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Autore: Thebrightsideofthemoon    05/01/2014    1 recensioni
One shot post Reichenbach sul mio personale, immaginario, surreale e inutilmente sperato fino all'ultimo - Moffat, che il karma ti si ritorca contro - incontro fra Sherlock e John. Un filino Johnlock, appena appena. John non vuole più saperne di Sherlock (o probabilmente è troppo orgoglioso per ammettere a se stesso il contrario): riuscirà quest'ultimo a farsi perdonare?
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Pizzico pigramente le corde del violino. Pupille dilatate, battito accelerato: sto pensando a John. Mi ha cacciato via; non vuole più vedermi, parole sue. Dice di stargli lontano, di non avvicinarmi mai più né a lui né a Mary, il suo nuovo passatempo, di farmi da parte, come ho fatto in questi ultimi tre anni. Nulla di più, nulla di meno. Allora sono tornato a Baker Street, nonostante ci sia un odore persistente di chiuso e di solitudine. Vedrò di farmelo piacere…

Era paonazzo, gli occhi quasi serrati, le parole che faticavano ad uscire ma, quando riuscivano ad affiorare, tagliavano più di una pioggia di lame affilate dalla pietra d’Astrakan. E mentre il nubifragio di insulti e vituperi mi trafiggeva, inclemente, io restavo inerme alla sua mercé. Pupille dilatate, battito accelerato: cercavo John, quello che avevo lasciato tre anni prima, e davanti avevo solo un perfetto sconosciuto.

Il violino va accordato, prevedibile. Distorce i suoni in una melodia che ha ben poco a che fare con il concetto di orecchiabilità. La casa è un concerto di scricchiolii sinistri; non si direbbe mai che sia stata abitata e vissuta – intensamente, aggiungerei io – per quasi due anni interi. Ho trascorso a Baker Street i miei mesi, i miei momenti migliori. La vita mi ha sorriso per diciotto, interminabili lune: dopodiché mi ha chiesto il conto più salato che avessi la facoltà di immaginare, il prezzo della felicità. E io, forse pazzo, forse semplicemente vigliacco, non ho esitato a pagare, ignorando il fatto che, dopotutto, fossero gli altri a farlo per me attraverso le conseguenze.

Mi alzo, metto su il tè. Il rumore dell’acqua portata ad ebollizione nel ventre basso del boiler si aggiunge alla sinfonia. Apro fugacemente il frigo e la voce della coscienza si fa strada nella mia testa: “Il latte, Sherlock Holmes, lo hai dimenticato di nuovo”. Frugo nella dispensa e riesco a riesumare da una coltre di polvere una tazza sbeccata, lesa da chissà quale incidente di percorso. La trovo molto simile a me in questo momento e, così, decido di utilizzarla. Istintivamente, cerco una seconda tazza: la ripulisco con un canovaccio che ha più buchi che tessuto, ormai, e la adagio sul vassoio, in attesa. Poi, una volta riempita la teiera, ritorno in salone e poggio il tutto sul piccolo tavolino da caffè, accanto alle poltrone.

Ritorno al violino: devo assolutamente lucidarlo. Lo imbraccio ancora una volta e sento il legno gravare sulla spalla, come se non si adattasse più ad essa. E’ così tanto che non suono; le note fioriscono a fatica sulle corde, ancor più faticosamente si staccano da esse e si lanciano in volo libero nell’aria. Nonostante le dissonanze dello strumento, che si diverte sadicamente a farmi sentire in colpa per averlo abbandonato per così tanto tempo – anche lui -, riesco a distinguere perfettamente lo scatto che fa la chiave nella serratura del portone d’ingresso del 221 e la porta che si apre e si chiude, accompagnata e seguita dai passi di qualcuno che sale lentamente le scale, verso i piani superiori. Continuo a suonare per non destare sospetti, per non lasciare intendere di aver sentito alcun rumore. Pupille dilatate, battito accelerato: la porta dell’appartamento si apre appena, per poi richiudersi dietro di John.

Sospiro. Riconoscerei i suoi passi tra quelli di mille altri. Senza voltarmi, indico con l’archetto il tè, ancora fumante, sul vassoio. Lascia cadere le chiavi nella tazza, in tutta risposta.

“Sono venuto per restituirtele” – si schiarisce la voce prima di parlare, è nervoso.

“Ti ringrazio” – lo sono anche io.

“Prego… Naturalmente mi sembra inutile sottolineare ancora che-“

“-io non debba più farmi vedere in giro; ho afferrato il concetto John, forte e chiaro”

“Bene” – si ferma per un attimo – “Brillante come sempre”

“Lo credi davvero?” – mi viene istintivo domandarlo, non so nemmeno il perché. Forse cerco di nuovo la sua approvazione, non mi rassegno al fatto di averla persa per sempre. Un altro silenzio è la risposta che ricevo. Intanto non ho ancora il coraggio di guardarlo, continuo a trincerarmi dietro la mia schiena, dietro le mie deduzioni da quattro soldi, i miei trucchi da prestigiatore senza pubblico.

“Guardami”
John sta diventando più bravo di me ad indovinare i pensieri che si celano dietro le persone.

“Voltati, per Dio”
Mi volto, ma continuo a tenere gli occhi bassi, come in attesa della punizione divina. E arriva, eccome:  un pugno in pieno viso. E non figuratamente, in senso più che letterale.

Barcollo, indietreggiando leggermente; in uno sprazzo di lucidità riesco a portarmi la mano al naso e constato che sanguino, in maniera abbastanza copiosa, peraltro. Mi frugo nelle tasche della giacca e cerco un fazzoletto, senza successo. La mano mi è diventata rossa, sino al polso. Si è macchiato perfino l’orlo della camicia, fino ad un secondo prima di un bianco niveo. La vista offuscata dalle mie stesse lacrime mi impedisce di sincerarmi dello stato attuale di John: sta bene? Continuo a sbattere le palpebre, nel disperato tentativo di vedere più chiaramente. Lui è in piedi, di fronte a me: si tiene il polso, come se pesasse, come se fosse incandescente. E’ sconvolto.
Mi avvicino, sprezzante del pericolo. Potrebbe colpirmi ancora, lo facesse. Se servisse a cancellare il dolore, a lenire le ferite che gli ho lasciato impresse, a cicatrizzare quel maledetto senso di colpa. A disinfettare la solitudine che lo divora, che lo dilania a brandelli, membro a membro. Solleva di nuovo il pugno, come monito: io non ho paura. Mi avvicino e aspetto, senza parlare. Lo guardo crollare e ricostruirsi dentro, un paio di volte, indeciso sul da farsi. Poi crolla, definitivamente.

Sulle ginocchia, la linea dell’orizzonte si abbassa: tutto sembra irrimediabilmente più grande di te, il mondo assume dimensioni pachidermiche e tutto quello che puoi fare per piegarlo, per farlo convergere verso di te, è piangere. E John piange. Mi abbasso anche io: probabilmente i nostri visi non sono stati mai così vicini. Riesco a sentire i suoi singhiozzi, a percepire il tremore che lo sconquassa nelle viscere, come il peggiore dei temporali mai caduti sulla terra. Mi scopro ad appoggiare dolcemente la mia fronte sulla sua: il contatto più intimo che io abbia mai avuto con qualcuno. Vado oltre: strofino il naso contro la sua guancia e non riesco a trovare in me il principio delle mie stesse azioni. John trema e io mi sento un salvatore mancato.

“Va tutto bene” – sussurro, per niente convinto. Non va bene nulla, io sto ancora sanguinando, lui sanguina dentro e sta per sposarsi. Ma ho sentito dire che è questo che si dice, in genere. Le chiamano “frasi di circostanza”. Cerco il suo pugno, ancora serrato: lo stringo fra le mie mani, per fargli capire che sono lì, e può picchiarmi ancora se ne ha voglia. Può ridurmi uno straccio se crede, se può farlo sentire meglio:  io non lo fermerò.

“Come hai potuto?”
Picchiami, è più facile. Non a parole, è tutto così difficile se iniziamo ad usarle.
La sua guancia è sporca del mio sangue; continuo ad aggiungere dolore su dolore, segni su segni.

“Ho dovuto”
Sorride amaramente.

“Ah sì?”

“Sì”
Scuote la testa.

“E ora credi di poter tornare così, come se nulla fosse, e spiegarmi nei minimi dettagli come tu abbia fatto a simulare la morte e quanto sia stato brillante il tuo piano?”

Mi afferra per il collo, stringendo la presa. Sono già morto per te una volta, John, non ho paura di farlo ancora.

“Sei solo un egoista”
Avvicina il suo sguardo pieno di rabbia al mio, sento il suo odio penetrarmi dentro, nelle ossa. Sento persino freddo, mentre la morsa alla gola continua a serrarsi, sempre più saldamente.

“Sei solo uno stupido egoista, egocentrico, menefreghista. Io ti odio Sherlock Holmes, e maledico cento, mille volte il momento in cui sei entrato a far parte della mia vita!

Le labbra di John si scagliano sulle mie con violenza. Il suo bacio sa di sangue e lacrime, dolore e tristezza. Nostalgia, un retrogusto amaro. La sua bocca si dischiude impetuosamente, mentre il mio corpo risponde gettandosi verso di lui, liberandosi dalla stretta al collo. Non ho mai baciato nessuno, sto imparando ora. Ho trent’anni, non ho mai avuto una ragazza né un ragazzo e adesso sto baciando il mio migliore amico, lo stesso che qualche anno fa ho salvato, saltando dal tetto di un ospedale, dal mirino di un cecchino assoldato dalla mia personale nemesi . Razionalizzo: la realtà sembra quasi divertente. John, intanto, continua a premere forte le sue labbra contro le mie, ad opporre resistenza. Mi sento una ragazzina alle prese con le sue prime pulsioni, con i suoi primi scompensi ormonali. Brucia tutto: il naso, il basso ventre. Le labbra, neanche a parlarne, sono violacee. Saranno passati dei minuti, ormai: minuti in apnea, senza un filo d’aria filtrato dai polmoni. Mi allontano improvvisamente dal suo volto, come ripresomi da un momento di debolezza.

L’ho baciato.
L’ho fatto, Dio mi perdoni, e potrei rifarlo altre infinite volte, senza pentirmene mai.

Ma è John, non una persona qualunque. Non potrei sopportare di fargli ancora del male.

“Va’ da Mary, John” – metto a tacere il cuore e l’orgoglio, solo lei può guarirlo adesso.

“Questa è anche casa mia, fino a prova contraria”

“Ti starà cercando…”

“Vorrà dire che non mi troverà”

“John” – parlo contro il mio interesse, le parole mi escono di bocca senza che abbia realmente percezione del loro significato – “dimenticami. Chiuditi quella stramaledettissima porta alle spalle e dimentica questo sociopatico come il mondo ha imparato a fare dopo la sua presunta morte. Dimentica il sangue nelle vene, l’adrenalina in circolo, la vita all’insegna del pericolo sulle tracce dei criminali più spietati. Smettila di ferirti, smettila di permettermelo. Io non sarò mai capace di guarirti”.

“Sono un medico, so riconoscere la mia medicina”

Io non sono un medico: la mia medicina è sempre stata la soluzione al sette percento, l’eroina pura. Per parafrasare qualcuno, sono un egocentrico, un egoista, un menefreghista. Forse ignoro – o meglio, mi impongo di ignorare - alcune cose, come la teoria eliocentrica o il fatto che al mondo esistano sei miliardi di persone: eppure una di esse rimane il nord dell’ago della mia bussola, nonostante non abbia ancora imparato come amarla. E, forse, non ne sarò mai capace, se non a modo mio.
 





Tu credi che l’amore sia un mistero per me, Mycroft. Io credo non lo sia solo per me; comunque, penso di esserci molto vicino. E se la mia deduzione è corretta, tolto l’impossibile, tutto ciò che è improbabile, seppure tale, deve essere addotto come possibile. -SH
 
   
 
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