Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: Luce Lawliet    20/01/2014    8 recensioni
[ Contiene spoiler della terza stagione. ]
" Arriverà sempre un momento in cui avremo bisogno di Sherlock Holmes. "
" Se questa è un'espressione di amore familiare... "
" Non sia ridicolo! Non sono guidato dall'amore fraterno... sa cos'è accaduto all'altra. "
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Sherlock conosce ogni particolare della vita di John.
Per John, invece, Sherlock è un profondo scrigno di segreti. Tuttavia, in seguito alla morte di Magnussen, il consulente investigativo decide di raccontare al suo migliore amico una parte della sua vita che non ha mai rivelato a nessuno.
Genere: Angst, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro personaggio, Jim Moriarty, John Watson, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Nota: Se ho scritto questa one-shot potete incolpare solo Mycroft, e quella sua ambigua frase: " Remember what happened to the other one. " Non tenendo conto di com'è stata tradotta in italiano, ho giocato sul suo possibile significato.


                                                                                         

                                                                                                         T H E   U N S A I D.


 

" Arriverà sempre un momento in cui avremo bisogno di Sherlock Holmes. "
" Se questa è un'espressione di amore familiare... "
" Non sia ridicolo! Non sono guidato dall'amore fraterno... sa cos'è accaduto all'altra. "
[ cit. da Sherlock 3x03- his last vow ]





 

St. Bart's, Londra. Ore 21.39


 

" Sherlock...? Sherlock? Riesci a sentirmi? "
Non ne è sicuro... ci riesce?
Forse sì.
Qualcosa preme contro il suo sterno, è duro, pesante, e man mano che la sua attenzione si focalizza su quel peso opprimente, si rende conto che non solo lo infastidisce, ma che gli sta anche impedendo di respirare.
Redbeard.
Il pensiero gli attraversa la mente con la rapidità di un flash; perché quello stupido cane è andato ad accucciarsi proprio sopra di lui?
" Infermiera, potrebbe abbassare la dose di morfina? "
Eccola, la stessa voce di prima.
Cosa sta dicendo? Abbassare la morfina...?
Sherlock prova a prendere fiato per parlare, quando un mugolio sofferente risveglia di dolore tutto il suo corpo e per la seconda volta si trova ad inveire contro Redbeard.
Si trova in ospedale, questo è riuscito a dedurlo. Avverte, inconfondibile, l'odore dei medicinali, di disinfettante e di oggetti sterilizzati.
E qualcos'altro. Qualcosa che stona decisamente con qualsiasi altro odore attorno a lui, qualcosa di piacevolmente familiare che al momento rappresenta l'unico motivo per cui il sapere di trovarsi immobile, sdraiato in uno scomodo letto d'ospedale, non lo mette nel panico.
" Ma devo parlargli! Solo un minuto, è importante. "
" Signore, gliel'ha già detto anche il dottore. Il paziente non è ancora del tutto fuori pericolo, al momento l'unica cosa di cui ha bisogno è riposare. "
" Anch'io sono un dottore! " replica di nuovo quella voce, a quanto pare proclive a oltrepassare la soglia della pazienza " Lui è il mio miglior amico, e gli hanno sparato! Non vado da nessuna parte finché non gli parlo. "
" Come preferisce. Non si aspetti però che rimanga cosciente a lungo, è ancora troppo debole. Tornerò tra dieci minuti per cambiare la flebo."
" Grazie. "
Un rumore di passi e lo scatto di una porta che si chiude dolcemente.
" L'hai avuta vinta tu... " riesce finalmente a biascicare Sherlock, nel momento in cui percepisce l'odore di John farsi più intenso, segno che si è avvicinato di nuovo.
" Oh mio Dio, Sherlock... "
Com'è rassicurante la sua voce. Sherlock spera che continui a parlare, non importa cosa dica. Ha bisogno di qualcosa di concreto che lo trattenga lì, in quel presente doloroso ma reale, in modo che non precipiti più in quell'oscuro limbo che è diventato il suo palazzo mentale nelle ultime dieci ore. Come un tunnel senza uscita. Il peggiore di tutti i suoi incubi.
" John, togli... " la voce di Sherlock è debole, affaticata, mentre cerca di puntellare i gomiti al materasso in un ridicolo tentativo di tirarsi su. " Redbeard... "
" No, no, no, no, no! Sherlock. Non pensarci neanche, sei sotto l'effetto della morfina. Non muoverti. "
" Redbeard. "
" Cosa? "
" Redbeard, John! " finalmente apre gli occhi. La debole luce al neon della lampada lasciata accesa sul comodino bianco di fianco al letto è abbastanza accecante da indurlo a chiudere le palpebre, ma il detective si sforza con tutto se stesso per non farlo; dov'è John?
" Toglimi il cane di dosso. Dai, sbrigati. Mi sta soffocando. "
Improvvisamente, il viso di John gli appare più chiaro che mai, davanti ai suoi occhi. Non gli sfugge la più piccola ruga su quella pelle abbronzata, i corti capelli spettinati, probabilmente vittime delle mani che in quelle ultime ore li avevano torturati senza pietà; le occhiaie evidenti, lo sguardo preoccupato.
Dura solo un momento, però. Perché così com'è apparsa, l'immagine si fa sfocata, minacciando di svanire nell'oscurità che da un momento all'altro giungerà a reclamarlo di nuovo, trascinandolo nel limbo.
Il solo pensiero basta a disgustarlo e serra con forza le palpebre, mentre le sue dita stringono convulsamente le lenzuola ruvide.
" Tranquillo, Sherlock " John lo osserva con preoccupazione, celata sotto un'esperta attenzione professionale " Ci sono io. Non devi stancarti. Sei al sicuro adesso, va tutto bene."
" Manda via il cane, John. Ora non sono in vena di coccole. "
" Sherlock, non c'è nessun cane nella stanza. "
Gli occhi del detective si spalancano.
" Dillo ancora. "
" Non ci sono cani; Sherlock...? Forse l'infermiera ha ragione, è meglio se... "
" Ma lo sento! È proprio qui, è... "
Quando si sfiora l'addome con la mano, il dolore esplode con la forza di un ordigno, e il consulente investigativo non grida solo perché non ha abbastanza energie per farlo.
John si affretta ad allontanargli la mano, tenendolo per le braccia e rassicurandolo, ancora.
" Ascoltami, ascolta. Ti hanno sparato, hai rischiato di andare sotto shock. È normale che tu sia disorientato, non avere paura. Resterò qui, stanotte. "
Nel momento in cui le sue dita avevano accarezzato le garze, Sherlock ha intuito che John aveva ragione; non era il suo cane a togliergli l'aria, erano le fasciature che gli stringevano il corpo, laddove il proiettile aveva perforato il polmone.
Non era il suo cane.
Non sarebbe stato comunque possibile.
Tuttavia, sarebbe stato carino se John gli avesse concesso l'illusione... che potesse essere vero. Solo per quella volta.
L'istante dopo comprende di non poter incolpare John. Lui non è nemmeno a conoscenza di quella storia. Nessuno lo sa. Eccetto Mycroft, ovviamente.


Resterò qui, stanotte.

 

Vorrebbe dirgli di andarsene a casa, dovrebbe dirgli che tutte queste dimostrazioni d'affetto, questi sentimenti, non serviranno a farlo guarire più in fretta... ma la verità è un'altra, e fa male.

Resterò qui, stanotte.


Oh, John. Se solo sapessi chi è la donna con cui condividi il letto ogni notte...

Resterò qui.

" Grazie, John. " è tutto ciò che riesce a sussurrare, prima di risprofondare nel buio.

                                                   

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Norfolk. Diciannove anni prima.

" È pronto! Myke, vai a chiamare tuo fratello, tesoro. "
" Perché? Non potresti gridare a squarciagola contro il pavimento? Ti sentirà sicuramente. "
" Mycroft! "
" Uffa! Vado. "
Il maggiore degli Holmes si vide costretto a lasciare il libro a faccia in giù contro la poltrona su cui era rimasto comodamente seduto negli ultimi quarantacinque minuti a leggere per obbedire alla madre, dirigendosi svogliatamente in cantina.
Si erano trasferiti da una settimana in quella nuova casa, nel bel mezzo della campagna umida e uggiosa. Un paradiso verde, così lo chiamava la mamma, il giusto premio dopo un'intera vita dedicata alla matematica e alla crescita di tre figli. Ora era giunto il momento di un po' di riposo, anche per lei.
Mycroft non aveva fatto salti di gioia; per lui significava solo che avrebbe dovuto concludere il suo ultimo anno in un nuovo liceo, ma a parte questo la cosa non lo aveva scombussolato.
Sherlock, dal canto suo, aveva fatto il diavolo a quattro. Ritirarsi a vivere in un posto sperduto, tranquillo e silenzioso, nel bel mezzo del nulla era troppo anche per i suoi standard da sociopatico. Certo, il problema nasceva se ci infilavi un "iperattivo" alla fine; cosa avrebbe potuto fare in un posto del genere? Tenere la mente occupata si sarebbe rivelata una bella sfida, almeno fino a settembre, con l'inizio della scuola.
Ma quella che più di tutti era rimasta sconvolta, era Cale.
Lei e i suoi nove anni e mezzo erano davvero difficili da gestire, principalmente perché, a differenza dei suoi fratelli, lei il cervello lo usava ben poco.
Se per Mycroft Sherlock era lento di comprendonio, allora lei avrebbe anche potuto passare per una sorella adottiva, non fosse stato per quei riccioli sbarazzini e gli occhioni glaciali.

 

" Sherlock, tesoro, metti via quei sassolini dal tavolo, stiamo mangiando. "
" Non sono sassolini, sono coleotteri pietrificati. "
Seduto a capotavola, il signor Holmes alzò la testa al soffitto, con fare teatrale. " Coleotteri morti. Ora si mette anche a giocare con coleotteri morti."
" È un esperimento. " aggiunse Sherlock, imperturbabile. " Ne ho altri vivi nella tasca della giacca, comunque. "
" Per l'amor del cielo, Violet. Parlagli tu. "
" Io parlo in continuazione, ma lui non mi ascolta. " scrollò le spalle la signora Holmes, mentre riempiva i piatti di stufato e patate arrosto.
" Perché raramente dici qualcosa di intelligente. "
" Ehi! " fu il rimprovero di suo padre, quando la madre lanciò un'occhiataccia al ragazzino.
Sherlock abbassò gli occhi sul proprio piatto, per poi guardare di striscio il posto vuoto accanto al suo.
" Se Cale può starsene di sopra, perché io non posso continuare gli esperimenti in cantina? Non ho fame. "
" Perché la cena è una cosa che si fa in famiglia, perché siamo qui da pochi giorni e non ho la più pallida idea di cosa combini in quella maledetta cantina né mi interessa scoprirlo, e perché Cale in questo periodo non sta bene e se dice che non vuole mangiare non mi va di forzarla. "
" Non è vero, sta benissimo; mette solo il muso perché il trasferimento l'ha costretta a dire addio ai suoi stupidi compagni di classe. "
" Be', ora abbiamo un giardino decisamente grande! " ribattè la signora Holmes, con malcelata soddisfazione " Potrà invitare tutti i suoi nuovi amici. "
Sherlock aveva appena afferrato la forchetta; al commento della madre si immobilizzò, la posata a mezz'aria. " Vuoi dire... qui? Lascerai che inviti persone... qui?! "
"Sì. Qui. E mi aspetto che tu faccia altrettanto, giovanotto. Certo, una volta che il giardino sarà a posto. È l'ultima cosa rimasta da restaurare, in questa casa. Domattina arriverà il giardiniere con il progetto. " Violet non concluse la frase, ma dall'occhiata che lanciò a entrambi i figli, il suo sguardo lasciò sottintendere qualcosa del tipo: " Comportatevi bene. "
Mycroft scrollò le spalle. " Io credo che trascorrerò tutta la giornata nella biblioteca cittadina. Sherlock è più che in grado di controllare Cale mentre voi sceglierete tra le orchidee e i tulipani. "
L'occhiata furiosa che gli rivolse Sherlock parlava da sola, mentre il maggiore degli Holmes si versava nel piatto una seconda porzione di stufato.
" Dovresti seriamente prendere in cosiderazione l'idea di una dieta, sai? " sbottò infine il più piccolo, rimettendo la forchetta - ancora intatta - sul tovagliolo e alzandosi da tavola. Ma non prima di aver lasciato accidentalmente cadere due dei coleotteri vivi che aveva recuperato dalla tasca nel piatto di Mycroft, intento a rispondere alla madre interessata a sapere se, in effetti, secondo la sua opinione stessero meglio le orchidee o i tulipani davanti alla scalinata d'ingresso.


 

Non era insolito che Sherlock dormisse sì e no cinque ore al giorno. Certe volte non dormiva affatto. Quella notte però avrebbe tanto voluto farlo. Era rimasto fuori tutto il pomeriggio nell'aperta campagna, ad acchiappare coleotteri neri, blu, verdi e lucidissimi. Non che ne fosse ossessionato, o robe del genere; semplicemente si annoiava da morire e dal momento che prima di trasferirsi lì aveva trascorso quei dodici anni di vita nel caos della città, quella era la prima volta che entrava in diretto contatto con la natura e tutte quelle schifezze a sei/otto zampe che ne facevano parte.
Durante la ricerca, aveva notato anche degli strani bruchi grassi e pelosi. Gli ricordavano Mycroft. Decise che il giorno seguente sarebbe tornato nei boschi a raccoglierne quanti più possibili, in modo che il caro fratellone avesse una bella sorpresa, quando sarebbe andato a dormire, la notte seguente.
Cullato dal lieve ticchettio della pioggia contro le finestre della sua stanza, il pensiero di quello scherzetto fece ridere sotto i baffi Sherlock fino a che il sonno non sopraggiunse, cogliendolo impreparato, e il piccolo si addormentò senza rendersene conto.


 

Accidenti. Per una volta che moriva sul serio dal sonno, Cale aveva deciso di passare la notte in bianco. Andava avanti da più di due ore e dal momento che la camera di Sherlock si trovava al secondo piano, esattamente sotto la sala della musica, lui non era riuscito a chiudere occhio, nemmeno con i lati del cuscino spremuti contro le orecchie.
Ecco perché ora aveva dato un calcio alle coperte, dirigendosi a piedi scalzi su per le scale che portavano al terzo piano.
La porta della stanza della musica era spalancata; l'intera ala era avvolta dall'oscurità, ma Sherlock non se ne fece un problema. Assalito dalla noia, aveva perso il conto di quante volte fosse andato su e giù per quella casa, tanto che avrebbe potuto muoversi a occhi chiusi, ormai. Avanzò con sicurezza in fondo alla stanza, finché i suoi occhi pian piano iniziarono ad abituarsi al buio e finalmente distinse i tratti sottili e familiari della sorellina, seduta di spalle su uno sgabello. I bianchi tasti d'avorio sembravano quasi spiccare in confronto al legno dipinto di nero del pianoforte, che andava a uniformarsi col buio tutt'intorno a loro.
Cale aveva iniziato a strimpellare il piano a quattro anni; negli ultimi mesi le lezioni private erano andate via via diminuendo, ma questo non aveva rappresentato un ostacolo al suo amore incondizionato per quello strumento. Obbligava la mamma a comprare libri su libri - aveva ancora troppa poca esperienza per gli autori che davvero le interessavano, quelli più seri - e se ne stava interi pomeriggi ad esercitarsi.
Dal giorno del trasferimento però, aveva smesso di fare anche quello.
" Sono andata a dare un'occhiata in cantina stasera, mentre voi cenavate. "
L'aveva sentito. Lo sentiva sempre quando arrivava, nonostante Sherlock fosse in grado di diventare più silenzioso di un gatto, quando voleva.
La sua voce lo convinse ad avvicinarsi ancora, fino a raggiungerla. Allora si sedette da un lato dello sgabello, costringendola a spostarsi un po'.
" No, non l'hai fatto. Avevo chiuso la porta a chiave. "
" Un giorno ti insegnerò cosa puoi fare con un paio di forcine in mano e una serratura chiusa."
" Visto qualcosa di interessante? "
" Sì, lo stufato di Mycroft, mentre tornavo di sopra. " le sue mani indugiarono sulla tastiera eburnea, prendendo a suonare una serie di accordi abbastanza semplici. " Che ha detto? Piaciuti i ragni? "
" Coleotteri " la corresse Sherlock, mascherando un cipiglio d'irritazione. Se aveva risposto in quel modo significava che non aveva ritenuto minimamente interessante la sua collezione di insetti. " E, onestamente, credo non se ne sia nemmeno accorto. "
Cale fece schioccare la lingua contro i denti " Sì che se n'è accorto. Non è stupido. E te la farà pagare. "
" Non fa mai abbastanza attenzione quando si tratta di cibo. Non se n'è accorto. "
" E invece sì. "
" E invece no. "
" Sei cattivo, Sherlock. Prima o poi Myke convincerà la mamma a rinchiuderti in un istituto correzionale, o come cavolo si chiama. "
" E tu, dove credi che ti rinchiuderanno se non ricominci a mangiare? E a parlare? " ribattè Sherlock, più bruscamente di quanto avrebbe voluto fare " Con loro, intendo. "
Per tutta risposta, Cale fece spallucce.
Sherlock osservò distrattamente il profilo della sorellina, prima di sbadigliare. " Sono salito a dirti di smettere, comunque. Per colpa tua non riesco a dormire. "
" Conta le pecore. "
" Già fatto. Ho lasciato perdere alla seimiladuecentotreesima. "
" Allora torna in cantina a sezionare gli insetti. Io non smetto di suonare finché non sarò stufa."
Sherlock dovette fare appello a tutta la sua buona volontà per non insultarla, quando Cale lo guardò di sfuggita, ritirando il volto l'istante seguente. Fu davvero un istante, ma a Sherlock bastò.
" Hai pianto di nuovo. "
Cale non rispose. Si limitava a suonare quella triste litania, la stessa che stava portando avanti da ore, abbellendola e variandola di tanto in tanto.
Sherlock non insistette. Il temperamento di quella bambina era uno dei misteri più interessanti che gli permettevano di non impazzire dalla noia, in quell'ordinaria famiglia.


 

" Mycroft? "
" Non ora, Sherlock. Sono occupato. "
" Perché Cale non ride più? "
"... Come? "
" Non lo ammette, ma piange tutte le notti. Si rifiuta di mangiare, anche quando la mamma le prepara i suoi piatti preferiti. È diventata antipatica e scontrosa. Perfino più di te. "
" Oh, all'improvviso ti importa di lei? "
" Non capisco perché fa così. "
" Forse dovresti chiederglielo. "
" Lo faccio. Ma lei non risponde mai. "

                                                          

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St. Bart's, Londra. Ore 07.13

 

L'infermiera lo sta obbligando a mandare giù qualche cucchiaiata di tè.
Ridicolo. Si è svegliato da circa trenta secondi e l'unica cosa che vorrebbe è - più morfina, ma non lo dice - rimettersi a dormire.
Si sente stordito, acciaccato, confuso. E infastidito. L'infermiera sembra avere quasi fretta e alla fine Sherlock serra le labbra, rifiutandosi di mandare giù qualunque altra cosa.
" Grazie, va bene così... ci penso io. "
John. Grazie a Dio.
" Coraggio, Sherlock " esordisce il dottore, non appena l'infermiera si dilegua, concedendo loro la giusta privacy. " Hai bisogno di rimetterti in forze. "
" Mmh... " è quanto di più sensato esce dalle sue labbra, mentre la sua testa vortica come un ago impazzito. " Non ora, John. " deglutisce, quando il suo stomaco sussulta, facendo sì che la ferita torni a fare male. " Per favore. " aggiunge, sicuro che con quello darà il colpo di grazia all'amico, facendolo desistere.
E infatti John appoggia la tazza sul vassoio strabordante di biscotti e barrette, abbandonato sul comodino.
" Ok " il dottore sposta una sedia di fianco al letto, e intreccia le mani sulle proprie gambe. Non sa cosa dire. Sembra che Sherlock si stia riprendendo bene, anche se non abbastanza in fretta come aveva osato sperare. Nonostante non sia più in pericolo di vita, John non ce la fa a vederlo così.
Mentre Sherlock dormiva, gli aveva passato un panno umido sul volto e sul collo, rimuovendo ogni traccia di sudore, e infine gli aveva sistemato i capelli. Quei ricci neri e ribelli, che proprio non volevano saperne di restare al loro posto. Gli conferivano un'aria così fanciullesca, specialmente quando era privo di sensi, che John si era ritrovato a fissarlo senza chiudere le palpebre neanche una volta, per almeno mezz'ora.
Ma adesso non gli basta più guardarlo. Vuole sentire di nuovo la sua voce, ha bisogno di sapere come sta.
Per questo, dopo essersi schiarito la voce un paio di volte, per essere certo di attirare la sua attenzione, gli chiede con tranquillità: " Chi è Redbeard? "
Sherlock respira lentamente, e a fatica. Volta piano il capo verso John, osservandolo con occhi stanchi e appannati.
John si sente in dovere di giustificarsi, anche se non comprende il perché. " Ieri sera. Mi hai chiesto di toglierti il cane di dosso... poi hai detto Redbeard. Ecco, mi stavo chiedendo... sì, insomma, anche Magnussen, quand'era venuto a Baker Street, aveva fatto quel nome. "
Tipico di John.
La curiosità è una dote naturale, dopotutto. E questa volta, sarà per i farmaci che lo intontiscono, sarà per il suo unico desiderio di staccare la spina e rifugiarsi nuovamente lontano da tutto quel dolore, Sherlock risponde senza pensare. " Era il mio cane. È stato ucciso. "
Questa volta si accorge che sta per svenire, perché l'oscurità ci mette più tempo ad avvilupparlo; ma quando apre la bocca per chiedere a John di non andarsene, è troppo tardi.

 

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Norfolk. Diciannove anni prima.

 

Mycroft se l'era svignata in biblioteca come promesso, mamma e papà stringevano entusiasti la mano al giardiniere, complimentandosi per il suo progetto e Sherlock li osservava con diffidenza dalla porta-finestra della cucina.
Era un uomo singolare, quel giardiniere, altissimo e robusto, con numerosi calli sulle mani, che giustificavano il duro lavoro che faceva. Sherlock aveva appena deciso di mettersi comodo a studiarlo attentamente, per dedurne quante più informazioni possibili - qualunque cosa pur di scacciare la noia! - quando una voce maschile, alle sue spalle, lo fece voltare di scatto.
" Dai, siamo arrivati. Siediti qui. Ehi, smilzo, ci porti del ghiaccio? "
Un ragazzino era appena entrato in cucina, con un braccio stretto attorno al fianco di Cale, che saltellava faticosamente su una gamba sola.
" Non fa più tanto male adesso. Ciao, Sherlock! " lo salutò lei, come se niente fosse, una volta arrampicatasi su uno sgabello.
" Che cos'hai fatto? " sibilò Sherlock, gettando una rapida occhiata verso la porta-finestra, prima di chiudere la tenda. Quando Mycroft non c'era lei era sotto la sua responsabilità. E se mamma veniva a sapere che si era fatta male...
Sherlock tirò fuori dal freezer un pacco di ghiaccio, avvolgendolo in uno strofinaccio. Tornò da Cale per dare un'occhiata alla gamba, ma il ragazzo gli prese il pacco dalle mani, posizionandoglielo sotto il polpaccio.
" Non dirlo alla mamma. " lo supplicò lei, con gli occhi lucidi.
" Ovvio che non glielo dico! " sbottò Sherlock. " Mi metterebbe subito in punizione. "
" Stavo giocando con Victor e accidentalmente ho pestato la coda al suo cane... "
" Chi è Victor? " la interruppe Sherlock.
" Io " rispose il ragazzino, raddrizzandosi momentaneamente per porgergli la mano " Victor Trevor. Il figlio del vostro giardiniere. "
La sua mano era ruvida e callosa, probabilmente come quella del padre.
Sherlock era allibito. Da quanto tempo Cale conosceva questo Victor? Un'ora, volendo essere generosi. Si lasciava toccare da lui come avrebbe fatto con un amico di vecchia data. Come avrebbe fatto con Mycroft. O con lui. Di punto in bianco, Sherlock avvertì una profonda avversione nei confronti di quello sconosciuto.
" Il suo cane mi ha morsa. "


 

" Servono delle analisi. Quel sacco di pulci potrebbe avere la rabbia. "
" Il sacco di pulci ha un nome. E comunque, ti posso assicurare che non ha la rabbia. Al massimo, un paio di zecche. "
" Sto bene, Sherlock. Non sento più male. E la gamba si è sgonfiata quasi del tutto. "
" Zoppichi così tanto che sono pronto a scommettere tutte le cravatte di Mycroft che la mamma se ne accorgerà entro stasera. " ribadì Sherlock, camminando avanti e indietro per la cucina. " O forse no. Dopotutto non è molto sveglia. Forse non corriamo pericoli. "
" Devi essere un figlio alquanto devoto se parli tutti i giorni di tua madre in questo modo " obiettò Victor con un mezzo sorriso, mentre aiutava Cale ad alzarsi.
Sherlock si bloccò, fissandolo con falsa cordialità. " E tuo padre? Che ne dici se parliamo di lui? O preferisci che ti dica quello che già so? So che sei un figlio molto devoto e che non ti permetteresti mai di parlare male di tuo padre, perlomeno in presenza di estranei. So che non hai fratelli e che tuo padre ha problemi con l'alcool, problemi che regolarmente risolve sfogandosi su di te, o meglio, sulla tua schiena. " mentre parlava ebbe la soddisfazione di vedere il volto squadrato del ragazzo cambiare, mentre le sue mani robuste andavano automaticamente a tirare giù l'orlo della maglietta, che durante il tempo trascorso in ginocchio ad aiutare Cale si era sollevata un po', rivelando quelli che probabilmente erano i segni lasciati da una cinghia di cuoio contro la pelle. La stessa cinghia pesante e rovinata dal tempo e dai troppi differenti usi che indossava il giardiniere in quel momento.
Victor non disse nulla. Si limitò a fissarlo in silenzio, con una luce diversa negli occhi verdi, finché non intervenne Cale, rompendo il ghiaccio e la tensione che erano andati creandosi in quella stanza nel giro di dieci secondi.
" Non farci caso, è sociopatico. "
Victor battè le palpebre un paio di volte, prima di guardarsi attorno, le mani sprofondate nelle tasche dei jeans, e dire: " Mio padre dovrebbe aver finito, per oggi. Tolgo il disturbo. "
" Verrai domani? "
Sherlock guardò Cale con aria incredula. Che le era successo quella mattina? Sembrava un'altra persona. Negli ultimi mesi se n'era stata isolata a piangere e a rispondere male a chiunque le si avvicinasse, e adesso...
" Vedrò " Victor si strinse nelle spalle, guardando Sherlock di sottecchi.
" Ti accompagno alla porta. " disse il ragazzino.


 

Avevano appena imboccato il corridoio, ormai lontani dalla cucina e da Cale, quando l'attacco provenne dal nulla. Sherlock sbarrò gli occhi dallo sbalordimento e dal dolore quando si trovò schiacciato contro la parete, l'avambraccio di Victor premuto contro la sua gola, l'espressione sul suo volto più furiosa che mai.
" Sta' a sentire " esordì " Ci sono due cose che non sopporto: chi ficca il naso negli affari miei e chi è tanto imbecille da vantarsene in mia presenza nel farlo. Perciò fammi un favore, anzi, fanne uno a te stesso; nei prossimi giorni che verrò qui, le tue supposizioni tienitele per te altrimenti, questo te lo assicuro, ti gonfierò la faccia così tanto che anche se tua madre fosse la donna più sveglia del mondo - e da quanto ho capito non lo è - non riuscirebbe più nemmeno a riconoscerti. "
Concluse la minaccia con una spinta brusca, che bastò a togliere il fiato a Sherlock, prima di allontanarsi da lui.
Il piccolo Holmes si staccò dalla parete, massaggiandosi la nuca, per poi rivolgergli un sorriso sghembo. " Tutto qui? Mi aspettavo come minimo un pugno in faccia... " si interruppe, socchiudendo le palpebre " Avresti voluto farlo, ammettilo. Ma non puoi, perché temi che possa fare la spia. E se non la faccio io, lo farebbe il livido che mi procureresti. Per questo non mi hai picchiato, a tuo padre questo lavoro serve. Senza contare che poi se la prenderebbe con te."
" Ti ho appena detto di tenerti certe supposizioni per te. " ripetè il ragazzo, le braccia abbandonate lungo i fianchi.
Sherlock sorrise. " A mia sorella stai simpatico. "
" È intelligente. "
Sherlock aggrottò la fronte. " Lo pensi davvero? "
" Deve esserlo, con un fratello come te. "
" Vuole che torni anche domani. "
" E tu? "
Sherlock riflettè qualche secondo. " Tuo padre è un giardiniere... quindi devi saperne molto di insetti. "
Victor non rispose e riprese a camminare. " So dov'è l'uscita. " lo fermò, quando Sherlock fece per seguirlo.
Il giovane Holmes se ne restò lì, a vederlo sparire dietro l'angolo; iniziò ad intuire perché a Cale piacesse tanto quel ragazzo: era interessante e, di certo, era tutto fuorché noioso.


 

Victor tornò, il giorno seguente. Stringeva tra le mani una scatola.
Non degnò di uno sguardo Sherlock, andò dritto da Cale, piazzandole tra le mani la scatola e presentandogliela come regalo di scuse per l'incidente del giorno prima.
Raccontò loro che il sacco di pulci, come lo chiamava Sherlock, aveva partorito un paio di mesi fa, e non potevano permettersi di tenere tutti quei cuccioli, quindi li avevano venduti quasi tutti a diverse famiglie che abitavano nei dintorni.
" Ma questo è un regalo. " ripetè, mentre Cale sollevava il coperchio.
Un batuffolo rossiccio e saltellante fece capolino dal bordo, puntando i suoi occhioni marroni e liquidi su di loro.
" Guarda, Sherlock! " esclamò Cale, prendendo in braccio il cucciolo. Si alzò dal divano, appoggiandoselo sul petto, per tenerlo meglio, poi spostò lo sguardo verso Victor. " Ed è tutto nostro? Davvero? " gli chiese, con gli occhi lucidi.
" È tuo. " disse il ragazzo, lanciando un'occhiata indifferente verso Sherlock. Sparì per qualche secondo in cucina, tornando con una lattina di Coca tra le mani. Trovò i fratelli Holmes accucciati sul tappeto del salone, intenti a giocare con il loro nuovo amico.
Sherlock accarezzò il cucciolo, grattandogli le orecchie pelose, e la bestiola si mise ad agitare furiosamente la coda. Poi gli leccò il naso a tradimento, quando il ragazzino si avvicinò troppo.
A quel punto Cale scoppiò a ridere, mentre Sherlock si passava una mano sulla faccia, per rimuovere la bava dal naso e dalla bocca.
Sherlock la fissò. Poi fissò Victor, e di nuovo lei.
Quale diamine era il problema? Avrebbe dovuto essere contento. La sera prima, quando Violet aveva chiamato i figli per la cena, a momenti il mestolo le era sfuggito di mano dopo aver visto Cale prendere posto a tavola, tra Sherlock e Mycroft.
Sherlock non riusciva a capacitarsi del fatto che quello sconosciuto che se ne stava appoggiato svogliatamente alla parete fosse riuscito in un paio di giorni laddove lui aveva fallito.
Malgrado gli insulti di Mycroft, Sherlock non si riteneva stupido; sapeva che Cale non stava bene. Da diversi mesi mamma e papà le facevano prendere svariate caramelle di diversi colori, due volte al giorno.


 

" E lei pensa che siano davvero caramelle...? È proprio stupida. "
" Ha nove anni, Sherlock. La mamma non ritiene saggio spaventarla inutilmente, spiegandole che si tratta di pillole. "
" Appunto per questo trovo che sia stupido. Le pillole le usano le persone malate. "
" E quindi? "
" Cale non è malata! "
" Oh, Sherlock... "
" Non è malata... vero? "
" A volte mi chiedo chi sia il vero stupido, qui. "


" Mamma non ci permetterà mai di tenerlo. " quella frase gli uscì di bocca senza il suo permesso e soprattutto, senza vera convinzione.
Mamma adorava gli animali; chissà, c'erano buone probabilità che concedesse loro di tenere il cane. E papà... be', qualsiasi cosa facesse contenta la mamma, faceva contento lui.
No. Sapeva perché aveva detto una cosa del genere.
Gli piaceva quel cane; gli piaceva un po' meno il fatto che fosse un regalo di Victor.
Non sapeva spiegarselo, ma sentiva che tenendo quel cucciolo con loro, sarebbe stato un po' come accettare quello strano ragazzo dalla schiena marchiata di cicatrici nella loro sfera intima. Non che ne avessero veramente una.
E da quel momento in poi, Cale sarebbe impazzita. Sarebbe tornata euforica, logorroica e insopportabilmente ordinaria. Forse mamma e papà le avrebbero anche fatto smettere di prendere le caramelle.

 

" E la cosa non ti rallegra? Sei un pessimo fratello, lasciatelo dire. "
" Tu di che aiuto le sei stato, invece? Non ti sei mai preso il disturbo di provare a parlarle, dovevo sempre farlo io! "
" Non c'è sordo peggiore di chi non vuole ascoltare. "
" Però quel Victor lo ascolta. Che rabbia. Neanche fosse lui, suo fratello! "
" Sei geloso, Sherlock? "
" No, per niente. "
" Dovresti esserlo. "

 

Tre ore più tardi, il cucciolo divenne membro ufficiale della famiglia Holmes. La mamma se n'era completamente innamorata, lo pastrocchiava e lo coccolava come si fa con un neonato.
Inoltre, scoprirono quella stessa sera, il setter aveva una straordinaria predilezione per i calzini di Mycroft. Più volte aveva cercato di sfilacciarglieli con i denti, a tavola e anche quando il maggiore degli Holmes era seduto sul divano, a leggere.
Mycroft si era trattenuto dal tirargli un calcio.
" Ha  scelto proprio te come vittima da tormentare. È un buon segno, significa che è intelligente. "
" Sta' zitto, Sherlock. "

" E va bene, forse sono geloso. Un pochino. "
" Di che cosa hai paura? "
" Di Victor. Più lo osservo, più mi accorgo che non riesco a leggerlo. Le deduzioni che traggo ogni volta che parlo con lui sono sempre diverse, o troppo superficiali o troppo inconcludenti, il che è strano perché suo padre è come un libro aperto. E Cale pende completamente dalle sue labbra. È un ragazzo strano e indubbiamente interessante; l'altro giorno mi ha portato alcuni libri sulla classificazione degli insetti nell'Inghilterra del sud, e mi ha portato in giro per la campagna, insegnandomi a distinguere un'immensa varietà di terreni. Mi piace stare in sua compagnia. "
" Ma...? "
" Non riesco a leggerlo. Non capisco cosa gli passi per la testa, se pensa davvero quello che dice, e se il suo affiatamento con Cale porterà delle conseguenze. Più lei si avvicina a lui, più si allontana da noi. "
" Sherlock. Non dirmi che stai iniziando a considerare quel Trevor un tuo amico? "
" ... "
" Sei incorreggibile, fratellino, ma non me ne sorprendo. Tu pensa a non farti coinvolgere troppo e a partire da domattina, le deduzioni lasciale a me. "

                                                                     
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St. Bart's, ore 18.31

 

La febbre sembra corroderlo dall'interno. L'infermiera arriva di corsa al richiamo di John,  preparando il tranquillante.
" Cale! " Sherlock si contorce tra le coperte, vuole correre, fuggire il più lontano possibile, finchè non riuscirà più a udire l'eco agghiacciante di quel nome " Cale!! "
Inonsciamente, cerca di strapparsi gli aghi dalle braccia.
" Sherlock, calmati! " John lo trattiene come meglio può, mentre l'infermiera richiede assistenza. Nel giro di un minuto, altri tre infermieri tengono fermo il consulente detective, mentre la donna gli inietta la morfina. L'effetto è quasi immediato e Sherlock sospira, lasciandosi cadere sul letto ormai sfatto.

 


St. Bart's, ore 20.40

 

" C'è qualcosa che non va, non l'ho mai visto così delirante... "
" Porta pazienza, John. Gli hanno sparato, santo cielo! Cosa ti aspetti? " la voce di Lestrade risuona nervosa e preoccupata attraverso il cellulare " Ascolta, sono ancora in centrale. Ho paura che quel bastardo del mio capo mi tratterrà ancora. Arriverò il prima possibile. "
" Nessun problema, io resto qui. " conclude John, prima di chiudere la chiamata. Sospira, fermandosi al centro del corridoio dell'ospedale. Aveva fatto avanti e indietro per  tutto il tempo, indeciso se restare ancora o tornare a casa. Mary continuava a tempestarlo di chiamate e messaggi in cui lo supplicava di tornare a casa a riposare, ma alla fine John non se l'era sentita di andarsene.
Cammina indeciso fino alla stanza in cui riposa Sherlock e subito dopo spalanca gli occhi, accorgendosi che l'amico si è svegliato e si è messo a sedere, guardandosi attorno.
" Sherlock " esclama, raggiungendolo " Come ti senti? " esita, osservando attentamente il suo colorito.
" Un po' meglio. " borbotta il consulente detective, senza riuscire a nascondere una smorfia " La febbre è calata. Ci sono dei biscotti? "
" Ti è tornato l'appetito? " gli chiede John, con una punta di sollievo nella voce, mentre tocca la fronte dell'amico, per verificare che la temperatura si sia davvero abbassata. Poi afferra una barretta energetica lasciata sul vassoio, iniziando a scartarla, mentre Sherlock lo osserva in silenzio.
" Per quanto ho dormito? " vuole sapere infine.
" Non molto. L'infermiera ha dovuto sedarti, perché gridavi cose senza senso. Per fortuna stavolta non c'era Lestrade a filmarti. "
Sherlock ignora l'ultimo commento scherzoso e gli rivolge un'altra domanda: " Che cos'ho detto? "
Il pensiero che possa essergli sfuggito qualcosa di compromettente su Mary gli sfiora la mente per un attimo, prima della risposta di John.
" Niente di che... hai fatto il nome di Mary, un paio di volte, e il mio. " Sherlock sospira di sollievo " E poi hai parlato di Redbeard. "
" Sì, mi ricordo. "
" Hai detto che era il tuo cane. Non mi avevi mai detto di aver avuto un cane. Oh, e hai fatto anche il nome di Cale. "
Sherlock è in procinto di tirare un morso alla barretta, quando sente quel nome; rimane fermo, la barretta ormai dimenticata in mano, e squadra John con occhi apprensivi.
" L'ho fatto? "
" Due volte. Chi è Cale? Il tuo gatto? " scherza John, ma smette immediatamente quando nota l'espressione sul volto dell'amico. " Sherlock?"
Il consulente investigativo si riprende in fretta, sbattendo le palpebre e tirando un morso alla barretta. " No " rivela a bocca piena " Era il membro più giovane della mia famiglia. "
" Mmh-mmh " asserisce John, annuendo piano col capo, finché Sherlock può quasi avvertire il campanello che risuona nella testa del dottore, quando riavvolge il nastro e riascolta quella frase nella sua mente. " Aspetta, cosa? "
L'espressione tranquilla e innocente di Sherlock intento a mangiare non lo trattiene dall'insistere e gli domanda con aria incredula: " Cos'è questa storia? Oltre a Mycroft... " deglutisce " Hai un altro fratello? E perché non me ne hai mai parlato?! "
All'improvviso Sherlock si mette a ridacchiare. Non dura molto, perché ridere gli causa delle fitte allucinanti allo sterno, ma il commento di John lo ha divertito.
" Perché ridi? "
" I ruoli sembrano invertiti, questa volta... " sorride Sherlock, prima di tornare serio " Cale sta per Calanthia. "
Nel momento in cui pronuncia quelle parole, la mente di John viene abbracciata da un piacevole deja-vù...

" Harry sta per Harriett. "

" Cale... avevi una sorellina? "
" Storia vecchia. " liquida la faccenda Sherlock, con un'alzata di spalle.
" Che fine ha fatto? "
" Ho detto che è storia vecchia. "
John stringe le labbra dal disappunto.
Dannazione. Anche lui, però! Non può sganciare una bomba del genere e aspettarsi che John non gli chieda nulla. D'altro canto, anche ammesso che sia storia vecchia, se Sherlock ha fatto il suo nome nel dormiveglia, non significa che non sia una storia importante.
Ma se non vuole raccontargliela, non è giusto da parte sua fargli alcuna pressione. La sua guarigione prima di tutto, si ripete mentalmente il dottor Watson.
Sherlock intercetta il suo sguardo e sospira. " Mycroft ed io ci siamo promessi a vicenda di non fare mai più una parola sull'argomento, né tra di noi, né con altri. Riaprirebbe soltanto vecchie ferite, mai rimarginate del tutto. E nessuno dei due ci tiene a rivedere la mamma in quelle condizioni. "
John ascolta con attenzione. La voce di Sherlock è bassa, apparentemente tranquilla, ma sembra trasportata dai ricordi. Come se la sua mente fosse lontana anni luce, in una dimensione che John non può raggiungere. E lui odia quando succede, perché così non è in grado di aiutare il suo amico.
" Certo " il dottore si schiarisce la voce, rivolgendogli un sorriso rassicurante " lo capisco. Te l'avevo chiesto solo perché dal modo in cui avevi pronunciato il suo nome, sembrava quasi che... "
Che avessi bisogno di parlarne.
Bisogno di sfogarsi con qualcuno, bisogno di esplodere, liberandosi da quella dolorosa pressione al petto che era tornata a fargli male; la stessa che aveva scambiato per il suo Redbeard.
Sherlock chiude gli occhi, sprofondando nel cuscino.
Sa che di lui può fidarsi, così come sa che a John basterebbe uno dei suoi sguardi per alleggerire quel peso. Ma non può farlo, non ancora. John deve fare i conti con qualcosa di molto più urgente, ora.
Sua moglie.

                                                                       
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Norfolk. Diciannove anni prima.
13 luglio.


 

Sherlock stava vincendo. Di nuovo.
Era troppo facile battere Cale agli scacchi; non che fosse impedita, ma decisamente non era il suo gioco preferito e tendeva a distrarsi troppo.
" Non mi hai ancora fatto gli auguri. "
" Tecnicamente, compirai dieci anni alle 21.03 di questa sera. " fu la risposta impassibile di Sherlock.
" Ma io non voglio che me li fai alle 21.03. Li voglio adesso. "
" Tu battimi e io ti farò gli auguri. "
" No. "
" Concentrati sul gioco. Tocca a te. " disse Sherlock, dopo averle messo fuori gioco il secondo alfiere.
Cale sbuffò, reggendosi la testa con le mani. Se ne stava sdraiata sul tappeto a pancia in giù, davanti alla scacchiera, e continuava a lanciare occhiate all'orologio a pendolo.
" Perché non andiamo a fare un giro? Gli scacchi sono noiosi. " e tanto per dare valore alle parole che aveva appena pronunciato, mosse un pedone a casaccio. " Tocca a te."
" Mamma e papà sono usciti a comprare la torta e i palloncini. Non possiamo muoverci di casa finché non torna Mycroft. Tocca a te. "
Sherlock mantenne un prudente silenzio alla vista del broncio di Cale. Per fortuna era riuscito a costruire in tempo la sorpresa per la sorella, tenendola nascosta in cantina. Un violino. Ci aveva lavorato giorno e notte, ed era abbastanza soddisfatto del risultato. Lo strumento preferito della bambina era il pianoforte, ma aveva sempre avuto un debole per gli strumenti ad arco. Non vedeva l'ora di gustarsi la faccia di Cale quando l'avrebbe visto.
L'ennesima occhiata della bambina verso l'orologio lo incuriosì.
" Aspetti qualcuno? "
" Sì, Victor. " quel nome fu in grado di fargli passare il buonumore " Andiamo a fare un'escursione nel bosco. Ci dobbiamo vedere tra cinque minuti. "
Sherlock non ebbe neanche il tempo di ribattere che Cale si alzò in piedi con un piccolo balzo.
" Anzi, sarà meglio che mi prepari. Sto solo perdendo tempo a giocare con te. "
" Certo, perché sai già che perderai. " sbottò Sherlock, piccato.
" Pensala come vuoi. "
" Non puoi sparire tutto il giorno con Victor, anche oggi. È il tuo compleanno, ricordi? "
" E allora? "
" E allora dolcetti, canzoncine allegre, biglietti d'auguri, regali da scartare e tutte quelle sciocchezze che nostra madre si ostina a farci subire ogni anno! "
" Sciocchezze, appunto. "
" Mycroft ed io ce le sorbiamo in silenzio, cosa ti fa pensare di poter avere un trattamento speciale? "
" Semplicemente il fatto che io ho un amico, Sherlock. "
Il ragazzino alzò gli occhi al cielo, sbuffando. " E questo cosa vorrebbe dire? Victor è anche amico mio. " In fondo ( molto in fondo ) lo pensava sul serio. Eppure gli faceva così strano dire quella parola, amico.
Cale socchiuse gli occhi, mentre si metteva la sciarpa. " Non lo metto in dubbio, ma allora spiegami il motivo della tua gelosia. "
" La mia cosa? "
" Non negarlo. Tutte le volte che ti anticipo una delle sue visite metti tutto sottosopra, come se volessi rendere la casa più disagevole, quasi nella speranza che in questo modo se ne vada via prima. Trascorri ore intere con lui a parlare, ma non lo degni di uno sguardo quando ci sono anch'io, come se ti desse fastidio. Io dico che sei geloso marcio. "
" E io dico che questo tuo patetico colpo di fulmine ti sta rendendo ogni giorno più ottusa e insopportabile di quanto già non sei. Ogni giorno non fai altro che parlare di Victor, di Redbeard e della tua irrefrenabile voglia di ricominciare ad andare a scuola per conoscere i tuoi nuovi compagni. Tre illusioni, tutte quante vane. Devo spiegarti il perché o ci arrivi da sola? No, come non detto; è ovvio che hai bisogno di delucidazioni. Per quanto riguarda Victor, temo sia una causa persa in partenza. Lui ha quattordici anni, tu dieci, e ti conviene smetterla di intrecciarti i capelli e di atteggiarti come Mycroft. Per quanto riguarda Redbeard, be', è un cane, ergo la sua vita dura circa un quinto della metà della tua, ti suggerirei di non eccedere con le coccole e le dichiarazioni del tipo -  amici per sempre, nessuno mi separerà mai da te - e per finire, perché ci tieni tanto a tornare in una nuova classe? Lo sai che si comporteranno esattamente come gli idioti che ti hanno presa in giro fino all'anno scorso, ti insulteranno, ti offenderanno e ti daranno della stupida ogni volta che aprirai bocca per leggere qualunque cosa. Mamma e papà non è che l'abbiano detto, ma ho sempre sospettato fosse questo il motivo per cui abbiamo traslocato. Come se basti a cambiare le cose! "
Si fermò per riprendere fiato.
Per mezzo minuto, l'unico rumore che si udì nella stanza fu quello dei rintocchi dell'orologio a pendolo.
Infine Cale abbassò lo sguardo a terra " Tu sei il fratello peggiore del mondo e sappi che quello che hai detto mi ha offesa cento volte più di quanto abbiano mai fatto le persone e di quanto avrebbe potuto fare chiunque altro. Ti odio!! " gli urlò contro, correndo dall'altra parte della stanza per recuperare il giubbotto.
" Piantala di essere così emotiva. Non l'ho detto per offenderti, sono solo realista. E lo sai meglio di chiunque altro. "
Le mani di Cale si immobilizzarono, mentre tirava su la cerniera del giubbotto. Per un attimo le sue dita strinsero fino a sbiancare il tessuto ruvido e imbottito, prima che la ragazzina enunciasse con voce decisa: " Torre in e5. "
Sherlock aggrottò le sopracciglia, lanciando uno sguardo confuso alla scacchiera.
" Mi sembrava che avessi abbandonato la partita... "
" Non ho abbandonato niente, torre in e5. Tocca a te. "
Sherlock sospirò. " Alfiere in e5. "
" Pedone in e5. "
Maledizione! Quello non l'aveva visto.
" Bella mossa. Hai finalmente deciso di usare il cervello? " borbottò Sherlock, mentre eliminava dalla scacchiera il suo alfiere. " Pedone in c3. " aggiunse, mangiando un altro pezzo della sorella.
Cale ignorò il commento, tenendo gli occhi chiusi, le dita strette attorno alla sciarpa. " Regina in b3. Scacco. "
In quel momento Sherlock capì cosa stava facendo Cale.
" Non vale usare il palazzo mentale! "
" Oh, davvero? E quando l'hai deciso? "
Sherlock spostò il proprio re in una posizione più sicura, mentre la regina di Cale ne approfittava per eliminare un altro pezzo importante.
" Questo equivale a barare. "
" Non ce ne sarebbe bisogno se solo ti decidessi a... "
" A fare cosa? Chiederti scusa? Perché? Non sono io quello che sta cercando di fare il furbo. "
" Non voglio che mi chiedi scusa, ma che cominci a dimostrarmi che ti importa qualcosa di me! "
Quella frase ebbe lo stesso effetto di un fulmine a ciel sereno.
Sherlock fu colto da un lampo di comprensione nel momento in cui, finalmente, si rese conto della verità, e di colpo tutto quanto - la prima volta che aveva conosciuto Victor, i repentini cambi d'umore di Cale, i suoi eccessivi sorrisi, perfino tutte le volte in cui Sherlock aveva discusso a lungo con Mycroft, riguardo alla sua... gelosia -, tutto ebbe un senso.
Era caduto come un idiota nella trappola creata da Cale.
Quella viziata egoista. Sempre in cerca di coccole e attenzioni. Non per niente aveva preso tutto dalla madre.
Questo cosa significava? Che aveva finto per tutto questo tempo anche con Victor?
A Sherlock non importava di lui. In quel momento il pensiero di essere stato ingannato in questo modo era più opprimente di qualunque altro. Si era preoccupato così tanto per un pericolo che in realtà non esisteva! Poteva ancora sentire nella sua testa la voce di Mycroft, dargli dell'idiota.
Aveva ragione, era stato un idiota.
Redbeard fece il suo ingresso nel salone scodinzolando allegramente. Annusò Cale, per poi trotterellare da Sherlock, leccandogli una mano.
" Sherlock " lo chiamò Cale quando lui le diede le spalle, chinandosi ad accarezzare il cane " Dai, non voglio che litighiamo il giorno del mio compleanno. Facciamo qualcosa insieme. Victor dice che il boschetto è pieno di alveari! E che una volta ha trovato del miele viola! " fece qualche passo verso il fratello " Vieni con noi, per favore. Vieni con me. "
" Lasciami stare. "
Voleva che cominciasse a dimostrarle che gli importava di lei? A che scopo? C'era già Victor per quello. Ecco perché pronunciò quelle due parole con tutto l'astio e la freddezza di cui era capace, lasciandola quasi interdetta.
Cale non disse più una parola e se ne andò, lasciando la stanza nel più totale silenzio. Sherlock udì la porta di casa chiudersi bruscamente.

Erano passati sì e no tre minuti da quando Cale se n'era andata e Sherlock aveva appena deciso di portare Redbeard in giardino. Si stava mettendo d'impegno ad addestrarlo, ma fin'ora i risultati non erano stati buoni.
Afferrò una vecchia pallina da tennis, preparandosi a portare fuori il cane, ma si bloccò vedendo Victor appoggiato allo stipite della porta.
" Come va, Sherlock? "
" Credevo fossi in giro con Cale. "
" Sta aspettando fuori. Volevo passare a salutarti, prima. " si staccò dalla porta, avvicinandosi. Sherlock seguì ogni sua mossa " Potrei aver visto male, ma mi sembrava stesse piangendo. "
Sherlock si sforzò di non cambiare espressione. " Nulla di sorprendente; era da tanto che non lo faceva. "
" Mio padre ed io ci trasferiamo in un altro Paese. Non so di preciso quando; potrebbe essere tra una settimana, così come potrebbe essere domani. Per ricominciare da capo, ha detto, anche se non ho la più pallida idea di che cosa significhi."
Questa volta Sherlock non riuscì a contenere la sorpresa e spalancò gli occhi.
" E... Cale lo sa già? "
Victor annuì. " Da ieri. Quando gliel'ho detto ci è rimasta parecchio male; suppongo sia questo il motivo per cui ora piange. "
La mascella di Sherlock si irrigidì, mentre si voltava dall'altra parte, evitando il suo sguardo.
" Mmh, già. Immagino che tu rivoglia indietro i tuoi libri, allora... "
" Puoi tenerteli. Gli insetti mi hanno sempre fatto schifo. "
" Non importa, li ho letti tutti; li ricordo praticamente a memoria. "
Victor gli rivolse uno strano sorriso " Tienili. "
Sherlock non provò più ad insistere.
Il ragazzo indugiò prima di sospirare, avvicinandosi ancora " Ti direi addio, ma ho l'inspiegabile sospetto che in futuro ci rivedremo. Perciò arrivederci, Sherlock Holmes. "
Sherlock non sapeva come comportarsi. Cosa bisognava fare, in questi casi? Esisteva un modo in particolare per salutare un amico?
Guardò Victor. Sembrava diverso, quel giorno. I suoi occhi verdi erano più cupi e ostili del solito e non sembrava propenso a portare avanti quella conversazione ancora per molto.
" I miei torneranno tra un'ora, mio fratello anche prima. Cale non può stare fuori a lungo, dobbiamo festeggiare insieme. " spiegò, cercando di non fare smorfie.
" Tranquillo, è in buone mani. " Victor fece una pausa " Non hai nulla di cui preoccuparti. "
" Non sono preoccupato. "
" È  un vero peccato. "
" Come, scusa?! "
Gli occhi di Victor sembravano perforarlo fin dentro le ossa, mentre ripeteva quasi scandendo sillaba per sillaba: " È un vero peccato. "
Subito dopo diede un'occhiata al suo orologio da polso, iniziando a indietreggiare. " Ci vediamo " lo salutò, con un ghigno che durò circa una frazione di secondo, prima che svoltasse l'angolo e uscisse di casa.
Quella fu l'ultima volta che Sherlock vide Victor Trevor.

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Nei pressi di Londra.
Pochi minuti prima del decollo.

 

Eccoci qui, di nuovo, pensa Sherlock.
Questa è la seconda volta che si dicono addio. Non ci sono impedimenti, tipo un tetto alto trentacinque metri e un cellulare, a separarli.
No. Sono in piedi, uno di fronte all'altro, entrambi impacciati e incerti su cosa dire.
Questa volta si tratta di un addio vero, senza inganni. Tra sei mesi diventerà ufficialmente un addio senza ritorno, dovendo dar fede alle parole di Mycroft.
" William Sherlock Scott Holmes. "
" Come? "
" In caso ti serva un nome per il bambino. "
A John sfugge una risata, prima di dire: " No, abbiamo fatto l'ecografia; è una bambina. "
" Oh. "
Torna il silenzio.
È impossibile tenere la mente concentrata sul fatto che stanno per separarsi un'altra volta; Sherlock può vederlo chiaramente, il terrore negli occhi di John. È  lo stesso che prova lui, ma il consulente detective è in grado di celarlo grazie all'esperienza e alla sua freddezza di spirito, John grazie alla tempra del soldato che spunta sempre fuori nei momenti più opportuni.
Dirgli addio è davvero difficile, perché sono entrambi consapevoli che Sherlock non sarà più in grado di avverare qualunque miracolo richieda John questa volta.
Forse è questo che gli dà il coraggio di parlare ancora.
" John, c'è una cosa che dovrei dirti. In effetti, te la volevo dire da tanto tempo, ma non l'ho mai fatto. Dato che è improbabile che ci vedremo di nuovo, tanto vale che la dica ora. "
Il dottor Watson lo osserva con curiosità, una luce di malinconia attraversa i suoi occhi blu.
" Sherlock in realtà è un nome femminile. "
John strabuzza gli occhi, per poi scoppiare a ridere. " Era questo che volevi dirmi da tanto tempo? " lo scimmiotta, per poi fissarlo con sospetto " Non è vero, non lo è. "
" Te lo giuro. "
" Non ci crederò mai. Non chiameremo nostra figlia in tuo onore. "
" Oh, penso le starebbe bene. Considerando la perfidia che ha avuto nostra madre ad affibbiarci i nostri nomi. "
John gli rivolge uno sguardo interrogativo.
" Non trovi che Sherl sia un soprannome vagamente femminile? " spiega Sherlock " E Cale, come ti era venuto logico supporre al Bart's, maschile? "
" Oh " intuisce improvvisamente John, annuendo tra se e se " Sarebbe... la storia vecchia, giusto? "
" Giusto. Il fatto è che inizialmente lei avrebbe dovuto chiamarsi Sherry e io Caleb. "
" No! " ride John, seguito poco dopo da Sherlock " Mi prendi in giro. Tu mi prendi sempre in giro, non cambierai mai. "
Il consulente investigativo scrolla le spalle " Valeva la pena provare " tende una mano, che da sola simboleggia lo scadere del tempo " Ai momenti migliori trascorsi insieme, John. "

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Neanche cinque minuti più tardi.

 

" Signore? È suo fratello. "
Sherlock afferra il cellulare con aria seccata, chiedendosi se Mycroft lo stia facendo apposta a rigirare il coltello nella piaga.
" Ciao fratellino. Come va l'esilio? "
Appunto.
" Sono via da soli quattro minuti. "
" Be', spero che tu abbia imparato la lezione. A quanto pare ci servi. "
" Oh, per l'amor del cielo, deciditi una buona volta! " ringhia Sherlock, indeciso se sentirsi arrabbiato per il modo in cui Mycroft si diverte a rendergli le cose più difficili, o sollevato poiché forse questo significa che tra lui e John non ci sarà nessun addio. " A chi servo, stavolta? "
" All'Inghilterra. " risponde il maggiore degli Holmes, prima di chiudere la chiamata. Davanti a lui, lo schermo proietta il volto ghignante di Jim Moriarty.

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Norfolk. Diciassette anni prima.
Cinque settimane dopo l'inizio delle lezioni.


 

Scosse il flacone per far cadere tre caramelle nel palmo della mano, poi se le mise in bocca.
Ingoiò con troppa fretta e le si bloccarono in gola per un paio di secondi, facendola tossire, ma nessuno parve accorgersene.
La Mentor's Hill Istitute era considerata una delle scuole migliori della contea, nonché una delle più costose. Era da due anni che Cale passeggiava per quei corridoi, ascoltava le lezioni e attendeva che la giornata scivolasse via, tra i rimproveri dei professori, le distribuzioni pomeridiane del giornale scolastico e i campionati sportivi. Già, perché la Mentor's Hill sfornava soprattutto numerose promesse ( per lo più figli di papà ), veri e propri atleti, che di solito tendevano ad avere un roseo futuro. In particolare, i campioni di nuoto. Quella era l'unica scuola ad avere, oltre ad una gigantesca palestra e un invidiabile campo da rugby, anche una piscina.
Comprendeva studenti delle scuole medie e superiori in due edifici distinti, separati dal cortile esterno. Cale aveva lezione fino alle due del pomeriggio, poi di solito decideva se tornarsene a casa con la metro o aspettare Sherlock e Mycroft per un'ora e mezza.
Quel giorno le lezioni erano terminate. Aveva appena concluso il compito in classe di tedesco. Era stato una tortura senza fine, probabilmente la traduzione che aveva fatto era tutta sbagliata. L'aveva rifatta cinque volte perché le parole continuavano a cambiare e alla fine  aveva gettato la spugna, rifiutandosi di controllarla ancora.
Risultato? La testa le stava esplodendo e aveva già sgarrato con la dose di caramelle per quel giorno.
Ma quando l'ennesimo colpo di tosse le fece salire le lacrime agli occhi, scese frettolosamente le scale, ignorando le proteste infastidite dei pochi studenti rimasti che aveva urtato, mentre si fiondava nel bagno maschile al piano terra.
Cercava sempre di non usare i servizi femminili, se poteva. C'erano troppi specchi.
La settimana prima era scoppiata una lite tra alcuni ragazzi del quarto anno, e avevano finito per distruggere lo specchio e uno dei lavandini, quindi finché non l'avessero aggiustato, quel bagno sarebbe stato perfetto per lei.
 Quella scuola era molto più movimentata di quanto le famiglie credevano, eppure quando si trattava di studenti dal cognome particolarmente illustre, il preside riusciva sempre a non sollevare alcun polverone.
Portò le mani a coppa sotto il rubinetto per la terza volta per bere, quando si accorse di non essere sola nel bagno. Si voltò di scatto nell'esatto momento in cui due ragazzi alti e robusti  uscivano dall'ultima cabina.
C'era un terzo ragazzo, accasciato a terra, con la camicia rovinata e un rivolo di sangue che gli colava dal naso.
" La prossima volta che ti viene voglia di mettere certe foto nel sito della scuola e su questo fottuto giornale per rovinare la mia reputazione" sibilò uno dei due, lanciandogli addosso il giornale scolastico " ricorda solo che non te la caverai con un paio di pugni. La prossima volta ti ficcherò la testa nel cesso e farò un bel video. Poi, se sarò di malumore, mi assicurerò di mandarti all'ospedale. Hai capito, stupido frocio del cazzo? "
" Che fai tu qui? " esclamò di colpo l'altro, quando si accorse della presenza di Cale " Non sai leggere? È  il bagno dei ragazzi, sparisci. "
" In quello delle ragazze c'è la fila " rispose lei con voce piatta, prendendo qualche pezzo di carta per asciugarsi le mani.
" Allora vedi di tenere la bocca chiusa. Intesi? "
Cale scrollò le spalle, senza guardarlo.
Il ragazzo rimase a contemplarla per qualche secondo, per poi allontanarsi. " Dai Carl, andiamocene. Faremo tardi agli allenamenti. "
Ecco chi erano. Cale ricordava di averli già visti, partecipavano regolarmente alle gare di nuoto ed erano piuttosto bravi. In particolare Carl Powers, quello che aveva appena minacciato il ragazzo a terra. Lo guardò dare un calcio allo zaino del malcapitato, prima di sparire dal bagno assieme al compagno.
Intanto, il ragazzo si era rimesso in piedi, iniziando a raccattare tutte le cose che erano uscite dallo zaino, sparpagliandosi dappertutto.
Cale esitò solo un momento, prima di chinarsi a raccogliere gli oggetti più vicini alle sue scarpe. Un flacone di medicinali e una siringa chiusa. Si sforzò di leggere il nome appuntato con una biro sull'etichetta, prima che il ragazzo gliela togliesse dalle mani. Troppo tardi.
" Clostridium? " chiese, osservando lo sconosciuto con curiosità. Non che si aspettasse delle spiegazioni, ma non le era sfuggita l'occhiata omicida che aveva lanciato a Powers, un attimo prima che lasciasse i servizi.
" Sì, sai, è per il diabete. " disse, chiudendo lo zaino e facendo per andarsene.
" Non è vero. È la sostanza più tossica conosciuta dall'uomo. "
Il ragazzo ruotò su se stesso, con un sorriso nervoso sul volto. " Ti piace la chimica? "
" Piace a mio fratello. "
Il ragazzo sospirò divertito, per poi sollevare le mani, in segno di resa.
Cale rovistò nella tasca della giacca. " Io prendo questi, tre volte al giorno. "
Gli espose davanti alla faccia il flacone contenente gli anti-depressivi, accertandosi che leggesse il nome sull'etichetta. Il tizio le rivolse un'occhiata strana " Ok. E da uno a dieci, quanto dovrebbe importarmene? "
Cale si passò il flacone da una mano all'altra, tenendo lo sguardo fisso verso il pavimento. " Niente... così, in caso un giorno tu voglia avvelenare anche me... " sollevò lo sguardo, incrociando quegli occhi neri e attenti " Ti semplifico le cose. "
La testa le pulsava. La stanza aveva iniziato a vorticare come una trottola. Le caramelle iniziavano a fare effetto, stava perdendo lucidità.
Passò accanto al ragazzo, dirigendosi verso l'uscita.
" Ehi, ehi, ehi, aspetta. Come ti chiami? "
Cale chiuse gli occhi, augurandosi che quel tizio non avesse davvero intenzione di fare amicizia.
" Calanthia Holmes. "
Il tonfo che sentì subito dopo la fece voltare. Il ragazzo aveva mollato lo zaino a terra, battendo le mani, come se lo avesse colto un'improvvisa illuminazione.
" Wow! Non ci credo! Sei tu Calanthia Holmes? " esultò, avvicinandosi e colmando la distanza tra loro " È  un piacere conoscerti. So che tuo fratello è considerato una specie di genio, qui a scuola. "
Cale lo fissò senza alcun'espressione " Quale dei due? "
Il ragazzo parve colto di sorpresa, ma poi si mise a ridere " Sì, hai ragione. Domanda stupida, scusa. Comunque, io sono Jim " si presentò, porgendole la mano " Hai da fare? Se ti va potremmo... "
" No. " lo interruppe Cale. Non gli strinse la mano, né gli permise di dire altro. Gli voltò le spalle e se ne andò il più in fretta possibile.
Gli occhi di quel Jim l'avevano messa in agitazione. Erano neri come l'inchiostro. Troppo scuri. Riflettevano qualunque cosa guardassero, come uno specchio, compreso il volto di Cale.

                                                                                                             _________________

 

Baker Street.

 

John Watson non fa quasi in tempo a mettere piede nell'appartamento, che la voce di Sherlock risuona bassa e infastidita dal divano su cui è sdraiato di schiena.
" Ti ho chiesto di preparare un tè. "
" Cosa? Quando? "
" Circa un'ora fa. "
John alza gli occhi al cielo, contando fino a tre. " Ovviamente non ti sei accorto che ero uscito. Ho accompagnato Mary a casa. "
Sherlock non risponde. John si siede sulla sua poltrona, osservando l'amico di sottecchi.
Sherlock sta lanciando in aria il teschio, per poi riprenderlo con l'altra mano. E poi di nuovo, lancia e afferra. Nella più totale tranquillità.
John resiste venti secondi, prima di parlare. " Allora, riguardo a quello che è successo ieri... l'inspiegabile apparizione di Moriarty su qualsiasi schermo esistente dell'Inghilterra... hai già qualche teoria al riguardo? "
Sherlock ignora la sua domanda e gliene rivolge un'altra." Ti fidi di me, John? "
Il dottore viene preso contropiede. Se si fida di lui?
Ci pensa, prima di rispondere. Alla mente gli ritornano parecchie vicende discutibili... ad esempio, quella volta, durante la loro prima sfida con Moriarty, Sherlock aveva temporeggiato con la vita di quell'anziana signora solo per risolvere altri casi; oppure quando aveva rinchiuso John in quel maledetto laboratorio a Baskerville, facendogli quasi venire un infarto mentre gli faceva credere di essere braccato dal mastino; peggio ancora, quando gli ha fatto credere per due anni consecutivi di essere morto.
Ma il sollievo di riavere il suo amico di nuovo con lui, come ai vecchi tempi, è più forte di qualsiasi risentimento John possa ancora provare nei suoi confronti, per questo risponde: " Sì, certo che mi fido di te. "
Sherlock smette di lanciare il teschio, e se lo rigira tra le mani, pensieroso.
" Devo parlarti di una cosa, John. " mormora infine " Una cosa che non ho mai raccontato a nessuno. Una cosa a cui non pensavo più da diversi anni. "
Un sottile presentimento aleggia nella testa del dottore, il quale sente che in qualche modo si tratta della fantomatica " storia vecchia. " Ma non dice nulla e incita con un gesto d'assenso l'amico ad andare avanti.
Sherlock fa un respiro profondo, senza togliere gli occhi dal teschio tra le sue mani. " Ricordi quando ti ho accennato qualcosa su Cale? "
" Sì... " asserisce John, aggrottando la fronte, chiedendosi per quale motivo Sherlock abbia cambiato idea, decidendo di parlargliene.
" Eravamo una famiglia tutto sommato ordinaria, considerando i nostri genitori " Sherlock chiude gli occhi, sistemandosi meglio sul divano " Ma Cale era diversa da me e Mycroft. Da piccola iniziò manifestare i segni di una grave forma di dislessia, che le impediva di leggere e scrivere anche le cose più semplici. All'inizio la cosa non sembrò spaventarla, nostra madre la rassicurava continuamente, dicendo che era perfettamente curabile, ma ben presto la situazione peggiorò. A scuola veniva spesso derisa dai compagni, faticava a studiare sui libri e, di certo, la diplomatica arroganza mia e di Mycroft non aiutava la sua autostima. Rimpiango di non essermene accorto prima. " Sherlock fa una pausa, prima di continuare " Ben presto questo la portò a sentirsi in qualche modo incompetente non solo rispetto a noi, ma anche a tutti gli altri bambini. Non si sentiva all'altezza degli altri e questo la portò a maturare un forte senso di colpa, che la faceva sentire in qualche modo completamente responsabile delle proprie difficoltà. Non ci volle molto, prima che cadesse in depressione. " volta la testa verso John " Aveva otto anni. "
Il palato di John è secco, mentre ascolta quelle parole. Era terrificante. Terrificante pensare a una situazione del genere, per una bambina di otto anni.
" In seguito, per motivi di lavoro mio padre prese la decisione di andare a vivere nel Norfolk. Mia madre era al settimo cielo all'idea di trasferirsi in campagna. Sperava potesse in qualche modo giovare a Cale, che da alcuni mesi aveva iniziato a prendere medicinali. Mio padre voleva tentare con uno specialista, ma la mamma si era opposta con tutte le sue forze, diceva che era troppo piccola per delle visite psichiatriche, la cosa non avrebbe fatto altro che spaventarla. E poi un giorno arrivò Victor Trevor. "
Sherlock sputa fuori quel nome come se fosse veleno. Quando pronuncia la " V " di Victor, John riesce a notare dalla sua postazione il segno impresso dai denti dell'amico sulle sue labbra.
" Era il figlio del nostro giardiniere. Un ragazzo sveglio. Lui è stato il mio primo, vero amico. "
L'ultima rivelazione lascia John a bocca aperta. Spalanca gli occhi e boccheggia, mormorando un: " Cos...? Hai detto amico? "
Sherlock gli lancia un'occhiata. " Sì, John. Ho detto amico. O perlomeno, mi ero illuso che lo fosse. Cale sembrava non poter più fare a meno di lui. " si interrompe, sentendo John lanciare una risatina soffocata.
" Ho detto qualcosa di divertente? " gli domanda freddamente.
" No no, scusa. È solo che... " John cerca di fare mente locale per spiegarsi " Insomma, l'unica volta che ti ho sentito parlare di qualcuno come tuo amico è stato quando ti riferivi a quel teschio che usi come posacenere... "
L'espressione di Sherlock è indecifrabile. E forse è questo che fa scattare qualcosa in John, mentre sul suo volto si dipinge una dubbiosa consapevolezza.
" Aspetta. A chi appartiene quel...? " fa un cenno verso il teschio.
Sherlock riprende il racconto " Passò un po' di tempo e Cale sembrò migliorare. Non c'era dubbio che la compagnia di quel ragazzo le facesse molto bene. Smise perfino di prendere le pillole e convinse nostra madre a farle riprendere le lezioni private per correggere la dislessia. Ci credi, John, che non riuscivo ad accettare tutto questo? Quel suo attaccamento nei confronti di Victor... non mi piaceva per niente. All'inizio credevo fosse solo una stupida sorta di gelosia fraterna, o... una di quelle emozioni, di cui sembra che io sia privo. Dopo compresi che il problema non era Cale, ma Victor. Quel tipo, come in seguito scoprimmo, era un ragazzo molto intelligente, che aveva avuto la sfortuna di avere un ex-soldato alcolizzato ed estremamente violento come padre, mentalmente compromesso dai traumi vissuti durante la guerra.
Il giorno in cui Cale compì dieci anni fu anche il giorno in cui ebbe un'improvvisa ricaduta. "
" Perché? Cosa successe? " chiede John, a bassa voce. Si sente la sirena di un'ambulanza passare a tutta velocità per Baker Street, mentre inizia a scendere il buio della sera. 
Sherlock deglutisce, passando un indice attraverso l'orbita vuota del teschio. " Non sono stato in grado di accorgermi di niente. Non avevo colto i segni addosso al mio caro amico Victor, ma Mycroft sì. Quella è stata la prima volta in cui vidi mio fratello prendere una decisione seguendo l'istinto, invece della ragione. Fu anche l'ultima, per inciso. Immagino che vedere Cale così sorridente e la mamma così felice e sollevata per lei lo avesse frenato.  D'altronde non era ancora entrato a far parte del governo britannico, ma se ne avesse avuto la possibilità avrebbe sicuramente fornito a Calanthia qualsiasi tipo di protezione... " Sherlock si interrompe quando avverte una lacrima scendere dal suo occhio destro, e tracciare una scia bollente lungo tutta la guancia. Per fortuna John da dov'è seduto non può accorgersene.
Si passa rapidamente la manica della camicia contro la guancia, prima di sibilare: " Victor Trevor molestava mia sorella, John. "
Solo in quel momento John si rende conto di aver trattenuto il respiro per tutto il tempo. Un po' come quando ascolti una storia dell'orrore; sai già che non andrà a finire bene. Ma quando la storia è reale, non sono soltanto la tensione e la paura ad attraversarti. Fa male, molto più male.
" Lui e suo padre un bel giorno fecero le valigie e cambiarono stato, e nel giro di due anni Cale divenne un'altra persona. A quel punto, perfino mia madre fu costretta a capitolare. Iniziò con qualche seduta terapeutica, ma non fece altro che peggiorare. Passò di mano a cinque analisti diversi e nessuno di quegli incompetenti riuscì ad aiutarla. Non parlava quasi più e non riusciva a sopportare la vista del suo volto. Copriva tutti gli specchi perché non riconosceva più il suo riflesso. "
" D.D.I.? "
La domanda di John zittisce Sherlock, che si volta a fissarlo. Annuisce, con un'ombra di tristezza in quegli splendidi occhi azzurri.
" Esatto. " Buffo come a causa di un semplice sms certi ricordi che una persona chiude nel cassetto più basso del proprio palazzo mentale riemergano di colpo e senza nessuna pietà, pensa il consulente investigativo. " Furono gli analisti di un rinomatissimo ospedale psichiatrico di Oslo a confermare che Cale soffriva di questo disturbo. Ammetto che nel momento in cui Mycroft ha iniziato ad avere abbastanza autorità per fare ciò che voleva si è messo subito all'opera, ma non è stato abbastanza rapido. Un giorno Cale è completamente... impazzita. Ha soffocato Redbeard con le sue mani e quando è tornata in sè non ricordava di averlo fatto. Adoravo quel cane " aggiunge Sherlock, esitando " è stato proprio il suo ricordo a impedirmi di cadere in stato di shock, quando Mary mi ha sparato. "
John deglutisce, sforzandosi di restare calmo. Sente gli occhi pizzicare e ha una fottuta voglia di alzarsi in piedi e abbracciare il suo amico. Oppure, dirgli semplicemente qualcosa... qualunque cosa possa suonare minimamente di conforto, perché dietro quella facciata imperturbabile avverte l'afflizione nella voce di Sherlock, il dolore in quelle parole che per tutto il tempo ha cercato di non far suonare spezzate. " Era diventata pericolosa. Alla fine Mycroft ha fatto in modo che venisse trasferita in quell'ospedale a Oslo, un centro di cura all'avanguardia, protetto da migliori sistemi di sicurezza, perennemente sotto controllo e  gestito da medici che sanno fare il proprio lavoro. Almeno, così mi ha assicurato. Io non sono mai andato a farle visita. "
Sherlock lancia il teschio a John, che lo afferra al volo. " Nel corso degli anni, il padre di Victor è morto e lui si è unito a una banda di terroristi che praticavano traffico illegale di diamanti e avevano un grosso giro di prostituzione. Sei anni fa Mycroft è riuscito a scovare lui e tutti i suoi componenti. Avremmo tanto voluto trovarci faccia a faccia con Victor, entrambi " mormora Sherlock, unendo le mani sotto il mento, perso in chissà quali ricordi " Ma lui si impiccò prima che gli agenti di Mycroft riuscissero a catturarlo. Però ho conservato un suo souvenir, come puoi vedere. " conclude sorridendo, con un'esplicita occhiata verso il teschio.
Non appena sente queste parole, John lo molla sul tavolo con un'espressione di totale disgusto e sgomento. Assurdo. Ha preso in mano un'infinità di volte quel coso, ma ora il solo pensiero di toccarlo gli fa ribrezzo.
" Cos'è quella faccia, John? È ottimo come posacenere, l'hai detto tu stesso. " ironizza Sherlock.
" Non sei mai andato a trovarla? " mormora il dottore " E in tutto questo tempo non c'è stato nessuno miglioramento? "
" No e non ci sarà mai, finché lei continua a bloccare qualsiasi tentativo di avvicinamento. "
John scuote la testa " Non capisco. "
" Ha usato il suo palazzo mentale per isolarsi. Gli analisti ritenevano che il Disturbo Dissociativo avesse avuto origine in seguito al suo tentativo di rifugiarsi da quel trauma infantile, e che in questo modo Cale si sia dissociata da se stessa, creando una nuova identità convinta di non aver subito alcuna molestia, ma al contempo incapace di riconoscere qualcuno, nemmeno i suoi famigliari. Nostra madre non ha reagito granchè bene alla notizia."
" Oh, Dio... " è tutto ciò che esce dalla bocca di John, mentre si strofina la fronte " Sherlock, io... mi dispiace tanto. "
" Sì, be'... presumo che ogni famiglia abbia i suoi scheletri nell'armadio. "
" È questo il motivo della faida tra te e Mycroft? " la domanda gli sfugge senza il suo permesso, ma non può farne a meno. Quante volte aveva provato a immaginarsi la ragione dell'astio tra di loro? Ricorda la volta in cui aveva accusato Mycroft di aver rotto il suo Action Man... la vergogna e l'imbarazzo che prova per se stesso in quel momento è indescrivibile.
" Mycroft cerca sempre di ricordarmi una lezione che ha imparato sulla sua stessa pelle. " risponde Sherlock.

" Caring is not an advantage. "

" Ok. " John fa un respiro profondo, prima di raddrizzarsi. " Però non capisco una cosa. Perché me l'hai raccontato? "
" Per via di questo. " Sherlock balza di colpo giù dal divano, raggiungendo il tavolino e recuperando il suo cellulare. Sventola un sms in faccia a John con impazienza. " Me l'ha inviato Mycroft mezz'ora fa. Lui fa in modo che tutto sia sempre sotto il suo controllo e questo comprende anche Cale. Quarantaquattro minuti fa qualcuno ha hackerato il sistema di protezione dell'ospedale psichiatrico di Oslo, disabilitandolo completamente. Quando il sistema è tornato attivo, hanno scoperto che era scomparso il paziente numero 1011. "
" E a chi corrisponde quel numero? " gli chiede John, anche se sa che è una domanda inutile, così come lo sarebbe chiedere l'identità del misterioso hacker.

                                                                                                           ____________________
 

 

Ospedale psichiatrico di Oslo.
Quarantacinque minuti fa.


 

Cale canticchia a bocca chiusa, sdraiata su un letto bianco, quando sente la porta della sua stanza aprirsi. È già ora di cena? No, impossibile.
Forse è un'altra ispezione a sorpresa. Non si fidano molto di lei.
Si mette a sedere e osserva l'infermiere che entra con passo leggero, quasi danzante, piazzandosi di fronte a lei.
Non l'ha mai visto prima; è giovane, ha i capelli neri pettinati con cura e occhi, se possibile, ancora più scuri.
" Chi non muore si rivede " esulta, con un sorriso che non promette niente di buono " Ti sono mancato? "
" Che cosa vuoi? " sussurra, mettendosi sulla difensiva.
" Oh, no no no, non avere paura, tesoro. Non è il caso. " si avvicina, chinandosi appena per osservarla, come si fa con un esemplare raro in uno zoo. " Come sono maleducati a tenerti rinchiusa qui tutto il giorno. Un tale spreco...! Credo che non capirò mai cosa passa per la testa di tuo fratello. "
Sotto il braccio lo sconosciuto regge quello che sembra un cappotto.
" Adesso ti porto fuori. Il gioco ricomincia da capo. " le sue dita si stringono attorno al bracciale identificativo di Cale - n. 1011 -, tirando finché non lo staccano. " Questo non ti servirà più. Non ti stava bene, comunque. " si interrompe, leggendo il nome sulla striscia plastificata " Sherrinford? Questa è la tua copertura? Sul serio, Sherrinford? " si concede una risatina, roteando gli occhi fino a mostrare soltanto il bianco, una visione che avrebbe fatto piangere un bambino " Be', in effetti sembra più un nome da femmina. "
La afferra dolcemente per i gomiti, aiutandola a mettersi in piedi, poi le fa indossare il giaccone.
Cale lo lascia fare. " Chi sei tu? "
" James Moriarty " si presenta, inclinando appena la testa, in quello che sembra essere un ironico inchino. " Per gli amici Jim. Ma per te, vediamo... sarò il vento dell'ovest. "
A Cale sfugge una risatina; quel nomignolo le fa tornare in mente qualcosa a cui non pensa da tanto tempo.
" E perché? "
" Perché, mia cara Calanthia... " sussurra Jim, a pochi centimetri dal suo volto, mentre solleva il cappuccio del cappotto in modo da celare i suoi lineamenti " Quando il vento dell'ovest si scontrerà con quello dell'est, sarà meglio coprirsi bene. È previsto un  devastante uragano. "


 




Note finali: Sinceramente al momento non mi viene nulla da dire. Credo di aver scritto fin troppo... solo un paio di cose:

* Non so se Violet sia il vero nome della madre di Sherlock, ma leggendo in questo fandom ho notato che in molte fic viene usato questo nome, così ho deciso di tenerlo.

* Lo so, il finale è abbastanza ambiguo, ma non me la sentivo di approfondire ulteriormente. Non ho mai scritto una one-shot così lunga, ma è da tre giorni che non mi fermo, dovevo assolutamente portarla alla fine.

Grazie a chiunque sia riuscito ad arrivare fin qui ( e complimenti per la tenacia ) :P

Un bacio,

Luce L.

 

   
 
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