ragazzo affamato di avventure e di terre da
esplorare. Prima o
poi, il mare si sarebbe portato via
anche il suo pescatore: Antonio sapeva meglio di tutti quanto fossero
allentanti le promesse di lidi lontani e di litorali sconosciuti.
Bastava
che il richiamo degli abissi si elevasse con più
forza dalle scogliere, e Lovino se ne sarebbe andato.
E
lui, Antonio, come si sarebbe comportato quando quel
giorno fosse giunto?
Qualcuno
bussò alla porta, o meglio, prese a pugni il legno
dello stipite. L’ex-capitano non ebbe bisogno di chiedere chi
fosse.
«Avanti»
invitò.
In
controluce, con la palandrana sgocciolante e il cappello
fradicio, Lovino sembrava uno spirito delle intemperie. Diede la stessa
impressione anche quando si addentrò nella stanza, in uno
spiaccichio di
vestiti zuppi e gocce che si infrangevano sul pavimento.
«Devi
asciugarti, o ti ammalerai» lo redarguì
gentilmente
Antonio, sistemandosi più composto contro il cuscino.
«Non
mi avevi detto dei tuoi problemi con la gamba» fu la
risposta incoerente di Lovino, mentre si toglieva il cappello scoprendo
la
capigliatura intrisa di tempesta. Nemmeno il diluvio, però,
era riuscito ad
abbassare quell’unico ciuffo ribelle che svettava verso
l’alto.
«Non
è una storia interessante» si
giustificò Antonio.
Lovino
si spogliò del tabarro grondante pioggia, ma non si
fece scrupolo di sedersi sulle coperte con i pantaloni bagnati.
«Come
è andata la pesca?» chiese l’uomo per
aggirare
l’ostilità di Lovino.
«Non
è una storia interessante.» Fu con
acidità che il
ragazzo gli restituì le sue stesse parole.
Lovino
non voleva ammettere che, se quel giorno aveva
catturato pochi pesci, non era stato a causa del tempo ostile, ma dei
pensieri
insulsi che lo avevano distratto dal suo lavoro.
Stupido
Diego e stupido Antonio.
«Succede
sempre, quando arriva la tempesta. La cicatrice
comincia a farmi male, e il muscolo cede. Faccio fatica a camminare,
quando
succede» spiegò Antonio, per poi domandargli di
nuovo: «Come è andata la
pesca?»
«Magra»
ringhiò Lovino. «Pochi pesci e troppi
grattacapi.»
«Grattacapi?»
«Grattacapi»
confermò il ragazzo, senza aggiungere una
sillaba.
Antonio
drizzò la schiena contro la testiera del letto,
Lovino si impegnò a guardare altrove.
Il
silenzio cadde tra di loro come un masso. Fu il
proprietario dell’albergo a liberarsi di quel fardello.
«Pensi
mai di prendere il mare?» chiese.
Gli
occhi del giovane scattarono verso di lui, accesi da una
rabbia di cui Antonio non comprese il motivo. E Lovino tenne la ragione
del suo
malumore ben nascosta: il gestore era l’unica persona, da
quando era stato
separato dall’Italia, cui si fosse veramente affezionato.
Aveva tentato in
tutti i modi di erigere barriere tra di loro e di iniettarsi dosi di
indifferenza, ma era stato come cercare di spegnere il fuoco a mani
nude: aveva
ottenuto solo scottature.
Sentire
quella stessa persona tenergli nascosto il malessere
alla gamba e chiedergli quando sarebbe partito lo feriva più
di quanto desse a
vedere: aveva promesso di non legarsi a nessuno, invece lo stava
facendo con la
persona più sbagliata del mondo. E quella consapevolezza non
faceva che
aumentare il suo malcontento.
«Certo.
Non vedo l’ora di andarmene da qui»
ribatté secco.
Lo
sguardo verde di Antonio lo studiò per qualche momento.
Non seppe cosa lui avesse intuito dal suo cruccio imbronciato, ma la
seguente
domanda sembrò contenere una molteplicità di
significati diversi:
«Cosa
ti trattiene?»
Non
gli piacque il tono dell’uomo, cadenzato come i passi
del cacciatore che ha intravisto la tana della preda e cerca di non
spaventarla
per catturarla. Non aveva alcuna intenzione di finire nella sua
tagliola.
«La
mia peseta»
attaccò. «Non me l’hai ancora
restituita.»
L’incredulità
sollevò le sopracciglia scure dell’ex-capitano.
«Resti
qui solo per una peseta?»
Lovino
si sprangò dietro un mutismo ostinato. Una goccia si
tuffò dalla frangia allo zigomo, e rotolò sulla
guancia mimando una lacrima; il
ragazzo la asciugò sul polsino umido, che passò
anche sul resto della faccia
bagnata.
Antonio
si protese verso di lui, avvicinando la mano alla
testa del giovane.
«Lovino…»
mormorò, poggiandogli il palmo sulla chioma madida
di temporale.
Il
pescatore reagì come se gli avessero infilato uno
scorpione nella camicia: sollevò il volto dalla manica e
schiaffò via la mano
dell’uomo, alzandosi con uno scatto dal letto.
«Non
mi toccare!» esclamò. «E ricordati di
restituirmi la peseta,
così finalmente me ne potrò
andare!»
Fu
più rapido di un fulmine nell’uscire dalla stanza,
lasciando dietro di sé solo l’odore di mare e di
nubi.
***
«Oh,
hanno litigato?» si dispiacque la bimba con le trecce.
«Un
pizzico di conflitto accende l’amore»
recitò Francis.
«Ma
avevate detto che quel giorno di maggio aveva segnato
uno stacco. Invece battibeccarono» protestarono le tredicenni
in un angolo.
«Signorine,
non avete colto l’essenziale: perché litigarono?
Perché erano entrambi innamorati» decise di essere
più chiaro, notando il
dubbio serpeggiare nell’improvvisata platea. «Lei aveva intuito di provare qualcosa
per quell’uomo, ma non voleva
accettarlo.»
«E
perché?» petulò un bimbo in prima fila.
Francis
riuscì a morsicare la sua vera risposta –
“perché
era cocciuto come un mulo” – e a formularne
un’altra, più lirica e ugualmente
veritiera:
«Perché
non poteva ammettere di amarlo, se metà del suo
cuore palpitava per il mare e l’altra metà era il
cimitero dei lutti passati. Tuttavia,
quel giorno fu fondamentale per entrambi: lei
comprese i propri sentimenti, ma cercò di ignorarli e
soffocarli; e lui si
accorse di questi suoi tentativi.»
«E
Antonio come capì di essere innamorato di lei?»
domandarono di nuovo le ragazzine.
«Lui…»
Francis sorrise, galante. «Lui lo aveva capito molto
prima di lei.»
Un
uggiolio estasiato si levò dalle gole femminili.
«Ma
se volete conoscere meglio quali fossero i sentimenti
che lo animavano…» li mise sulle spine Francis,
assumendo l’espressione
sorniona di chi sa molto e rivela poco. «Devo rievocare il
giorno in cui a
cambiare la vita di Antonio non fu qualcosa di piccolo. Giugno giunse
assieme
ad un enorme galeone inglese: la Queen of
Pirates aveva gettato l’ancora. E il suo capitano
era diretto proprio alla
locanda di Antonio…»