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Autore: nari92    05/01/2014    12 recensioni
[AU] A Boston vivono Robert Gold, spietato avvocato, Regina Mills CEO di una grande multinazionale, Belle French, ragazzina sognatrice con la passione del giornalismo, Emma Swan, giovane madre pronta a lottare per un futuro con suo figlio, Victor Whale, primario di un ospedale, Kathryn Nolan, giovane vedova, Mary Margareth Blanchard, proprietaria di un'agenzia di matrimoni, e molti altri.
I loro destini si intrecciano in modo permanente, facendo sbocciare amori, nascere amicizie, riaffiorare vecchie tensioni e scatenando una serie di eventi imprevedibili...
Genere: Azione, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Belle, Emma Swan, Regina Mills, Signor Gold/Tremotino, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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                                                                                Crossed Paths



CAPITOLO 1: "Good Morning, Boston!"



Robert Gold non aveva tempo per leggere tutte le mail che intasavano il suo indirizzo di posta elettronica, così la sua segretaria, Ashley Boyd, aveva assunto, tra le sue numerose e sottopagate mansioni, anche quella di smistare la posta del suo scorbutico capo.
Quella mattina, però, l’avvocato più ricercato di Boston era arrivato in ufficio talmente presto, che si era concesso una mezzora per scorrere le varie offerte di lavoro che gli arrivavano quotidianamente. Gold si occupava per lo più di diritto societario, ma negli ultimi anni si era sforzato sempre di più di allargare il suo campo d’azione, in modo da poter offrire i suoi servizi negli ambiti più disparati. Per tenersi sempre in pari con le nuove riforme di legge seguiva numerosi corsi di aggiornamento (privati, ovviamente), leggeva tutte le riviste di settore, e fingeva che fosse solo professionale il suo non perdersi una puntata di Law and order.
Con il tempo, quindi, le cause di separazione, e il diritto familiare in senso più ampio erano diventati il suo pane quotidiano; avrebbe faticato ad ammetterlo, in quanto rovinava la sua immagine di cinico uomo senza scrupoli e senza interesse per il prossimo, ma in fondo quella branca del diritto lo affascinava perché entrava in gioco l’uomo per chi era davvero. Gold lo aveva sempre pensato: è solo in famiglia che una persona diventa sé stessa, lì si scoprono i suoi pregi più grandi e i difetti peggiori. Soprattutto i secondi, pensò Robert quella mattina con una punta di amarezza, soprattutto i secondi. Era proprio per i suoi difetti che Gold, per parlare di famiglia, doveva riferirsi al lavoro, avendo perso la sua tempo addietro, e non essendosi la ferita dell’abbandono mai rimarginata del tutto.
Nel corso della sua carriera, in ogni caso, aveva incontrato i casi più disparati: la figlia che voleva denunciare la madre per essere stata a letto con il suo fidanzato, i cugini innamorati che volevano sposarsi, la prozia che rivoleva indietro una casa regalata ai nipoti per costruirvi un immenso mausoleo che la tramandasse ai posteri, il marito che voleva il divorzio e il mantenimento semplicemente perché la moglie russava (lo squalo delle aule da tribunale sorrise tra sé ripensando a quel caso, uno dei più divertenti che avesse mai seguito; il marito era un tipo veramente intelligente, un pazzo, questo è ovvio, ma intelligente nella sua follia; aveva argomentato con cura la sua tesi: il russare di sua moglie tutte le notti gli aveva rovinato la vita.)
Robert Gold amava il suo lavoro, si poteva quasi dire che fosse la sua unica ragione di vita, in realtà, ma al tempo stesso i suoi clienti spesso lo disgustavano. Per lo più erano persone ricche, capricciose e vuote, ma non era questo che lo disturbava; ciò che proprio lo spietato Mr. Gold non poteva tollerare, era il poco senso della famiglia che sembrava ormai un tratto caratteristico della società moderna. I suoi clienti avevano la cosa più importante che un uomo possa trovare nella vita, una famiglia, delle persone che ti amano per quello che sei; ed erano disposte a buttare via tutto per una sciocchezza. Gente pronta a lasciare casa semplicemente perché i parenti sono allergici al pelo del cagnolino tanto amato; non che Robert avesse nulla contro i cani, anzi, erano bestie fedeli e gli avevano sempre ispirato un senso di fiducia, ma non riusciva a capacitarsi del fatto che per un animale si potessero abbandonare i propri cari.
Ovviamente quelli erano solo i casi più estremi, la maggioranza delle persone che si rivolgeva a lui aveva problemi seri, coppie che non riuscivano più a vivere sotto lo stesso tetto senza insultarsi o, addirittura, venire alle mani, rendendo un inferno la vita non solo loro, ma anche, cosa ben più grave nell’ottica di Gold, dei figli. L’amore non sempre era eterno, nessuno lo sapeva meglio di lui, ma i figli non avrebbero mai dovuto pagarne le conseguenze.
Tra le decine di richieste che lesse quella mattina, una sola lo colpì in modo particolare; forse perché, diversamente dalle mail che di solito riceveva, non si presentava con una forma elegante e raffinata, con uno stile curato, con mille giri di parole, tanto fumo e poco arrosto (una cosa che lo innervosiva moltissimo, quando sceglieva di seguire un caso voleva sapere nei dettagli cosa lo avrebbe aspettato). La mail in questione era breve, diretta, senza il solito formulario, ma al tempo stesso ben scritta; chi l’aveva mandata di sicuro padroneggiava bene la lingua, era abituato a scrivere, pensò Gold.
Si corresse mentalmente, abituata non abituato, era una lei che aveva scritto, non un lui.
La rilesse una seconda volta con cura, fissando nella mente tutti i dettagli.
“Egregio Mr. Gold,
sono Belle French e le scrivo per chiederLe le sue prestazioni. Mio padre vuole che io sposi un uomo solo per salvarlo dalla disastrosa situazione finanziaria in cui si è infilato, ho bisogno di un avvocato, al momento solo per una consulenza, ma in seguito forse anche per un processo.
Non so di preciso a quanto ammonti la sua parcella, né se io me la possa permettere, ma ho davvero necessità di un parere tecnico.
In attesa di una Sua Risposta
Cordiali saluti
Isabelle French”
Semplice, secca e chiara. Era così che a Mr. Gold piacevano le richieste di aiuto, non imbellettate con metafore ardite, similitudini inappropriate e lunghe perifrasi. C’era solo un punto sul quale la signorina French non era stata chiara a sufficienza, la parcella. Aveva velatamente espresso il timore di non potersi permettere i suoi servizi, ma al tempo stesso non sembrava prendere in considerazione l’idea che lui non avrebbe accettato di lavorare per poco. Forse sperava di impietosirlo con qualche storia strappalacrime sulla sua infanzia difficile in un quartiere povero o su un amore impossibile contrastato dal padre; un ghigno si dipinse sul volto del famoso avvocato. Decisamente la ragazza non sapeva con chi aveva a che fare.
 
Ashley si maledisse mentalmente mentre per un pelo saliva sulla metro, schiacciata tra una signora con le borse della spesa (ma perché le signore vanno a fare compere alle sette del mattino quando non hanno nulla da fare tutto il giorno?) e un corpulento uomo in giacca e cravatta, il quale, però, avrebbe forse fatto meglio a toglierla, la giacca, dato che stava grondando di sudore. La giovane segretaria tentò di non respirare, ma poi rinunciò all’impresa, ricordandosi che tra lei e una boccata d’aria fresca passavano 8 fermate di metro.
Accidenti a lei, che la sera era andata in quel locale con Mary Margareth e Ruby. E accidenti a quel ragazzo biondo così carino che aveva insistito per riaccompagnarla a casa! Sulle prime aveva cercato di fare la sostenuta, rifiutando le sue delicate avances, ma poi quando le aveva sorriso dicendole “guarda che ho la vespa qui fuori, non mi costa davvero niente riportarti a casa”, aveva ceduto, guadagnandosi un sorriso d’approvazione da Ruby e mille raccomandazioni da Mary, la loro seconda mamma. Cosa ci poteva fare se le vespe erano la sua debolezza? E cosa poteva farci se quel sorriso dolce l’aveva conquistata fin dal primo istante? In effetti era rimasta perfino un poco delusa quando il ragazzo, Sean, così si chiamava (un nome meraviglioso secondo Ashley), le aveva posato solo un dolce e casto bacio sulla guancia, quando era scesa dalla moto sotto il casolare dove abitava. Non che si aspettasse chissà che, ma in un vero bacio aveva sperato, viste tutte le attenzioni che le aveva riservato quel ragazzo per tutta la sera; così era andata a dormire leggermente delusa, per quanto la serata con le ragazze fosse stata divertente, come accadeva sempre quando loro tre erano insieme.
Fortunatamente quella mattina, mentre si stava catapultando fuori di casa, ancora ingurgitando la colazione, con le urla di sua madre dietro alle spalle (portati un maglione, che in ufficio da te fa sempre freddo!), si era quasi inciampata in qualcosa che le avrebbe trasformato la giornata. Quel qualcosa era una meravigliosa rosa rossa, resa ancor più meravigliosa dal bigliettino che la accompagnava
“So che speravi di esserti liberata di me, ma quando trovo qualcosa che mi interessa davvero, difficilmente me lo lascio sfuggire
Sean”
Ashley per poco non urlò dalla gioia nel leggerlo, e si dovette trattenere dal saltellare in mezzo alla strada. Sean non era disinteressato a lei, semplicemente era un gentiluomo, non voleva strapparle un bacio la prima sera, voleva farla innamorare di lui, voleva trattarla bene.
Si rigirò il foglio tra le dita, rileggendolo, assaporandone ogni parola e ogni sfumatura, come con un piatto prelibato che si vorrebbe non finisse mai; poi, all’improvviso, un problema le balenò nella testa: dove avrebbe conservato la rosa? Riportarla in casa era fuori discussione, sua madre le avrebbe fatto mille domande e lei, in quel momento, non era proprio in vena di risponderle. Le avrebbe raccontato tutto, poi, con calma, certo, ma ora non c’era neanche il tempo necessario; no, doveva trovare un’altra soluzione. Poteva portarla a casa di Mary Margareth, lei abitava da sola e nessuno le avrebbe fatto domande, l’amica avrebbe capito e avrebbe trattato con cura quel fiore così importante, ma casa sua era fuori strada per andare al lavoro. Il lavoro! Ashley si accorse improvvisamente di essere in ritardo, così iniziò a correre fino alla fermata della metro, ragionando che, in fondo, la rosa poteva sistemarla nel suo ufficio, Gold non avrebbe fatto storie. O almeno così sperava.
Mentre ripercorreva con la memoria la serata e la sorpresa mattutina Ashley sorrise; e scoprì che la felicità di quella mattina non poteva essere guastata da nulla. Non da una sfuriata del suo capo per il ritardo, non dall’avanzo insapore della cena che si era portata come pranzo per risparmiare, e neppure dall’ascella pezzata del suo compagno di viaggio. Ebbene sì, si era finalmente tolto la giacca.
 
La porta della limousine di lusso si aprì nell’istante in cui Regina Mills uscì da casa sua, pronta a partire al suo segnale. La donna si accomodò elegantemente sul sedile della sua auto da città, con un sorriso stampato in viso che aveva un che di maligno; con un cenno del capo fece segno all’autista di partire, senza indicazioni precise sulla destinazione. Sidney sapeva già dove portarla, dove la portava tutte le mattine da ormai più di 10 anni.
Regina non era una donna facile, questo il suo autista personale lo sapeva bene, ma, nonostante i suoi mille difetti, era riuscito ad innamorarsene perdutamente. Un amore che, lui ne era ben a conoscenza, non avrebbe mai trovato sbocco, a causa della differenza di status sociale che li separava, rappresentata dal finestrino che divide il sedile posteriore da quello anteriore, finestrino che Regina amava tenere ben sigillato. Ma anche se non fosse stato per la classe sociale Sidney non sarebbe stato un uomo da prendere in considerazione per Regina. Non che in realtà esistessero uomini che Regina prendeva in considerazione, o che stimasse tanto quanto stimava sé stessa; no, nessuno era all’altezza, nessuno poteva permettersi di entrare nel suo cuore. Nessuno dopo Daniel, comunque, l’amore della sua vita, ma di questo Regina non amava parlare, anzi.
In ogni caso sarebbe ingiusto dire che nessun uomo era entrato nella vita di Regina da quando aveva perso il suo amore, un’eccezione, in effetti, c’era stata. Suo figlio Henry. Henry non era suo figlio biologico, ma per lei era come se lo fosse, dall’istante in cui lo aveva visto, appena nato, nella culla d’ospedale dove era stato depositato dopo che la madre naturale, di cui lei non aveva voluto sapere nulla, aveva partorito e poi abbandonato il figlio.
Regina non riusciva a spiegarsi con che forza quella donna avesse scelto di abbandonare al suo destino quella creatura innocente; sicuramente era una scapestrata senza lavoro e senza speranze, dalla quale non ci si poteva aspettare nulla di buono. In fondo era grata a quella donna di non aver tenuto con sé Henry, lei avrebbe potuto garantirgli senz’altro un futuro migliore, e non gli avrebbe fatto mancare nulla.
I primi tempi erano stati meravigliosi, stancanti, questo era ovvio, ma la soddisfazione di veder muovere i primi passi a suo figlio era valsa tutte le notti insonni e i completi Chanel che il vomito del poco propenso a digerire Henry avevano rovinato.
Con il passare del tempo però, il bambino aveva iniziato ad allontanarsi da lei, a cercare sempre più di difendere i suoi spazi, a trasgredire le sue ben definite regole. Regina non aveva saputo trovare dei compromessi, lei era stata cresciuta così, regole ferree e tanta disciplina, nell’obbedienza più totale, e, ne era certa, era cresciuta davvero bene. Per cui si era limitata a trasmettere a suo figlio ciò che sua madre aveva trasmesso a lei, senza prendere in considerazione l’idea che suo figlio potesse volere qualcosa di diverso.
Le tensioni casalinghe si erano accumulate, culminando nel momento in cui Henry, in preda alla rabbia perché Regina non gli aveva permesso di uscire quel pomeriggio, le urlò “Tanto lo so che tu non sei la mia vera mamma!”.
Lei non aveva risposto ed era andata in camera sua, aveva pianto, come non faceva dai tempi di Daniel, si era sfogata, e poi era andata da Henry. Avevano parlato, si erano scusati l’uno con l’altra e avevano cercato di stabilire insieme delle nuove regole; in fondo Henry era un bambino molto ragionevole, e aveva accettato di trovare un compromesso. Era stato un nuovo punto di partenza e i due avevano vissuto molti bei momenti in seguito, ma al bambino mancava ancora qualcosa, qualcosa che Regina aveva capito da un pezzo, e che le faceva tremendamente paura. A Henry mancava la sua vera madre, aveva voglia di conoscerla e di avere risposta alla grande domanda che perseguita tutti i bambini adottati: perché i miei veri genitori mi hanno abbandonato?
L’auto frenò bruscamente mentre un maggiolino giallo le tagliava la strada in un modo che, a Regina Mills, parve al limite della civiltà. Così abbassò il finestrino della sua preziosissima limo per lanciare degli insulti al “vandalo della strada” che, ancora un poco, e avrebbe rovinato un’auto che costava senz’altro più di lui. Il tutto molto elegantemente, però, come si addice ad una vera signora di classe, quale era Regina Mills.
 
 
 
Emma Swan sentì gli insulti che la signora seduta sul sedile posteriore della limo che stava per mandarla all’altro mondo le stava lanciando, ma decise che non valeva la pena di fermarsi a discutere con un soggetto del genere, sarebbe stata un’inutile perdita di tempo, e lei di tempo da perdere non ne aveva proprio.
Non da quando suo figlio di dieci anni era piombato nella sua vita all’improvviso, senza se e senza ma. Emma sorrise ripensando alla mattina in cui se l’era trovato davanti alla porta, insieme alla posta accatastata per terra e alla confezione giornaliera di latte, e aveva pensato di svenire.                          
Non passava giorno per lei senza ripensare alla scelta che aveva dovuto compiere dieci anni prima, sdraiata sul letto dell’ospedale, ancora dolorante, in quell’orribile tunica bianca senza nessuno al suo fianco, senza nessuno che le tenesse la mano mentre dava alla luce suo figlio, e senza nessuno che la consigliasse su come comportarsi in quella situazione così difficile. Emma non sapeva chi erano i suoi genitori, e ormai poco le importava, o almeno così si era convinta con il passare degli anni, perché sapeva badare a sé stessa. Da quello che le era stato raccontato in modo frammentato e discontinuo, era stata trovata da un camionista in pausa caffè, 28 anni prima, abbandonata in fin di vita al lato di una strada provinciale poco conosciuta, nel Maine. Il camionista era un buon uomo e subito si era preso cura della piccola, portandola dentro alla tavola calda, che era per miracolo ancora aperta, e aspettando l’arrivo dell’ambulanza, mentre, insieme alla proprietaria, cercava di riscaldarla. Fortunatamente Emma era nata con la pelle dura e non subì danni, almeno non fisici, a causa di quell’abbandono, ma la sua sorte non migliorò di molto, in quanto crebbe sballottata di continuo di famiglia adottiva in famiglia adottiva, trovando raramente affetto da chi la accoglieva in casa. Più cresceva e più aveva una visione disincantata della vita, ma in fondo al cuore il desiderio di ritrovare i suoi genitori, se non altro per avere delle spiegazioni, l’aveva accompagnata per tutta la vita.
Almeno finché non era arrivato Neal Cassidy, l’uomo più importante della sua vita, nonché il padre di Henry. Era successo tutto molto in fretta con Neal, un amore travolgente e passionale, di quelli che ti tolgono il fiato e che vivi alla giornata. Purtroppo la giovane coppia di innamorati doveva effettivamente vivere alla giornata, e non solo per l’amore, ma anche per le ristrettezze economiche in cui si trovavano. Emma, da poco maggiorenne, non era più in una famiglia adottiva e Neal minorenne non lo era da un pezzo, così i due avevano dovuto arrangiarsi, compiendo piccoli furti e alloggiando spesso nelle case altrui abbandonate. Ai due, comunque, poco importava vivere di privazioni e non poter mai restare in un luogo a lungo, ciò che importava loro davvero era di poter essere insieme e magari, un giorno, avrebbero anche trovato la serenità economica che desideravano.
Le cose erano cambiate il giorno che Neal era arrivato a casa con una meravigliosa rosa gialla (a Emma il rosso non piaceva), per festeggiare il loro primo anniversario, e aveva trovato la sua ragazza con gli occhi gonfi di lacrime e un test di gravidanza in mano.
Neal la prese tra le braccia e la calmò, sussurrandole “ce la faremo, la supereremo insieme”, cercando di convincere anche sé stesso.
Di abortire neanche si era parlato, entrambi sapevano che quel bambino era frutto di amore, e la scelta di tenerlo fu unanime, il problema vero era sfamare un’altra bocca, o meglio, garantire una vita quantomeno decente al nascituro. Entrambi sapevano che continuare con furtarelli non sarebbe bastato, avevano bisogno di una grossa somma, per trasferirsi in Florida, e lì iniziare una nuova vita, trovare un lavoro ed essere una famiglia normale; proprio quando i due avevano perso le speranze, alla loro porta bussò un vecchio amico d’infanzia di Neal, August Booth. August e Neal erano cresciuti insieme nel Bronx, poi le loro strade si erano separate, August era rimasto a New York ancora per parecchio tempo, mentre Neal era finito nel Maine. Non si erano mai più rivisti, ma quel giorno a Emma apparve come un angelo sceso dal cielo. Disse loro che recentemente si stava inserendo nel traffico illegale di farmaci non ancora in vendita, un nuovo campo in espansione, che prometteva rendite sicure e pochi rischi; per la coppia di futuri genitori era la soluzione migliore, molti soldi in poco tempo, e la possibilità di sparire rapidamente.
Neal volle che Emma, comunque, non restasse coinvolta affatto nel traffico, di modo che, se qualcosa fosse andato storto, lei sarebbe rimasta pulita.
E qualcosa andò storto.
Successe all’improvviso, i due non ebbero neanche il tempo di capire.
Emma aveva ricordi confusi, la polizia aveva bussato, parlato di prove schiaccianti contro Neal e della sua possibilità di rimanere in silenzio.  
Neal le urlò di stare calma mentre i poliziotti lo facevano sedere nell’auto di servizio e lei, per la prima volta nella sua vita, si sentì completamente persa.
La situazione le fu spiegata in seguito, Edward Merril, uno dei tanti pseudonimi di August Booth e, per la precisione, quello con cui era conosciuto in polizia, era sparito nel nulla, probabilmente emigrato in qualche isola tropicale con un passaporto falso. Era scappato non appena aveva sentito puzza di bruciato e aveva lasciato la giovane coppia ad annaspare nel fumo.
Neal risultò l’unico incriminabile.
Andò a trovarlo in prigione, ma lui le disse di non tornare, che sarebbe stato troppo doloroso per tutti e due, di andare avanti con la sua vita, e che era destino che non stessero insieme. Così Emma si era trovata da sola a scegliere di lasciare suo figlio all’ospedale di Boston.
Ma ora che lui l’aveva ritrovata, ora che lui la rivoleva nella sua vita non era più da sola; certo, c’erano ancora parecchi problemi da risolvere, ma Emma era fiduciosa, d’altronde cosa riaccende la speranza più di un nuovo inizio?
 
 
“Ben arrivata in ufficio, signorina Boyd, temevo fosse rimasta bloccata nell’ascensore.”
“Mr. Gold! Mi scusi davvero, è stata una mattinata difficile!”
“Credevo di averle spiegato che la puntualità, nel suo lavoro, è tutto. Spero di non doverglielo ripetere ulteriormente, o saranno le ultime parole che udirà da me”
“Non si preoccupi, non la deluderò più”
“Oh, su questo ci può giurare, non ho aspettative molto alte su di lei”
Ashley si chiese se fosse possibile che sulla faccia della terra esistesse un essere umano più sgradevole del suo capo.
“Ah e quella rosa farebbe meglio a sparire entro fine giornata”
No, non era decisamente possibile.
 
Mary Margareth sollevò il viso dalle scartoffie su cui era impegnata da un po’ con una smorfia esasperata; se c’era una parte del suo lavoro che non tollerava era quella burocratica: formale, noiosa e impersonale. Fortunatamente la maggior parte delle sue giornate erano spese in ciò che la giovane brunetta veramente amava. Aiutare le coppie che si rivolgevano alla sua agenzia a coronare il loro sogno d’amore.
Mary aveva sempre creduto nel vero amore, di cui sua madre le aveva tanto parlato, prima di morire prematuramente a causa di un cancro ai polmoni, anche se non era mai stata abbastanza fortunata da trovarlo per sé stessa; non che l’avesse mai cercato disperatamente, era più che convinta che le cose migliori nella vita capitano quando meno ce lo si aspetta, ma aveva da un po’ rinunciato alla esaltante prospettiva di organizzare uno dei suoi spettacolari matrimoni proprio per sé stessa. Nonostante l’educazione romantica la giovane wedding planner non era devastata dalla constatazione, era semplicemente giunta alla conclusione che il grande amore probabilmente non era scritto nel suo destino.
Levando lo sguardo si trovò davanti un ragazzo decisamente troppo bello per essere interessante: capelli biondo cenere, un viso perfetto, un fisico statuario e intensi occhi azzurri che la fissavano divertiti.
“è da tanto che mi osserva?” Mary era piuttosto irritata con il giovane affascinante.
“non da molto, ma sembrava così concentrata che mi dispiaceva interromperla”
“a me dispiace di più essere fissata da uno sconosciuto”
“rimediamo subito allora” le tese la mano “James Charming”
“Charming, davvero? Come i principi nelle favole?” Mary non si curò di nascondere il tono ironico.
“Proprio come loro”
Alla fine Mary allungò la mano e la intrecciò con la sua. Aveva una stretta decisa ma delicata.
“Mi chiamo Mary Margareth Blanchard”
“Nobile?”
“Perché le interessa?”
“Semplice curiosità. Sto cercando il proprietario di questa agenzia di matrimoni, devo…organizzare un matrimonio.”
“Ma non mi dica. In ogni caso, ce l’ha davanti”
“Come, prego?”
“La proprietaria, sono io”
“Ma lei è una…una ragazza…”
“Una donna, e complimenti per lo spirito di osservazione, pochi se ne accorgono al primo incontro”
“Non intendevo sembrare irrispettoso, è solo che lei mi sembra molto giovane, per il mio matrimonio vorrei qualcuno con più esperienza…”
“Ho più anni di quelli che dimostro, signor Charming, o almeno così dicono. Le posso assicurare che so essere molto professionale nel mio campo.”
“Non ne dubito, anche se la vedo poco portata per il suo lavoro”
“Come, scusi?”
“Non vedo una fede al suo dito…e neppure un anello di fidanzamento. Anzi, per dire la verità non vedo proprio anelli”
“Non sono proprio il tipo da gioielli”
“Direi di no”
Si fissarono per qualche istante indecisi.
“Beh, questo matrimonio lo vuole organizzare sì o no?”
“Certo, vuole già i dettagli?”
“No, ne parleremo al prossimo appuntamento, signor Charming, giovedì alle 3, le va bene?”
“Ma certo signorina Blanchard, a giovedì”
Mary rimase a fissarlo per alcuni istanti mentre quell’uomo arrogante se ne andava, con la strana sensazione che quel “signorina” fosse stato calcato decisamente più del necessario. Certo che Charming calzava veramente a pennello, pensò, mentre sbuffando riprendeva ad esaminare le noiose pratiche da cui era stata distratta.
 
 
 
                       
 
Quanto fosse difficile mantenere un figlio da sola, Kathryn Shiller, lo sapeva davvero bene, lo aveva fatto per anni, ma quello che ancora non aveva capito era quanto potesse essere incredibilmente peggio crescere un figlio con un uomo che non era suo padre. Non che David non fosse disponibile, o gentile, o servizievole. Lo era, eccome, forse fin troppo. Ma sembrava esserlo semplicemente per assolvere un qualche dovere che sentiva come imposto, non perché davvero amava il piccolo Tommy come se fosse suo. E questi sentimenti il bambino li percepiva, a modo suo, tanto che l’atmosfera in casa non era mai delle più serene, da quando il suo nuovo fidanzato si era trasferito lì.
Kathryn non aveva avuto molti uomini nella sua vita, e quando aveva incontrato Frederick, e per lui lasciato il suo fidanzato storico del college, aveva pensato che sarebbe stato l’ultimo, l’uomo della sua vita. Si erano sposati presto, dopo solo alcuni mesi che si frequentavano, una follia, almeno secondo Midas, il padre di Kathryn, genio della finanza, arricchitosi a forza di speculazioni e investimenti ben riusciti, l’esempio perfetto di un uomo che si è “fatto da solo”, come amava definirsi lui nei suoi, non rari, momenti di autocompiacimento. A lui, questo Frederick, giovane e spiantato, non era piaciuto fin da subito, temeva che fingesse solo di amare la sua bambina, ma mirasse invece al cospicuo patrimonio di famiglia. Il ragazzo aveva provato in tutti i modi a cambiare la visione che il padre della donna che amava aveva di lui, ma non c’era stato nulla da fare, per quanto si sforzasse Midas lo vedeva sempre in cattiva luce e anche dai gesti più sinceri tirava fuori dei doppi fini poco plausibili.
Questo fino a quella mattina di ottobre, il 10 ottobre ricordò Kathryn mentre sbucciava le cipolle per preparare una frittata, il ricordo di quel giorno era ben impresso nella sua memoria. Suo padre era uscito come al solito per andare in ufficio a seguire in diretta le trattative di alcuni affari; Tommy quella mattina non faceva altro che piangere (aveva solo pochi mesi) e Midas non riusciva a concentrarsi, così, dopo aver borbottato per mezzora su quanto fosse impossibile lavorare in quella casa, aveva preso al volo giacca e ombrello ed era uscito di corsa. Frederick era appena tornato da lavoro, il suo lavoro da pompiere lo costringeva spesso a estenuanti turni notturni, che Kathryn ricordava come notti insonni, passate a pregare che nulla accadesse. Aperta la porta di casa Frederick notò subito la borsa da lavoro di Midas, dimenticata nell’ingresso, con tutti i documenti ben in vista; nonostante la stanchezza della notte il ragazzo prese al volo la borsa e si lanciò alla rincorsa di suo suocero, sperando di evitare ramanzine su quanto il suo lavoro fosse inutile, rischioso e dannoso per la famiglia che stava costruendo.
Era successo tutto molto rapidamente. Midas stava attraversando la strada, a testa alta, come suo solito. La macchina era sbucata fuori dal nulla. Lo avrebbe investito. Frederick fece ciò che gli venne più istintivo, ciò che aveva sempre imparato sul lavoro, mise la vita degli altri davanti alla sua. Midas sentì una spinta sgarbata da dietro e cadde sul marciapiedi, con la sua borsa da lavoro accanto. Nel mezzo della strada il corpo martoriato e inerte di suo genero.
Non era riuscito a fare nulla, si era seduto sul marciapiedi e lo aveva guardato, fermo, finché non erano arrivate la polizia e l’ambulanza, inutili entrambe. Frederick era già morto e il colpevole non fu mai trovato.
Kathryn urlò di dolore per giorni, ma ciò che la distrusse davvero fu l’odio per suo padre; suo padre senza il quale Frederick sarebbe stato ancora lì con lei, suo padre che non si riprendeva dallo shock, e passava le giornate in cucina, a guardare dalla finestra la strada, a contare le macchina che passavano.
Midas non recuperò mai, fu trasferito in un ospedale psichiatrico nella periferia di New York, dove Kathryn gli faceva visita una volta a settimana, e pochi colleghi andavano a portare cioccolatini e altri inutili regali, imbarazzati per la sua situazione.
Tommy, così, era cresciuto, non solo senza un padre, ma anche senza un nonno.
L’arrivo di David avrebbe dovuto cambiare le cose, o almeno così Kathryn aveva sperato, ma si era rivelata invece una delusione; l’ennesima delusione, proprio come quelle cipolle piene di fertilizzanti che non sapevano di nulla.
 
 
Isabelle picchiettò con la forchetta sull’uovo che stava cuocendo in padella, indecisa se fosse già ben cotto e pronto per essere mangiato o se lasciarlo sul fuoco ancora un poco. Con uno sbuffo si lasciò cadere su una seggiola della cucina, gettando la testa all’indietro e massaggiandosi le tempie; aveva una forte emicrania, e non c’era da stupirsi, dato che aveva passato la giornata a fissare il computer in attesa di una risposta da Mr. Gold, aggiornando la pagina della posta in arrivo ogni 5 minuti.
Aveva scritto quella mail di getto, senza pensare troppo ai termini più appropriati, cercando di andare dritta al punto, evitando i giri di parole, e, dopo averla frettolosamente riletta, aveva premuto invio, tirando un sospiro di sollievo. Dopo, però, più il tempo passava, più la ragazza iniziava a chiedersi se non fosse stata troppo precipitosa, se avesse utilizzato o meno gli appellativi giusti, se non avrebbe dovuto utilizzare più formule. Nel rileggerla le venne quasi da vomitare, ma chi l’aveva scritta quella dannatissima e-mail, un analfabeta? Senz’altro il famoso avvocato aveva pensato questo, l’aveva letta, riletta per riderci su e poi cestinata con una punta di disgusto, senza neanche degnarla di una risposta.
Era andata così, ormai Isabelle ne era certa, e così si era bruciata l’unica concreta possibilità di aiuto, l’unica che avrebbe spaventato suo padre almeno un poco, l’unica che avrebbe potuto intimorire la potente famiglia di Gaston, i Delacroix.
Non che lei odiasse Gaston, solo non lo capiva, come poteva volerla sposare se non era innamorato di lei? Di questo Isabelle era certa, sapeva riconoscere uno sguardo innamorato, e quello del giocatore di lacrosse più acclamato della NYU non era certo uno di quelli.
Forse Gaston si accontentava che lei fosse carina, tutto lì, un po’ superficiale ma pratico; Isabelle arricciò il naso, lei non si sarebbe mai accontentata di nulla, di questo era certa. Voleva trovare il grande amore, quello che riempiva ogni istante, voleva un uomo che la capisse nel profondo, che cogliesse ogni sfumatura di lei e la amasse, che condividesse le sue passioni, che la proteggesse, ma al tempo stesso la spingesse a crescere, che la rendesse ogni giorno migliore e che la facesse sentire desiderata ogni giorno.
Ma non voleva solo il grande amore dalla vita, voleva anche il lavoro dei suoi sogni. Isabelle aveva sempre desiderato essere una giornalista; scrivere era la sua passione, ed era anche piuttosto brava (o almeno, aveva creduto di esserlo finché non aveva riletto per la diciassettesima volta quella benedetta e-mail). Ma suo padre non aveva i soldi per mandarla in una scuola seria, e così si doveva accontentare di corsi serali di scrittura, che si pagava da sola facendo la cameriera 4 giorni a settimana. Poco male, un giorno i suoi sogni si sarebbero avverati senz’altro.
Suo padre si sbagliava quando diceva che chi nasce in basso non muore in alto, si sbagliava di grosso, come, del resto, in molte altre delle sue convinzioni.
Isabelle fece una smorfia e guardò disgustata il suo uovo carbonizzato. In una cosa suo padre di certo non sbagliava, quando affermava che non aveva mai visto una donna più imbranata di lei ai fornelli
 
 
 
L’ora di pranzo era già passata da un pezzo quando Jefferson decise di concedersi una pausa sigaretta per allontanarsi dal persistente odore di ammoniaca che si era diffuso nella stanza; si sedette sui gradini dell’entrata di servizio dell’immenso palazzo e tirò fuori l’accendino dalla tasca dei jeans. Se lo rigirò un po’ tra le mani, assaporando il ricordo che ne derivava. Quell’accendino banale, arancione, oramai consumato per l’eccessivo utilizzo era l’unico ricordo dell’”uomo delle pulizie” di sua figlia Grace. La piccola Grace, che gli era stata strappata quando aveva solo cinque anni da quegli uomini orribili. Jefferson si ritrovò a sentir vibrare ancora le sue mani, al ricordo di quell’evento, che aveva segnato in modo così terribile la sua vita.
Prima che i servizi sociali decidessero che l’uomo di pulizie era “inadatto a prendersi cura della figlia”, la vita di Jefferson Hatter non era comunque stata facile. Cresciuto in estrema povertà, con un padre più dietro alle sbarre che a casa con la famiglia, aveva trovato la felicità solo nell’amore di Alice, la figlia minore della ricchissima famiglia per la quale lavorava come autista. Un amore folle, lo avrebbe definito con una punta di amarezza alcuni anni dopo. Alice aveva dovuto affrontare la famiglia e difendere il suo amore da tutto e da tutti, ottenendo infine solo l’allontanamento totale di suo padre e l’esclusione dall’eredità.
Nonostante i problemi finanziari la coppia non avrebbe potuto essere più felice, si sposarono in una piccola chiesetta con pochi amici intimi e l’anziana madre di Jefferson, a soli vent’anni, e iniziarono una meravigliosa vita insieme, il cui prodotto fu precisamente la piccola Grace.
Proprio quando le cose sembravano andare per il verso giusto tutto precipitò.
Una mattina Jefferson tornò a casa per pranzo, dopo una mattinata passata in un cantiere vicino a casa loro, dove aveva trovato impiego come muratore. Appena entrato percepì uno strano silenzio, lievemente inquietante, e subito dopo iniziò a sentire una leggera sinfonia, come una canzoncina registrata su un disco. L’unico problema era che casa Hatter non aveva registratori o tanto meno radio. La canzoncina proveniva, infatti, dalle labbra di Alice, che Jefferson trovò seduta in sala, ferma a fissare la finestra. La ragazza non si scompose al suo arrivo, rimase anzi immobile, continuando nella sua performance musicale; suo marito, a quel punto decisamente preoccupato, iniziò a scuoterla in modo deciso, ma l’unica risposta che ricevette fu uno sguardo sconcertato e stupito da parte della ragazza. Jefferson da quel momento in poi aveva solo ricordi confusi della giornata, ricordava di averle urlato “Alice! Alice, dov’è Grace, dov’è Grace??” e di essere corso a cercarla per tutta la casa, finché non l’aveva trovata nella vasca da bagno, mentre annaspava per rimanere a galla. Da lì in poi il vuoto.
Anni di psicologi, servizi sociali, lotte interne che Jefferson aveva dovuto sopportare, tra il ricordo di sua moglie e l’amore per sua figlia. Alla fine il secondo aveva avuto la meglio, e il folle amore era andato perduto.
Senza soldi, senza lavoro e con una casa al limite della decenza, già tenuto sotto controllo dai servizi sociali, non c’era voluto molto perché Jefferson stesso fosse ritenuto inadatto alla piccola, che già aveva avuto un’infanzia così difficile. La separazione era stata straziante e, soprattutto, presto definitiva, dato che, poco dopo aver perso Grace , Jefferson era stato trovato più volte ubriaco dai sevizi sociali e aveva perso anche il diritto a tenersi in contatto con sua figlia e a vederla una volta alla settimana.
Così Jefferson Hatter era passato dall’essere un uomo con una meravigliosa vita davanti ad uno che non ha più nulla da perdere.
 
 
 
Nella sala d’aspetto di un ospedale si possono trovare i casi umani più interessanti, di questo, il Dottor Whale, primario del Boston Medical Center, era sempre stato convinto. La gente pensa che al pronto soccorso arrivi solo chi ha davvero bisogno di cure, di aiuto, chi è disperato, ma non è affatto così; più spesso sono i paranoici, i depressi, i pazzi, che affollano quello che dovrebbe essere uno spazio riservato a chi soffre.
Whale si guardò intorno annoiato, vide Mr. Smooth, ipocondriaco con i fiocchi, che al primo taglietto da carta che riportava, correva all’ospedale; il primario pensava spesso che si fosse innamorato di una delle infermiere, o le sue continue visite all’ospedale non trovavano una risposta razionale.
Si stava abbottonando velocemente il camice, pronto a rientrare nel suo studio, quando il suo sguardo si posò casualmente su una ragazza che definire bella sarebbe stato un eufemismo. Lunghi capelli corvini incorniciavano un viso dalla dolcezza disarmante, fisico mozzafiato e grandi occhi azzurri come il mare. A Whale parve di non aver mai visto qualcosa di così bello in tutta la sua vita e gli ci vollero alcuni istanti per riprendersi del tutto dalla visione contemplativa.
“Dottore, c’è un paziente che la aspetta nello studio, gli dico di andare da Lawrence?”
“C-cosa? No…no arrivo subito, gli dica di attendere solo un istante”
“Bene” l’infermiera si allontanò ciabattando.
“Scusi signorina, posso esserle utile?”
Ruby alzò lo sguardo verso di lui. Non si era sbagliato, aveva davvero due occhi stupendi.
“Oh, grazie, io ho solo bisogno di qualcuno che prescriva a mia nonna le medicine per l’asma, dovevo passare oggi dal medico ma mi sono dimenticata e se torno a casa senza, la nonna mi strozza!”
“Sono sicuro che lei è un po’ melodrammatica, quello che mi chiede comunque è vagamente illegale…”
“Oh, lo sapevo, mai dritta una, e ora come faccio? A chi le chiedo queste benedette medicine?”
Ruby borbottava da sola e a Whale le parole uscirono da sole, senza che lui l’avesse voluto.
“Se mi promette che non ne farà parola con nessuno posso tentare di recuperarle una scatoletta, ma solo una”
“Sarebbe più che sufficiente! Lei è il mio salvatore!”
“Faccio solo il mio dovere, che consiste anche nell’impedire che giovani fanciulle vengano strozzate da nonne con problemi d’asma”
“Davvero?” Ruby lanciò al primario un’occhiata incerta.
“Ma certo, è scritto nel giuramento di Ippocrate, ora, se vuole seguirmi nel mio studio…”
“Non so chi sia questo ipocrita ma gli sono davvero, davvero grata!” Esclamò la ragazza alzandosi “e sono grata anche a lei, dottor…?”
“Whale”
“Mi chiamo Ruby” gli tese la mano con un largo sorriso sul viso
“è davvero un bel nome, sa? Non l’avevo mai sentito prima…”
“Oh, non è molto usato, mia madre l’aveva scelto perché adorava i rubini, non che potesse permetterseli, ma sa, rappresentano il vero amore, e lei era molto romantica…”
“Vorrei anch’io un’origine così poetica per il mio nome, ma temo che Viktor fosse semplicemente il nome di uno dei miei nonni…”
“Bè ma anche questo è molto dolce…” azzardò Ruby.
“Non direbbe così se avesse conosciuto mio nonno” il dottore le lanciò un sorrisetto di sottecchi e lei gli sorrise di rimando, rimanendo poi in silenzio.
Con un cenno della mano le fece strada verso il suo studio, vagando con la mente alla ricerca di una frase brillante e interessante con qui stupire la fanciulla al suo fianco.
Finalmente l’illuminazione arrivò mentre apriva la porta cavalleresco. “E, miss Ruby, sa…”
“Oh, dottore, temevo si fosse perso! Mi dica, secondo lei questa scottatura potrebbe causarmi danni permanenti? Sa, si sentono certe cose al giorno d’oggi, non vorrei mai….lei è l’unico dottore di cui mi fido ciecamente!”
Whale si trovò a fissare il signor Smooth con un sorriso forzato, mentre Ruby soffocava una risatina tossendo educatamente.
Cogliere l’attimo, Victor, cogliere l’attimo. Come diavolo aveva fatto a dimenticarsi di aver spedito Mr. Smooth nel suo studio?
“Ora la controllo subito, Mr. Smooth, solo un secondo che devo consegnare un pacchetto alla signorina…”
“Oh, ma certo, ma certo, non faccia aspettare la sua fidanzata!”
“No, guardi noi..”
“La ringrazio signor Smooth, lei è sempre così gentile, Victor mi parla molto bene di lei…” si intromise Ruby, mentre il dottore la guardava scioccato.
Whale si girò verso lo scaffaletto delle medicine, impiegando senz’altro più tempo del necessario; selezionata la scatoletta si rivolse a Ruby, ancora lievemente imbarazzato.
“Oh, ehm, Ruby vieni ti accompagno all’uscita…un attimo e sono subito da lei Mr. Smooth.”
“Faccia con comodo dottore! L’amore non aspetta”
Ruby stavolta non si curò di nascondere la sua ilarità, mentre Whale si chiese se era possibile arrossire come un sedicenne a 35 anni suonati.
Allontanatisi dalla porta Whale prese parola
“Scusi, ma come le è saltato in mente di dire davanti a Smooth che siamo fidanzati? È un pettegolo per di più…”
“Si fidi, dottore, sarebbe stato peggio lasciarlo nel dubbio con i suoi sospetti, non le avrebbe dato tregua. Invece così si limiterà a chiederle se la sua fidanzata sta bene”
“Ma..”
“E non si preoccupi, starò bene” e strizzando l’occhio la bella mora se ne andò divertita e sentendo lo sguardo del dottore ancora su di lei.
Poi, a metà strada.
“Ah, dottore!”
“Sì?”
“Grazie!”
“Oh, prego.. è stato un piacere”
Whale la guardò allontanarsi, pensando che mai si sarebbe immaginato fidanzato di una ragazza così. Poi si riscosse e rientrò in studio.
“Allora Mr. Smooth, cosa diceva di quella scottatura?
“Ma dottore, dove l’ha conosciuta? E perché mai non me ne ha parlato prima? Era ora che ci fosse una donna nella sua vita”
Victor Whale tirò un sospiro.
Ruby e le sue maledette teorie.
 
 
La voglia di lavorare l’aveva già abbandonata da un pezzo quando Ashley alzò lo sguardo verso l’orologio appeso al muro per la cinquantottesima volta, e con stupore e gioia realizzò che era finalmente arrivato il momento di recuperare la giacca e andare dritta a casa.
Fece capolino nell’ufficio del capo, che aveva lavorato senza interruzioni per 10 ore piene e tossendo attirò la sua attenzione, o meglio, attirò uno sguardo che non si curava di nascondere il fastidio per essere stato distratto dalle sue faccende.
“Mr. Gold, sono le sei e mezza, io andrei, le serve qualcosa?”
“No, non mi serve niente, ma si porti via quella rosa, che in ufficio marcisce e puzza e veda di essere puntuale domattina”
“Certo Mr. Gold, a domani”
Non appena la signorina Boyd lasciò il palazzo Gold ne approfittò per alzarsi e sgranchirsi le gambe. Si avvicinò alla finestra del suo lussuoso ufficio, dalla quale si godeva di una spettacolare vista su tutta la città, e si godette il tramonto in santa pace. Quelli erano i momenti che preferiva, da solo a godersi la calma di un ufficio silenzioso.
Tornò al computer per sistemare le ultime faccende, quando si accorse di non aver risposto alla signorina French, troppo preso dalle telefonate e dagli appuntamenti della giornata.
La rilesse rapidamente, rifletté un secondo e compose rapidamente la risposta.
“Gentile Miss. French,
avendo letto attentamente la sua e-mail, ritengo giusto fissare un appuntamento per discutere i dettagli del suo caso, e decidere insieme se e come proseguire, e, inoltre, rendere chiari i miei standard di parcella.
Si presenti nel mio ufficio per le 14:30 di domani, o mi avvisi in tempi brevi della sua indisponibilità.
Cordiali saluti.
Mr. Gold”
 
 
Alle ore 19:07 Robert Gold inviò la sopracitata mail, spense il computer e chiuse l’ufficio, dirigendosi poi verso casa, di poco fuori Boston, a velocità sostenuta all’interno della sua Cadillac nera, rischiando di investire una ragazzina incosciente che attraversava la strada senza guardare.
 
 
 
Alle ore 19:06 Belle French chiuse la posta elettronica e il computer, ripromettendosi di non controllarla più per un’intera settimana e rinunciando definitivamente a ogni speranza. Uscì di casa per andare a fare le ultime compere e per poco non fu messa sotto da un pirata della strada in Cadillac nera.

 
 
 
 
 
NOTE: ok, questo è il mio primo tentativo di AU e non ho idea di come sia il risultato…fatemi sapere se fa schifo o se è accettabile. L’idea è di farne una long, spero di riuscire a incastrare parecchi intrecci. I personaggi principali saranno questi, ma nei prossimi capitoli ne appariranno anche altri. …
Le coppie saranno Rumbelle (of course!), Frankenwolf, Snowing (ci tocca!) e svariate altre che non anticipo.
Se  lasciate uan recensione mi rendete tanto felice :)
Alla prossima!
  
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