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Autore: Arte84    17/01/2014    3 recensioni
Acri, anno del Signore 1187.
"Il mio nome è Martìn de Clissou e sono un cavaliere templare."
Vita e formazione di Martìn: da figlio cadetto a cavaliere templare, dai campi profumati di Provenza alla brulla Acri, dove, all'alba dello scontro con Salah al-Din, gli occhi neri di una fanciulla metteranno a dura prova un'incrollabile fede.
**Questa storia ha partecipato al Contest “OscarsEFPiani 2014” indetto da Frandra ottenendo una Nomination come Miglior Documentario (storia di genere storico o con almeno un avvertimento fra avventura, guerra e storico, dalle 500 parole in su)**
Genere: Introspettivo, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Medioevo
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N.d.A. I personaggi di questa storia (a parte Geràrd di Ridefort e Salah al-Din) sono frutto della mia immaginazione. I fatti storici di riferimento, invece, sono reali. Questa One Shot non ha presunzione di ricostruzione storica e/o documentaria dei fatti accaduti, per cui se vengono individuati errori ed imprecisioni mi scuso.
La mia storia nasce per un po' per caso, nel mio continuo interesse delle vicende dei singoli coinvolti in eventi più grandi.
Ulteriori e brevissime informazioni, si trovano alla fine della storia.
Grazie!

 

Acri, Anno del Signore 1187.

Il mio nome è Martìn de Clissou e sono un cavaliere templare.

Sono nato e cresciuto in Provenza, nella Francia sud orientale, in un piccolo castello di un prospero feudo, punteggiato di pascoli verdi e campi di grano, lavanda e rosmarino. Mio padre era un nobile feudatario, anche se appartenente ad un casato minore. Da cavaliere, aveva servito e combattuto per re Luigi VII, detto il Giovane. Era il mio eroe: un uomo alto e dal fisico maestoso, capace di maneggiare la spada come uno spiedo per l'arrosto.
Io e mio fratello maggiore, fin da piccoli gareggiavamo su chi di noi due fosse stato capace di tenere in pugno la sua spada. Avevamo dovuto cominciare a preparare i muscoli delle braccia fin da bambini, anche solo per poterne alzare la punta acuminata da terra.
Nostro padre era un uomo dal temperamento rude e testardo, ma era anche saggio ed intelligente, che trattava con severa indulgenza noi figli. 
Di mia madre, invece, ho pochi ricordi: una voce gentile, calda e melodiosa, le mani dalle dita lunghe e bianche, i capelli scuri e gli occhi chiari, il profumo di sapone che aveva addosso quando mi stringeva. 
Solo questo. Morì che io ero piccolo, dando alla luce una bambina, nata morta. Però fu lei ad insegnarmi a scrivere il mio nome, questo lo ricordo bene; a detta di molti, teneva che i suoi figli venissero istruiti nelle lettere. Credo che sia stato per merito suo che, sia io che mio fratello, abbiamo imparato a leggere e a scrivere. 
Quando fui in grado di leggere senza l'aiuto di un precettore, cominciai a sfogliare le Sacre Scritture. Ne ero affascinato. 
Anche la vita monastica mi affascinava. Nel feudo che apparteneva a mio padre, vi si trovava un'antica abbazia, abitata da monaci. Osservavo rapito questi santi uomini cantare le lodi nelle messe di Pasqua, Pentecoste e Natale, che aiutavano i poveri e le vedove senza chiedere nulla in cambio, che coltivavano un piccolo campo per il proprio sostentamento. Mi scoprii, in più di un'occasione, a desiderare di essere come loro.
Riuscii spesso ad aiutare i monaci, facendo qualche commissione per loro conto. Amavo rendermi utile alle persone, e mi presero in simpatia; più li conoscevo, più la mia aspirazione a quella vita si faceva strada nel mio animo.
Molti, laici e religiosi che fossero, nell'arco della mia esistenza, mi hanno parlato della cosiddetta "chiamata": un evento come un sogno o un qualcosa di particolare che accade nella vita e che illumina la mente, il cuore e l'anima e proietta il proprio essere verso Nostro Signore, fino a decidere che tutto ciò che si vuol fare negli anni futuri è servirLo e servire gli altri e cantare le sue lodi.
Io non posso dire di aver mai avuto la "chiamata" o di aver vissuto un qualche accadimento che gettasse luce sulla mia fede. L'idea di quel tipo di vita la percepivo come già insita in me da molto tempo, forse da quando sono nato. Era come se esistesse solo quello e che fosse l'unica via possibile da percorrere per me. Da un certo punto di vista, la mia poteva essere considerata una reale vocazione. 
Assieme a mio fratello Jean Baptiste, tuttavia, fui addestrato sin da bambino all'uso delle armi. Secondo la legge del maggiorascato, una volta cresciuto, non avrei potuto ereditare il titolo, il castello e le terre di mio padre, che invece sarebbero andate a mio fratello. 
Vista la mia abilità nel combattere, mio padre non volle seguire i consigli di chi gli suggeriva di fare un grosso donativo ad un monastero per consacrarmi alla vita monastica. Con mia grande delusione, decise, invece, di farmi diventare cavaliere, ritenendomi più utile al servizio di Jean Baptiste che a quello di Dio. 
Come da tradizione, quando compii quattordici anni, divenni scudiero e fui messo al servizio di mio cugino Etienne, al seguito di un ricco nobile, imparentato con il re: da lui, oltre che a combattere a piedi e a cavallo, imparai molte cose, ad esempio come provvedere alla mia cavalcatura e come andava custodito l'equipaggiamento militare. 
Da lui imparai anche ciò che, nel caso fossi diventato cavaliere a mia volta, non sarei mai voluto essere: tronfio, arrogante e crudele, incline alle risse d'osteria e al vino, spaccone con le nobildonne e cinico con le prostitute nei bordelli. 
Lui era così, cioè l'esatto contrario dell'ideale romantico di cavaliere. In fondo non mi trattava male, tranne quando si ubriacava: allora per me era conveniente stargli lontano il più possibile. Lo imparai a mie spese quando, col fiato rancido di vino, cominciò a prendermi a bastonate senza un motivo, rompendomi il polso sinistro. 
Fu un periodo molto difficile, sia dal punto di vista fisico che di quello morale, e spesso avevo pensato che realmente la vita monastica fosse quella più adatta alla mia indole. Ero un ragazzo tranquillo, posato e ben voluto da tutti; in fondo mi piaceva combattere, ma ero consapevole di quanto fosse ingiusto togliere la vita ad un uomo, persino in guerra. Ebbi l'occasione, tempo dopo, di parlarne con mio padre; mi ascoltò ma lui fu irremovibile. 
"Diventerai un cavaliere" mi disse "Quando sarà il momento, tuo fratello avrà bisogno di un soldato ben addestrato, non di un religioso". 
Nonostante tutto resistetti, senza mai smettere di leggere le Scritture e di pregare. 
Ricordo ancora la notte precedente alla mia investitura, passata nella cappella del castello a pregare, inginocchiato sulla pietra dura e gelida, dopo essermi lavato e rasato. 
Era maggio ed era la vigilia di Pentecoste. Benchè l'arrivo dell'estate fosse imminente, le spesse mura di pietra avevano mantenuto l'ambiente buio e freddo. Battei i denti per tutta la notte, senza smettere di recitare le mie preghiere. All'alba mi sollevai a fatica in piedi, con le gambe che non smettevano di tremarmi per lo sforzo. 
Mi fu permesso di indossare degli abiti ed un mantello nuovi e, nella grande sala del castello di famiglia, il sacerdote benedisse me e la mia spada, affilata e lucidata per l'occasione, dono di mio fratello. Ricordo lo sguardo orgoglioso di mio padre, invecchiato anzitempo. 
Mi inginocchiai ancora, stavolta davanti a mio cugino Etienne. 
"In nome di Dio, di San Michele e di San Giorgio, ti faccio cavaliere" sentenziò. 
Mi posò di piatto la lama della sua spada su entrambe le spalle. Io sollevai gli occhi e lo vidi sogghignare. Mi affibbiò un ceffone così violento che dovetti far leva sulle gambe già indolenzite per non cadere all'indietro. 
Così, a ventuno anni divenni cavaliere. 
Ma io volevo essere qualcosa di più.
Mio padre morì qualche mese più tardi ed io, al servizio di Jean Baptiste, tra le battute di caccia e i periodici controlli nei territori del feudo, mi sentii stretto in una morsa, mi sentii inutile. Avrei voluto qualcosa che mi desse la forza di vivere una vita che valesse la pena di essere vissuta. Qualcosa che mi desse la possibilità di aiutare gli altri e di pregare, così come facevano i monaci dell'abbazia del feudo.
Fu così che decisi di diventare un cavaliere templare.
Grazie all'intervento dell'abate dell'abbazia, che mi conosceva da quando ero solo un bambino, la mia domanda venne vagliata dal Consiglio dell'Ordine Templare e accettata in breve tempo. Ero il figlio di un ricco e nobile cavaliere che a suo tempo era stato molto stimato alla corte del re; inoltre avevo sempre avuto una condotta pia e non avevo subito scomuniche.
Giurai al cospetto del Maestro dell'Ordine e presi i voti monastici di povertà, castità ed obbedienza, ai quali, per noi monaci guerrieri, si aggiungeva un quarto: "stare in armi".
Mi furono tagliati i capelli, che portavo lunghi sulle orecchie, e fui completamente rasato della corta barbetta che mi ero fatto crescere. Cedetti i miei pochi beni, tranne il mio cavallo, la spada e la cintura a cui era appesa. Indossai la tunica bianca con la croce rossa e un mantello nero, tra i borbottii del fratello drappiere che provvedeva al vestiario dei templari. Aveva dovuto allungare ed allargare gli abiti che mi erano stati assegnati per adattarli alla mia taglia, visto che ero il più alto e fisicamente più imponente tra i novizi, caratteristiche ereditate da mio padre.
Mi sentii realizzato, completo, felice, carico di una nuova energia. Ero un cavaliere, così come avevo imparato ad essere, ed ero un monaco, così come desideravo diventare.
Jean Baptiste si rammaricò non poco: "Ti perdo, fratello".
"Combatterò e ti ricorderò ogni giorno nelle mie preghiere".
Mi diede una pacca sulla spalla: "Ed io nelle mie. Abbi cura di te".
Salutai mio fratello e partii per i luoghi che mi venivano assegnati. Servii dapprima in Francia, poi nel sud Italia. Ad appena ventiquattro anni, avevo avuto la fortuna di viaggiare molto, come cavaliere e monaco: esisteva un mondo intero oltre i profumati campi di lavanda della Provenza, ed era un mondo meraviglioso, per il quale ringraziai il Signore per avermi dato la possibilità di vederlo.
Poi partii per Cipro, fino a quando non ricevetti l'ordine di recarmi in Terrasanta.
La gioia che provai in cuor mio quando vidi le mura di Gerusalemme e i luoghi abitati dal Cristo fu immensa.
Dopo poco, fui trasferito ad Acri: era una città vasta e pulsante di vita, affacciata sul mare. Vivevo nella comunità templare assieme ai miei confratelli, dove le giornate passavano tra le veglie di preghiera, i turni di guardia o pattugliamento, le liturgie, i pasti, le letture e l'assistenza e la protezione dei cristiani.
Era tutto ciò che volevo essere, tutto ciò che volevo fare. Come cavaliere e come monaco, non ero più servo di me stesso, ma di Dio e degli altri. Non c'era cosa più nobile e bella che ci potesse essere nella vita di un uomo.
Ma Dio decise di mettermi alla prova.
Ero di pattuglia ad uno dei grandi pozzi della città con un mio confratello, quando la vidi.
Fu come se una forza potente e sconosciuta mi immobilizzasse, senza possibilità di scampo.
Presso il pozzo della città, posai lo sguardo in quello di una fanciulla.
Due perle nere e lucenti incrociarono i miei occhi, in un istante che si dilatò all'infinito e mi parve essere eterno.
Durò appena il tempo di un battito di cuore, eppure vidi tutto: i capelli neri, lunghi e lucenti, come l'ala di un corvo, l'ovale perfetto del viso, la pelle del colore delle ambre orientali.
La bocca rosea e dolce si arcuò in un sorriso. Sorrise a me, che ero un monaco. Il mio stomaco si contrasse e il mio cuore sobbalzò con uno spasimo violento.
Il mio confratello era concentrato nel pattugliamento e non s'accorse di niente. Rimasi profondamente incredulo di quanto mi era successo.
Quando ero ancora solo uno scudiero, mi era capitato di imbattermi nei piaceri della carne; all'inizio per curiosità, poi per esigenza, così come sosteneva mio cugino Etienne.
"Gli uomini forti e vigorosi come noi, Martìn" mi aveva detto una volta, durante uno dei suoi rari momenti di confidenza "hanno esigenze da soddisfare. Devono farsi la moglie per avere una discendenza e devono farsi le puttane per divertimento. L'importante è appagarsi quando se ne sente l'esigenza, sia che lo si fa per dovere, sia che lo si fa per piacere. Anche tutte le notti, se necessario!".
Durante la giovinezza avevo sfogato le mie esigenze e le mie voglie con alcune fanciulle. Ragazze semplici e graziose, che abitavano nei luoghi che visitavo con Etienne, quando serviva il suo signore. Un paio tra loro erano arrivate a dire persino che si erano innamorate di me.
Io mi ero soddisfatto sopra e dentro di loro; avevo anche nutrito affetto per qualcuna che era rimasta qualche giorno di più nei miei pensieri.
Ma una volta che la mia esigenza si era estinta, si dissipava anche il mio interesse verso di loro e verso ciò che avevo fatto in quei lassi di tempo. Era un piacere passeggero e inconsistente, che durava qualche istante e che mi lasciava, il più delle volte, indifferente.
Mi ripromisi, però, che se un giorno mi fossi sposato, avrei amato la mia donna. Lei e soltanto lei.   
La mia vocazione mi aveva sposato a Cristo e alla Chiesa e li amavo incondizionatamente. Ero felice ed appagato perché, in fondo, avevo mantenuto la promessa. Una volta nutrito di un po' di cibo e acqua, il mio corpo non aveva bisogno di nessun'altra esigenza che non fosse quella di pregare. Nessun piacere fisico pagava la stessa felicità di servire il Signore.
E ora, a distanza di anni, gli occhi ed il sorriso di una fanciulla, che abitava una terra santa, logorata dalle guerre e dal sangue degli uomini, erano stati capaci di farmi vacillare.
Il mio animo rimase inquieto, fino a quando, quel giorno stesso, mi inginocchiai da penitente davanti al Gran Maestro dell'Ordine, Geràrd de Ridefort.
"Ho peccato e devo essere punito".
Il viso rude e spigoloso del Maestro, percorso da sottili rughe, si contrasse in una smorfia sorpresa: "Cosa hai fatto, fratello Martìn?".
"Ho fissato il volto di una donna. Ho peccato".
Geràrd si accigliò: "Sei un monaco e, secondo la nostra regola, fissare lungamente i volti femminili è cosa pericolosa" sentenziò "per cui, ora che ti sei pentito, farai voto di silenzio per tre giorni e ti nutrirai a pane e acqua per altrettanti giorni".
Non aprii più bocca, digiunai e pregai per espiare il mio peccato per i tre giorni stabiliti.
Una notte di fine inverno, fui assegnato di presidio alle mura di Acri.
La fanciulla del pozzo era là, come se mi stesse aspettando. Mi guardai attorno, ma non c'era nessun altro. Fui tentato di scappare, ma dovevo adempiere al mio dovere. Feci leva sulla mia forza di volontà e pregai, mentre cominciavo il mio giro di ronda. La fanciulla rimase nello stesso punto, seduta sul bianco rudere di un capitello antico, senza badare a me.
Ebbi la sensazione che, da lontano, mi stesse osservando, ma doveva essere solo un'impressione. Che sciocco che ero stato a pensare, anche per un solo istante, che stesse aspettando me! Perché mai avrebbe dovuto farlo? E perché avevo pensato ad una cosa del genere?
Se si trovava lì era sicuramente per un caso fortuito. Magari aspettava qualcun altro, il suo amante forse, vista la tarda ora...
Un giro, due giri: lei era sempre lì, come in attesa. Al termine del terzo giro, quando la luna era già alta nel cielo, mi venne incontro. Mi bloccai e abbassai gli occhi. Pensai di continuare a camminare e di superarla, come se niente fosse, ma le mie gambe si rifiutarono di muoversi. Lei si fermò davanti a me. Era giovane e minuta; mi arrivava appena alla spalla.
La sentì sorridere e istintivamente sollevai la testa a guardarla. Alla luce della luna, le perle nere degli occhi mi sembrarono ancora più lucenti e brillanti.
Con un dito indicò sé stessa: "Mihrimah" disse.
Poi col dito indicò me.
"Martìn" risposi d'improvviso.
Mi morsi la lingua, finché non sentii dolore.
Capivo solo poche parole della lingua che si parlava in quelle terre dalla gente che le abitava, e poche ne sapevo dire io. Ma ciò che lei disse lo capii, parola per parola: "Non ho mai visto un uomo con gli occhi del colore del mare".
Mi sorrise ancora e andò via.
Feci voto di silenzio e di digiuno a pane e acqua per un'altra settimana, sotto lo sguardo indifferente dei miei confratelli.
Con l'arrivo della primavera, arrivarono notizie preoccupanti da Damasco e Mossul, città oramai assoggettate agli infedeli. Salah al-Din stava riunendo un numeroso esercito a nord del regno di Gerusalemme, mentre le armate di suo figlio, al-Afdal, mettevano sotto assedio Tiberiade.
Il Gran Maestro, che nel frattempo si trovava alla guarnigione di Qaqun, aveva radunato un piccolo contingente di miei confratelli.
Nello scontro che avvenne a Cresson agli inizi di maggio, solo Gerard de Ridefort sopravvisse.
Molti di quei cavalieri che avevano combattuto valorosamente li conoscevo. Piansi e pregai per le loro anime.
Da allora, il tempo era trascorso in un costante stato di tensione, fino a quando non ricevemmo l'ordine di mobilitarci.
Non avevo più rivisto la fanciulla di nome Mihrimah e ringraziai il Cielo. Pregai per lei. E pregai per me, chiedendo di rendere la mia forza di volontà più forte e ferma perché, dalla notte in cui mi aveva rivolto la parola, mi ero reso conto irrazionalmente di cercarla con lo sguardo ogniqualvolta ero di guardia alle mura.
Lei pareva essersi dileguata e, nonostante tutto, me ne sentii profondamente sollevato.
Che fosse stata un'opera del diavolo per tentarmi e mettermi alla prova?
Era fine giugno, la penultima notte che rimanevo ad Acri prima di partire con l'esercito, che la rividi.
Come quando mi aveva rivelato il suo nome, ero di ronda notturna, da solo, e lei era seduta sul capitello romano, con le mani raccolte in grembo. L'aria era calda e secca e il candido disco della luna mandava bagliori sulla vasta e scura distesa del mare.
Non appena mi accorsi della sua silenziosa presenza, lei si girò e mi vide. Mi sorrise. Si alzò in piedi e mi fece segno di seguirla. Il mio corpo fu scosso da un sobbalzo, come se avessi ricevuto un pugno. Avvertii la tensione artigliarmi lo stomaco in una morsa.
Decisi che dovevo voltarmi e andar via, di percorrere la direzione opposta a quella in cui si era avviata lei. Non so per quanto tempo rimasi così, fermo ed immobile, se istanti o interi minuti. Alla fine mi mossi, contravvenendo alla mia decisione.
Voltai l'angolo delle mura e la vidi poco oltre, che entrava in un piccolo ambiente a volta, il cui tetto era crollato per metà.
Quella piccola stanza veniva in genere adibita a deposito, ma quella sera era vuota; entrai, eppure non vidi Mihrimah.
Una mano mi afferrò per un braccio e mi tirò debolmente dietro al muretto. Istintivamente, portai la mano all'elsa della spada, ma la fanciulla posò la sua mano sulla mia a fermarmi. Una mano sorprendentemente piccola e delicata.
La guardai. Il chiarore della luna che penetrava dal tetto semi crollato irradiava dei lievi riflessi argentei tra i suoi capelli, scuri come il cielo notturno. Le iridi nere degli occhi brillavano, profonde ed insondabili. Mi accorsi che stavo trattenendo il respiro.
A gesti e con qualche parola di cui riuscii comprendere il significato, mi chiese se fossi dovuto partire anche io assieme a tutti quei soldati, radunati sotto le mura della città.
Io feci sì con la testa e il suo sguardo si fece triste. Feci per andarmene ma lei mi bloccò.
"Non posso rimanere qua, da solo, con te. Lo capisci questo?" tentai di dire, infastidito.
"Volevo rivedere i tuoi occhi del colore del mare" mi rispose.
Mi prese una mano tra le sue e, al centro del palmo, mi posò un laccetto di cuoio, sfilacciato alle estremità, a cui era appesa una croce di ferro: due semplici e corti bastoncelli di metallo scuro e consunto.
Mi venne improvvisamente da sorriderle e lei mi richiuse la mano a pugno, a stringere il piccolo e prezioso dono. Sembrò felice di vedermi sorridere e strinse le delicate dita attorno alla mia mano.
"Ti proteggerà. Pregherò per te" mi disse.
"Grazie" mormorai.
Rimanemmo a fissarci per un lungo istante. Non riuscivo a staccare i miei occhi dai suoi, trovando una sorta di strano conforto in quella stretta piccola e calda.
Mihrimah fece un passo avanti e si sollevai sulla punta dei piedi. Io mi piegai su di lei.
Le sue labbra, fresche e morbide, si posarono sulle mie che tremavano. Le assaggiai: erano tenere e zuccherine, della stessa consistenza della polpa dei datteri maturi.
Irrazionalmente, aprii la bocca e lei rispose, schiudendo la sua, come la corolla di un fiore che sboccia in primavera. La punta della sua lingua incontrò la mia e il mio cuore mancò di un battito. Mi gettò le braccia al collo e io la circondai con le mie.
Persi ogni cognizione di buon senso, lucidità e dovere in quel bacio, mentre tenevo stretto a me il corpo fragile e tiepido di quella fanciulla sconosciuta, di cui sapevo solo il nome.
Il bacio, da timido ed incerto, divenne profondo e possessivo, ma me ne resi conto solo quando affondai una mano tra i capelli lisci e setosi di Mihrimah per afferrarli quasi con forza.
Mi staccai dalla bocca di lei a fatica, con un singulto, ancora stretti l'uno all'altra. Mihrimah riaprì gli occhi e, anche nella penombra, la vidi arrossire.
Ero scosso dai brividi; sentii il tremore fin nelle ossa e nell'anima.
Lei si sciolse lentamente dal mio abbraccio e si portò una mano all'altezza del cuore. Poi riposò la mano al centro del mio petto, sulla tunica bianca con la croce rossa cucita.
"Tornerai?" mi domandò.
"Tornerò" bisbigliai. Lo feci così piano che quasi temetti che lei non mi avesse sentito.
La mano di Mihrimah, dal mio petto, si sollevò sulla mia guancia, a lasciami una carezza.
"Ti aspetterò".
Mi sorrise e i suoi occhi intensi tremolarono, come la superfice del mare quando viene sfiorata dalla brezza. Mi sentii annaspare senza fiato, in quel mare.
Fece un passo indietro, senza smettere di guardarmi, poi fuggì via, lasciandomi agitato e ansimante, irrimediabilmente sconvolto.
Rimasi a fissare il muro diroccato difronte a me per un tempo infinito, con la piccola croce di ferro stretta nella mano.
Cosa avevo fatto?
Questa domanda cominciò a ronzarmi nella mente; fu appena un sussurro impercettibile. Il sussurro divenne una voce, alta, chiara e squillante, che improvvisamente si mise ad urlare.
Uscii dal deposito col tetto crollato, percorsi il camminamento di ronda due, tre, quattro volte, senza fermarmi, strofinando tra le dita la croce di metallo. Le mie gambe camminavano irrequiete avanti ed indietro, compiendo grossi passi. La voce che mi poneva la domanda era sempre lì, nella mia testa, costante.
Al sesto girò, tornai alla guarnigione e mi rifugiai nella piccola cappella del presidio templare. Davanti all'altare, caddi in ginocchio, sbattendo contro il pavimento di pietra, e cominciai a pregare.
Pregai senza seguire un senso, ripetendo meccanicamente le formule latine che conoscevo a memoria fin da bambino. La voce si acquetò ed anche il mio bisbiglìo.
Mi ero macchiato di un grave peccato che, se avessi confessato o - peggio - si fosse venuto a sapere, mi sarebbe costato l'espulsione dall'Ordine dei cavalieri templari.
Mai mi era accaduta una cosa del genere. Mai ero venuto meno ai miei voti. Mai, nel passato, il bacio di una donna mi aveva scatenato tante e tali sensazioni. Sollevai gli occhi all'altare e alla grande croce di legno, appesa al muro di calce grezza.
"Perché?" chiesi.
E se la vita che stavo conducendo non fosse quella a cui il Signore mi aveva destinato?
Un simile pensiero mi turbò.
Che il mio volere non combaciasse con quello di Dio?
Chi aveva ispirato le mie decisioni? Dio, o la mia presunzione di voler diventare qualcosa che desideravo, peccando di superbia?
Pregai che mi fosse data una risposta, che mi si indicasse la via da percorrere. Strinsi nella mano la piccola croce di ferro. Strinsi così tanto che avvertii il metallo farsi spazio nella mia carne.
"Fammi capire" dissi.
Passarono ore intere, immerse nel silenzio. Cominciai a disperare che le risposte ai miei quesiti non mi sarebbero mai state rivelate.
L'alba illuminò col suo chiarore l'ambiente ed un rovente raggio di sole arrivò fino a dove ero inginocchiato. Aprii la mano a guardare il dono di Mihrimah, che mi aveva lasciato un solco rossastro al centro del palmo.
Ciò che avrei potuto fare mi si palesò davanti agli occhi, vivido e chiaro. E non era ciò che avrei voluto fare io, ma ciò che mi veniva suggerito. La voce che mi aveva urlato nella testa, incessantemente, sulle mura di Acri, mi ammonì dolcemente.
Tramite la sua guida, compresi.
Avevo detto a Mihrimah che sarei tornato. E così avrei fatto. Avrei vinto contro Salah al-Din, difendendo il Regno di Gerusalemme dagli infedeli, e poi avrei confessato il mio peccato, chiedendo al Consiglio di uscire dall'Ordine. Avrei smesso gli abiti di monaco templare per tornare ad essere un semplice cavaliere.
Soprattutto, avrei preso Mihrimah con me. L'avrei portata nella mia terra, in Provenza, da mio fratello, per rimettermi al suo servizio e al servizio della gente del feudo, così come avevo fatto già nelle vesti di religioso. Avrei aiutato i monaci dell'abbazia, continuando a pregare e a cantare le lodi al Signore, come avevo fatto da ragazzino. Sarei stato un buon cavaliere cristiano, anche senza le vesti di un monaco. Saremmo stati felici, io e Mihrimah.
Chiesi perdono per aver infranto il mio voto e pregai e ringraziai.
Allargai le braccia e, rivolto alla croce di legno, recitai il motto dei cavalieri templari: "Non nobis, Domine, non nobis, sed nomini Tuo da gloriam"*.
Il mio cuore sussultò di gioia.

Quella mattina di inizio luglio era afosa e umida e i gabbiani stridevano nel cielo azzurro. Assieme al Gran Maestro ed ai miei confratelli, montai a cavallo per unirmi all'esercito che avrebbe combattuto contro Salah al-Din.
La popolazione di Acri ci guardò con timore ed era quello l'effetto che dovevamo suscitare nei nostri nemici: ottanta cavalieri templari in pieno assetto di guerra potevano scatenare sgomento in qualsiasi esercito ben addestrato.
Sollevai distrattamente lo sguardo in direzione delle mura e mi parve di intravedere Mihirmah mentre faceva un breve cenno della mano nella mia direzione. Guardai meglio e la vidi scendere di corsa le scale che portavano alla porta della città, da cui stava uscendo il resto dell'esercito. Si fermò poco lontano e mi regalò il sorriso più bello che avessi mai visto in vita mia. Avvertii le lacrime pungermi sulle ciglia.
Ricambiai il sorriso, portandomi la destra al petto. Al di sopra della cotta di maglia, il suo dono premeva contro la stoffa della tunica bianca; ne sentii chiari i contorni con l'indice.
Lei annuì e mi fece un gesto di saluto.
Indossai l'elmo e, al primo ordine, partii al galoppo.


Corni di Hattin, 4 luglio 1187.

La sabbia mi gratta in gola e negli occhi ed è rovente sotto le mie ginocchia piegate.
Ho sete.
Tanta sete.
Qualcosa di caldo e appiccicoso mi scorre lungo il braccio sinistro. Forse gocciola per terra, ma non ne sono sicuro, perché non ho più sensibilità nella mano. Le dita si rifiutano di muoversi.
Respiro a pieni polmoni cercando di allontanare dalle narici il fetore della morte che mi aleggia attorno.
Una catastrofe.
Ho visto tantissimi soldati e molti dei miei confratelli morire uno dopo l'altro, durante le continue sortite dei soldati di Salah al-Din, il giorno prima della battaglia.
Avevamo marciato sotto il sole incandescente, in pieno giorno. La mia pelle brucia ancora lì dove era a contatto con l'armatura rovente.
Il nemico ci aveva sorpreso accerchiando il nostro accampamento ai Corni di Hattin e aveva bloccato l'unica via d'accesso all'acqua. Eravamo stati costretti a dividerci fino all'ultima goccia dell'acqua che avevamo con noi, diventata bollente e putrida.
Avevamo sete.
Mi umetto le labbra screpolate, assaporando il sapore ferroso del mio stesso sangue sulla lingua. Ho sete.
Non ci siamo arresi. Abbiamo ingaggiato battaglia.
Ho visto la reliquia della Vera Croce andare distrutta. Un'atroce fitta di dolore mista a cieca rabbia mi era penetrata nel petto a pungolarmi il cuore, nel vederla cadere nelle mani degli infedeli.
Avevo gridato al cielo, mentre caricavo i nemici con i miei confratelli.
Un disastro.
Che questa sia stata la punizione di Dio per il mio peccato?
Perché aveva castigato anche i miei compagni, invece di condannare solo me?
No. Questa era la Sua volontà sin dall'inizio.
Prego per l'anima dei miei genitori. Prego per mio fratello e per mio cugino. Prego per i monaci dell'abbazia e per i miei confratelli uccisi.
Prego per Mihrimah.

Un guerriero dalla pelle brunita dal sole mi si pone difronte e dice qualcosa nella sua lingua ma non lo capisco. Forse mi domanda qualcosa. Lo guardo, faccio no con la testa e lui mi rivolge un ghigno, scoprendo denti neri e marci.
Solleva la sua spada dalla lama ricurva. Il sole riflette sull'acciaio affilato la sua luce, abbagliandomi.
Chiudo gli occhi e li vedo. Perle nere e brillanti, sorridenti, che mi guardano. Che mi aspettano, ma che aspetteranno invano. Sorrido anche io, tra le lacrime che sento scorrere tra la polvere attaccata alle mie guance.
Che il Signore abbia pietà di me e della mia anima.

 

 

*Non a noi, Signore, non a noi, ma al Tuo nome da gloria

N.d.A. La battaglia di Hattin o ai Corni di Hattin (i corni fanno riferimento a delle particolari conformazioni rocciose presenti in quella zona) avvenne il 4 luglio 1187. I crociati, per decisioni sbagliate e a causa del caldo e della mancanza d'acqua, subirono una pesante sconfitta contro l'esercito del Saladino, che di lì a poco riconquisterà Gerusalemme.
Nella battaglia, tutti i cavalieri Templari e quelli appartenenti all'Ordine degli Ospitalieri che non erano morti nello scontro, vennero fatti prigionieri ed uccisi.
Pare che alla fine della battaglia, il Saladino perse la sua proverbiale magnanimità e, nel condannare a morte i cavalieri prigionieri, disse: "Intendo purificare la terra da questi due ordini mostruosi, dediti a pratiche insensate, i quali non rinunzieranno mai all'ostilità, non hanno alcun valore come schiavi e rappresentano quanto di peggio vi sia nella razza degli infedeli".

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