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Autore: LaMicheCoria    06/01/2014    2 recensioni
Le scarpe sollevano un soffio asmatico di polvere mente si china a sollevare il tappetino d’ingresso: al di sotto degli intrecci e dei viticci, gli sorride garrula una chiave tutta denti.
E’ stato scettico, la prima volta. Perché nasconderla lì? Sotto gli occhi di tutti?
Si fidi di me ride una voce insolente Sotto gli occhi di tutti equivale a dire dove nessuno va mai a guardare.
[Clint/Coulson] [A Gosa e Alley]
Genere: Introspettivo, Slice of life, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Agente Phil Coulson
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: I personaggi non mi appartengono
Ma sono di proprietà della Marvel ©

 

 

 

 

 

Alla mia Coulson e alla mia mogliaH
Perché voglio loro un mondo di bene.

 

 

 

 

 

Do You Ever Get Homesick?

 

 

 

What did I miss?
Do you ever get homesick?

 

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Quando finalmente arriva al pianerottolo e lascia andare il borsone, è come un peso che gli abbandona il petto. Può tornare a respirare, ora, la mano stretta al torace s’è allentata, va tutto bene.
Le scarpe sollevano un soffio asmatico di polvere mente si china a sollevare il tappetino d’ingresso: al di sotto degli intrecci e dei viticci, gli sorride garrula una chiave tutta denti.
E’ stato scettico, la prima volta. Perché nasconderla lì? Sotto gli occhi di tutti? Si fidi di me ride una voce insolente Sotto gli occhi di tutti equivale a dire dove nessuno va mai a guardare.
La serratura cigola, gnèèèk, la porta fa un po’ di resistenza, il buio borbotta per l’intrusione inaspettata. Un filamento di luce macchia di grigio e di ferro il corridoio d’entrata, c’è odore di chiuso, lezzo di solitudine a tappare finestre e vetri. Le tende schermano il mondo all’esterno, ma quella cappa che sa di prigionia non lo disturba: ha ben altro cui pensare.

Abbiamo dato una sistemata gli ricorda Maria e le sue parole gli si affiancano, chiude la soglia con un magistrale colpo di tacco, supera l’ingresso, abbandona le borse davanti alla cucina, ecco la camera, si toglie la giacca del completo, il fantasma della Hill si guarda intorno, socchiude un po’ le palpebre, storce appena il naso Non sapevo ti piacesse la carta da parati.
Infatti la odia, si dice, nell’allentare la cravatta con due dita, o meglio, gli piaceva prima che si dimostrasse un ottimo bersaglio in cui conficcare le frecce. Una, due, tre, cinque, sette, dieci asticelle perfettamente allineate sopra la testiera del letto, così sappiamo dove lanciare i vestiti preda dell’impeto della passione! e ora le pareti sono così vuote, appiccicaticce di PVC viola, soffocano, stanno male, sono così fetide così sotto gli occhi di tutti.

Sotto gli occhi di tutti equivale a dire dove nessuno va mai a guardare ed è semplice trovare la bolla d’aria in cui infilare le dita, ed è semplice tirare con la voce che si sgretola in un verso soffocato, ed è semplice imputare il rigagnolo sullo zigomo a mero sudore.
Non ci vuole molto prima che la parete sia completamente libera, ma è sempre e comunque troppo presto. I resti della carta da parati s’ammonticchiano, inutili, in un tremito balbuziente, si rintanano, rincantucciano in se stesse come scolaro che sa di aver fatto qualcosa, oh sì, qualcosa di male, non mi punisca, non mi punisca, la prego, Non mi punisca, sarò buono, la smetterò di nascondere le cuspidi in frigo, ma la prego non mi punisca facendomi vedere Sixteen and Pregnant! non è colpa mia, è stato lui, lui a voler nascondere ogni cosa, lui a metterlo sotto gli occhi di tutti perché non fosse visto da nessuno.
Ci sono striature rosse, spartiti di dolore e note di pianto, incavarsi di pugni, straccetti di pelle imbevuti di sangue rappreso come trofei penzolanti e penduli, attaccatisi ai rostri di pittura per la troppo veemenza, per i troppi colpi, sempre gli stessi, sempre ripetuti, sempre, sempre, sempre.
Disegna ogni piega, ogni ansa a punta di dita, preme i polpastrelli sui segni delle nocche, li affonda nella parete quasi a volerci passare attraverso, a renderli propri, a condividerne la disperazione, a farsene carico, ma ha le falangi grosse, troppo grosse, Le mie sono dita da pianista, ne ha mai viste di più belle?
Il palmo aderisce completamente al muro, si graffia, aggiunge sangue nuovo a vecchi tormenti, vorrebbe solo lavarli via, curarli e curarlo, Lei è la mia cura.
Il fiato sgroppa e rotola in gola, guaisce, ulula, latra, peccato che lui non abbia aperto bocca. Non serve. Ci sono suoni che vanno oltre le parole, che esplodono più a fondo del petto. Ha solo bisogno d’acqua, forse, potrebbe aver inalato polvere o resti di pittura secca, può succedere. Può capitare. C’è della muffa, potrebbe aver respirato anche quella.
Forse è muffa, sì, considera, e la cucina lo accoglie con un surrogato di luce bianca d’ospedale, o forse è solo lui ad essere diventato asettico, ad essere diventato bianco, bianco come quel cordone cicatriziale che gli attraversa a saetta il costato. Deve mangiare qualcosa, prima di crollare, il frigo dall’esterno pare ben pasciuto, dentro c’è qualcosa, ne è sicuro, non è mai vuoto, non lo è mai stato, Così almeno può mangiare qualcosa di decente quando torna dalle missioni. Tutte quelle ciambelline stanno facendo effetto, vede? Proprio qui, al girovita.
Apre lo sportello, hanno staccato la spina. Giusto. Non serve. Chi paga le bollette, altrimenti? Non si pagano da sole, Potrei allestire uno spettacolino per i vicini, che dice? quindi perché tenerlo acceso? Non ci sarà nulla dentro, avranno pensato, stacchiamo solo la spina.
Invece, eccoli lì. Ammonticchiati, accatastati alla rinfusa, adesso, perché troppi, troppi, ne sono stati infilati dentro a forza, non c’è più posto, non ce n’è più. Tutti coperti di peluria pallida, verdastra, enfi, malarici, dolci e arrosti e pasta e hamburger e pizza, tutti lì, giorno dopo giorno, per colazione, pranzo, cena, giorno dopo giorno, intoccati, chi doveva toccarli non è più tornato, è morto, dicono. Caduto in battaglia, hanno scritto e spifferato ai quattro venti perché li portassero oltre i sette mari. C’è chi non si arreso, chi ha continuato a negare, le prove sono lì, sono sotto gli occhi di tutti.

Sotto gli occhi di tutti equivale a dire dove nessuno va mai a guardare, forse è meglio andarsene, non ha più niente da fare. La casa è vuota, ora che non c’è nessuno ad attenderlo. Almeno lui, di questo, è stato avvertito, lo hanno avvisato, sapeva cosa aspettarsi, Non potevamo informarlo e c’è una crepa, nella voce di Maria Lo abbiamo degradato a Livello Sei dopo l’affare Loki. Livelli, ogni cosa si basa sui livelli, è l’ordine, è la gerarchia del vivere Negazione Rabbia Patteggiamento Depressione Accettazione la gerarchia dell’autodistruzione.
Apre la porta, la luce è aspra, gratta gli occhi, conficca troppa realtà nella mente distorta e fiacca, immobile come ogni cosa, in quell’appartamento in cui non è rimasto nemmeno il ricordo. I defunti non hanno ricordi, hanno solo non-morti a ricordarsi di loro, con biglietti e corone, grida e pugni, lacrime e insonnia.
…O un biglietto, anche, come quello nella ciotola porta-chiavi sul mobiletto d’ingresso. Un rettangolo, una busta, ecco cos’è, e pesa sul palmo, Phil scritto a lettere viola sul retro.
Non sa cosa aspettarsi, nessuno lo ha avvertito di una busta e persino l’Agente Hill tace. È smarrita, sono smarriti entrambi, poi, quando dalla busta fuoriesce una chiave, una sola, e un cartoncino, Bedford Stuyvesant, sempre in viola, Non faccia tardi.
Ed è la speranza, quella, nascosta in una piccola busta in un appartamento abbandonato, senza ricordi se non il dolore, se non l’ossessione, se non la preghiera.
La speranza, così. Sotto gli occhi di tutti.

«Sotto gli occhi di tutti equivale a dire dove nessuno va mai a guardare.»
«A meno che tu non sappia dove cercare, Clint.»
«…Touché, signore.»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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