Una
grigia e fredda mattinata di gennaio in cui si ritrovò a passare per caso a Baker Street (nella realtà
per la visita domiciliare di routine), John Watson non avrebbe mai immaginato che
di lì a breve gli sarebbe stata offerta l’incredibile opportunità di studiare
gli effetti di un’Apocalisse.
Ma
partiamo con ordine e raccontiamo le cose come conviene, dal loro principio.
Tarli
del pensiero
John
infilò le chiavi nella serratura del 221B di Baker Street. Si pulì con
scrupolosità le suole delle scarpe sullo zerbino, quindi entrò.
La
sua prima reazione fu demoralizzata.
Avvilito,
cercò di non prestare orecchio alla cacofonia di suoni atroci che proveniva da
quello che era stato anche il suo appartamento. Strimpelli tali da far rizzare
i capelli e accapponare la pelle in un istinto di agghiaccio.
Mrs
Hudson gli corse incontro, trafelata. Aveva la messa in piega fuoriposto e
un’espressione inferocita e desolata insieme. “Oh, John! Sono tanto felice che
tu sia venuto.”
John
spostò il peso da una gamba all’altra, il mazzo di chiavi ancora in mano, assolutamente
preso in contropiede. Alla fine si decise a sorriderle. “Grazie, Mrs Hudson.
Anche per me è un piacere. Suppongo che, non vivendo qui, pochi giorni possano
sembrare tanti di più.”
Mrs
Hudson gli riservò un’occhiata stupita, ansiosa. “Non lo sai?”
“Sapere
cosa?”
“Pensavo
fossi venuto perché sapevi!” Mrs Hudson sembrava sull’orlo di una crisi di
nervi.
“A
costo di ripetermi e fare la figura dello sciocco”, domandò John, “sapere cosa?”
“Molly”,
rispose Mrs Hudson. Si stropicciò le mani. “Temo che lei e Sherlock abbiano litigato.
Non era mia intenzione origliare, ma queste pareti sono talmente sottili! Si
sente tutto.”
“Molly?”
John sentiva di dover avere un’espressione quanto mai intontita. “È stata qui?”
“È
quello che ho detto.” Mrs Hudson lo guardò con severità.
“E
ha litigato con Sherlock?”
“Un
vero litigio”, annuì lei, portandosi una mano al viso. “Se non conoscessi
quella cara ragazza, mi preoccuperei. Era talmente stravolta quando è scesa!
Non ha neppure voluto una tazza di tè.”
John
volse gli occhi alle scale che portavano al piano superiore, da cui proveniva una
marcia funebre con tanto di diavolo alle calcagna. Eseguita quella, Sherlock
attaccò uno dei Lieder di Mendelssohn, in una versione più rabbiosa e accanita.
Sembrava
posseduto dal peggiore degli spiritelli pestiferi delle fiabe popolari. Di
quelli che facevano inacidire il latte e bruciare il pane nel forno.
“E
da allora Sherlock è così?”
“Suona
da ore e ore. Se non lo fermi, ho paura che le mie povere orecchie cadranno.”
John
si sfregò più volte il viso, pressandolo con le dita come se la pelle fosse
cera o gomma elastica, non carne pulsante. Come se potesse cacciar via a viva
forza l’immagine da quadro crepuscolare che avrebbe osservato di lì a poco, la
nube di malumore e tetraggine e cupezza che avrebbe respirato, simile a miasma
da smog o alle esalazioni pestilenziali di un sigaro. All’improvviso la
giornata, iniziata con le migliore prospettive, mutava in catastrofe
preannunciata.
Salì,
sotto lo sguardo solidale e tragicomico di Mrs Hudson, consegnandosi al nemico.
Non che avesse altra scelta
d’altronde.
*
Il
tempo era relativo. Scorreva a rilento nei momenti di noia, accelerava di colpo,
scandendo i pedinamenti, le fughe a precipizio.
Era
altalenante, iniquo.
Inaffidabile come l’uomo
nella sua emozionale idiozia, secondo il Verbo di Mycroft.
Il
tempo aveva la capacità di durare un’eternità o non avere durata.
Sembianze,
apparenze, consuetudini: maschere dietro cui poteva celarsi il babau di ognuno,
oppure il suo vero volto.
Il
tempo non era meno terrificante. Un avversario temibile, a volte. Un alleato
provvidenziale, altre.
Da
lontano, molto lontano, oltre il basamento di una catena di gradini che formava
una lunghissima spirale di rampe, trentadue corridoi e quattrocentotre stanze
più in là, Sherlock ascoltava il
fastidioso mormorio di una voce che arrivava ad interrompere le sue
meditazioni.
Chiuse
qualche porta, abbatté un certo numero di pareti per crearne di più spesse.
Di
nuovo il silenzio. Bene.
E
ancora, insistente, quella voce a perseguitarlo, ad infilarsi nelle crepe e nei
pertugi.
Il
tempo era relativo, ciò nonostante c’era sempre qualcuno disposto a sprecarlo
in volgari consumi.
Batté
le palpebre.
“Sherlock,
mi ascolti?” stava chiedendo John.
Non
si diede pena di rispondergli. Si massaggiò le tempie con lenti movimenti
circolari, per disperdere gli accumuli di stanchezza.
“Devi
risolvere la questione in sospeso con Molly”, disse John.
E
Sherlock lo focalizzò. Capelli spettinati dal vento, non sbarbato di recente.
Abiti gualciti a causa degli spostamenti sui mezzi pubblici. Oltre alla
colonia, spuntato e preciso come pochi altri odori, quello del fioraio accanto
a cui era stato seduto in metropolitana.
Registrò
la porosità della luce che filtrava nella stanza, l’umidità atmosferica.
Sei del pomeriggio. 9o.
Sherlock
congiunse i polpastrelli davanti al viso. La stimolazione manuale delle cellule
cerebrali - riattivazione della circolazione sanguigna mediante frizione
dell’epidermide - non aveva dato i risultati sperati. Un banale mal di testa,
avrebbe detto John e gli avrebbe prescritto una buona dormita, o al massimo del
paracetamolo in qualità di analgesico.
“Davvero,
Sherlock. Stressa Mrs Hudson e si ripercuote sul resto di noi.”
Sherlock
ebbe un moto di spregio. Noioso. Noioso. Noioso.
“Non
ho alcuna questione in sospeso con Molly, ma se anche fosse non vedo in che
modo essa influirebbe sulle vostre vite. A meno che non siano piuttosto vuote.”
Mosse una mano per frenarne la risposta irruente. “No, non dirlo. È superfluo.”
Il
silenzio ottenuto, dopo la porta che John si sbatté dietro e nella traccia delle
sue invettive colorite, non fu il balsamo che Sherlock si era aspettato.
L’emicrania
erano minuscoli chiodi di dolore piantati nella fronte. Il dolore non
diminuiva, una linea di fuoco gli spaccava il cranio.
Sherlock se ne liberò come un vestito scomodo. Il suo
Palazzo mentale, eremo di benessere e pace, artifizio di una ragione
congeniale.
Il
profumo che captò nei corridoi – vago, capillare, sgusciante tra i sentieri
articolati delle sinapsi –, di fiori, camomilla o lavanda, e qualcosa di meno
dolce e più pungente: agrumi, forse?
Quando
ricordò a chi appartenesse, le pareti non furono più l’unica cosa che fu
costretto ad abbattere.
Non c’era stato alcun
fioraio.
Uccisore
di draghi. Assassino di pensieri.
Ma
lei non era un drago e quei pensieri erano avvisaglie. No, non pensieri. Tarli del
pensiero piuttosto, voraci e distruttivi, che rodevano e scavavano.
“Come
tu hai affrontato Mary?”
John
gli lanciò addosso dei vestiti, i suoi. “Il gioco è finito. Cambiati”, ordinò, con
collera. “Andiamo al Bart’s.”
Sherlock
fece una smorfia. I muscoli erano atrofizzati, le estremità degli arti vincolate
a una rigidità plastica per aver sollecitato un’eccessiva tensione muscolare,
soggette a forti tremori che con un’estrema forza di volontà riuscì ad
arrestare. Cercò di ricordare quando si fosse alzato l’ultima volta. Si tastò
le guance, la mascella. Lanugine di tre giorni. “Perché dovrei?”
John
gli puntò l’indice contro, la voce ridotta ad un sussurro veemente che aveva
ogni intenzione di suonare intimidatorio. “Tu ora ti vestirai, mangerai
qualcosa e dopo andremo al Bart’s dove chiarirai una volta per tutte con Molly,
mettendo un punto di chiusura a questa assurda situazione. Che la cosa ti
piaccia oppure no. Non si discute.”
Lo
guardò in faccia e la rabbia impressa nelle rughe attorno agli occhi e alla
bocca decrebbe di colpo. John ci passò una mano sopra, per disperdere i
residui. “Dio, Sherlock. Da quanto non dormi? Hai un aspetto orribile.”
L’aspetto. Che tattica mediocre.
Il corpo non era che un’estensione della mente, burattino nelle mani competenti
del burattinaio.
Ed
eccolo il suo aspetto. L’esteriorità per cui il mondo intero mostrava
un’attenzione maniacale e pleonastica. Eccolo riflesso nella preoccupazione
che divampava negli occhi di John, un incendio caldo, non di quelli devastanti.
“Non
farlo, Sherlock. Non tornare ad essere il menefreghista egoista che eri. Da
quando sei tornato, avevo… sembravi diverso.
Sempre misantropo e scontroso come un orso, ma – Dio!, c’era un barlume, sì. Si
era acceso questo barlume di umanità.” John serrò le mani attorno alle sue. Ora
era in ginocchio, di fronte alla poltrona, alla sua altezza visiva.
E
la faccia di John, la più comune delle facce, con naso, mento e tratti del
tutto ordinari, piacevoli e cordiali sì, ma passabili. Quella faccia divenne
straordinaria nel momento successivo, quello in cui mostrò una delle più
stupefacenti espressioni. Non era solo spossatezza, (sapeva di essere alquanto
abile nel portare allo sfinimento le persone), non era solo inquietudine, era
esasperante indignazione ciò che il volto di John Watson intendeva comunicare.
Era l’insieme di parole-chiave che servivano ancora allo scopo principale di
sbalordirlo.
“Non
calpestarlo. Lascialo esistere. Ti sto pregando. Non uccidere l’uomo che sei
diventato. Provare emozioni, un minimo di empatia o compassione, non ti renderà
meno acuto, non trasformerà il consulente investigativo che sei.”
Amicizia, affetto,
stima, fiducia.
Sherlock
affondò le dita nei braccioli della poltrona. Dovette esercitare una pressione,
lottare contro la resistenza del rivestimento di pelle dura.
Non
voleva provarne l’eco. Ciò che desiderava era lucidità, trasparenza, piena
accessibilità alle informazioni utilizzabili. Non disorganizzazione, la bolgia
di dati e nozioni che qualunque stupido era pronto a far passare per
“intelligenza”. Ruggine sulla moneta di rame disossidata che era la sua
logica.
“Non
lascerò che le vostre emozioni mi indeboliscano.”
“Deboli?
È così che ci vedi? È questo che significa mostrare di avere un cuore per te?
Che razza di mondo è uno in cui non si prova nulla?”
“Il
mio.”
John
atteggiò le labbra in un sorriso ironico, tagliente. “Deve far molto freddo in
un mondo in cui non si vuole nessun altro. Goditi la solitudine, se è ciò che
desideri. Sei un cocciuto e di sicuro è quello che meriteresti, ma sai una
cosa?” John indicò se stesso. “Io lo sono più di te.”
Sherlock
lo vide alzarsi e andare a sedersi sulla sua poltrona. “Cosa credi di fare?”
“Resterò
qui, che ti piaccia oppure no, finché sarà necessario.”
“Mary
potrebbe spararmi di nuovo per averti tenuto lontano dal tetto coniugale.”
“Correrò
il rischio.”
Di
nuovo, si ritrovò a pensare, il tempo era un animale sfuggente e schivo, restio
a lasciarsi analizzare e ritroso alle manifestazioni espansive. Poteva piacergli.
“C’è
qualcosa che ti preoccupa. Qualcosa di diverso dalla discussione con Molly.”
Sherlock
lo fissò, in un crescendo di fastidio e irritazione. “Continua, John. Le tue
deduzioni mi divertono.”
John
non abboccò. “È lui?” Aveva preso un giornale. Scorse la prima pagina e poi lo
volse affinché anche lui potesse osservarla.
Come se fosse
necessario.
Sherlock
sapeva cosa vi avrebbe trovato stampato ancora prima di vederla. Una
gigantografia a colori di un primo piano in cui Moriarty ostentava il suo
sogghigno trionfante e folle e sotto, la dicitura in grassetto maiuscolo: È vivo? Il Ladro della Corona è ricomparso?
“È
davvero tornato? Non potrebbe trattarsi di un falsario? Un’imitazione? Non
sarebbe la cosa più strana che ci è capitata.”
“Sarebbe
una circostanza quanto mai fortuita. Inoltre le coincidenze non esistono.
Esistono solo persone ottuse, incapaci di guardare al di là dei loro nasi e
cogliere gli elementi di comunanza.”
“Fortuita?
Credi che qualcuno ai piani alti abbia inscenato tutto questo per revocare la
tua sentenza?”
“Ovvio
che no, ma non ritengo una coincidenza
che si sia rifatto vivo solo quando occorreva un motivo che mi riportasse a
Londra.”
Sherlock
osservò la mente di John tirare le fila del ragionamento dopo gli input
forniti. Ne studiò la reazione sconcertata.
“Se
era vivo”, domandò John, “che senso ha avuto fingere per tutto questo tempo il
contrario? Ti ha lasciato smantellare la sua rete criminale, senza
ripercussioni su di me, Mrs Hudson o chiunque altro. A che scopo provocarti in
quel modo, sul tetto del Bart’s, se le sue erano solo minacce vuote e non
mirava a metterle in atto? Che fottuto bastardo!”
“Devi
capire che la mente di Moriarty non ha un andamento rettilineo, ma lavora in
curve di funzioni e anomalie. La sua attenzione è come un’onda, una
perturbazione che si propaga a seconda del momento. In quel momento gli faceva
comodo scomparire e che io facessi altrettanto. Ha lasciato che abbattessi la
sua rete criminale perché voleva che io
lo facessi. E se non vi ha ucciso è perché non gli avrebbe portato alcun
profitto. Mi ha tenuto lontano da Londra per due anni, rimanendo nell’ombra
come un serpente strisciante. Osservando e tacendo, attendendo di far scattare
la sua trappola.”
“E
qual è la sua trappola?”
Sherlock
aggrottò le sopracciglia. Si alzò con uno scatto repentino. “Non lo so, ma ho
tutta l’intenzione di scoprirlo.”
Alla
luce di quelle nuove considerazioni, appianare il diverbio avuto con Molly
diventava prioritario, della massima urgenza. “John. L’ora.”
Se
John fu stupito da quello sbalzo d’umore – la catatonia cedeva il passo al
dinamismo interiore, di fronte alla ferma ragionevolezza di un intelletto in
pieno fermento da attività cognitive –, non lo diede a vedere. Controllò l’ora
sull’orologio da polso. “Sono le sei e trentacinque. Perché?”
Sherlock
non gli badò. “Troppo tardi per andare al Bart’s. Andremo al suo appartamento.
John, prendi il cappotto.”
John
non si mosse.
Sherlock
si voltò per puntargli addosso uno sguardo contrariato, innervosito dalla sua
lentezza nell’eseguire un ordine tanto elementare.
“Se
davvero vuoi andare da Molly,” (Sherlock imprecò, stizzito, per la banalità di
quella considerazione quando tutti gli elementi ne esponevano l’ovvietà) “non
ti consiglio di presentarti nelle condizioni in cui sei. Da quant’è che non ti
lavi?”
E
Sherlock riconobbe l’utilità di alcune pratiche sociali. Si annusò cautamente. L’aspetto
in quel caso avrebbe potuto giocare a suo favore, determinando l’esito della partita.
Mentre
lui schizzava in bagno, fulmineo, assicurando: “Dammi cinque minuti”, John
nascose poco e male un sorriso di derisione. “Diciamo pure dieci.”
L’appartamento
di Molly non aveva subito mutamenti considerevoli o drastici in quei mesi. Una nuova
fragranza per l’ambiente, una nuova lampada posta strategicamente in un angolo
poco luminoso.
Aveva
comprato una quantità considerevole di libri. Quelli usati, con le coste di
pelle cadenti e la rilegatura rigida, - saggi e trattati scientifici, volumi e
manuali di studio - erano riposti con cura nella libreria a muro. Quelli nuovi,
invece, - letture di piacere, dilettevoli e fatue - erano impilati in una
colonna traballante contro la poltrona di fianco al divano sui cui spaginava un
libricino dall’aria usurata.
Sherlock
lesse il titolo sul frontespizio, lo intascò nel soprabito e continuò il
sopralluogo, aggirandosi nell’appartamento deserto come un leone in gabbia.
Toby
spuntò dalla porta aperta della cucina e si accostò agli intrusi.
Riconoscendolo, miagolò un bentornato e gli si strusciò contro le caviglie,
facendo le fusa. Sherlock si piegò per accarezzarlo tra le orecchie, dopodiché
lo vide scappare in direzione della camera da letto.
John
inarcò le sopracciglia. “Hai l’aria di conoscerlo piuttosto bene.”
Sherlock
mosse una mano, in un gesto di distratta conferma. “Finto suicidio. Janine, “
contò sulle dita. “Lunga storia.”
John
sospirò. Si sfregò il retro del collo. “No, per niente. In effetti l’hai
sintetizzata alla perfezione.”
A
differenza sua, si muoveva con circospezione, presumibilmente sentendosi in errore
per essersi introdotto in casa d’altri senza permesso. Come l’aveva definita?
Ah, sì: effrazione.
John
indicò un tappetino di gomma arrotolato sotto un mobile. “Che tu sappia Molly
fa yoga?”
“Autodifesa”,
lo corresse con disinvoltura.
Non
si meravigliò della sua espressione stupita. La dolce, mite e fondamentalmente innocua Molly Hooper che tirava pugni
e calci? John sarebbe rimasto allibito vedendola in azione.
“Immagino
non sia un’idea completamente sua.”
“Un
mio consiglio che lei ha accettato di buon grado.”
“E
quel giradischi?”
“Era
di suo padre”, rispose Sherlock, senza guardare nella sua direzione.
“Oh.”
All’esclamazione
sommessa di John, Sherlock ruotò la testa. “No, quello è mio.”
La
faccia di John era esilarante. “Davvero, Sherlock? Quale persona sana di mente lancia
freccette ad una foto di se stesso?”
Di
nuovo di spalle, Sherlock arricciò le labbra in un sorriso divertito. “Molly mi
ha proibito di usare le sue foto e avevo finito quelle dei quotidiani a
disposizione. Inoltre non le dava fastidio.”
“Non
ne dubito.”
Sherlock
finse di non aver colto quell’ultimo apprezzamento.
Improvviso
silenzio. Se ne accorse un secondo troppo tardi. Quando gli arrivò alle narici
il suo profumo – sfumato, persistente, affusolato come solo certi tarli
riuscivano ad essere. Tarli del pensiero.
Lavanda e limone.
Ruotò
su se stesso e affrontò lo sguardo di lei, pronto a scorgervi dentro rabbia.
Non ne trovò.
C’era
solo stanchezza e una sdrucciola, lieve, ma non per questo più tollerabile
impronta di sconfitta che non le aveva mai visto, prima.
Molly
lasciò andare la presa attorno alla borsa, che cadde sul pavimento con un tonfo.
“Cosa fate nel mio appartamento?”
*
Molly
sapeva di avere una personalità piuttosto semplice da analizzare.
Tendenzialmente pacifica, disponibile, quieta.
Non
sarebbe stato da lei, prima, alterare la voce in toni gridati, non sarebbe
stato da lei tirare schiaffi a chicchessia. Ma era esattamente da lei – stupida, stupida lei - lasciare un ragazzo
gentile e premuroso in nome dell’amore verso un sociopatico iperattivo, manipolatore
ed ex-drogato.
“Ho
detto: cosa ci fate nel mio appartamento?”
John
era palesemente a disagio. Non era difficile supporre che fosse stato
trascinato a forza dall’uragano Sherlock in uno dei suoi folli piani o più
probabilmente che avesse deciso di seguirlo per limitarne i danni.
“La
vedo brutta”, lo sentì dire sottovoce.
E
Molly non poteva essere più d’accordo.
Si
sbottonò il cappotto e lo appoggiò sullo schienale della poltrona. “Devo
ricordarmi di cambiare la serratura.”
Sherlock
annuì, con l’aria di approvarla. Lui, ovviamente,
era del tutto a suo agio. “E di farla rinforzare magari. È stato piuttosto
semplice entrare usando una delle forcine di Mrs Hudson.”
Molly
lo osservò. Non stava sorridendo, ma c’era una luce riconoscibilissima nei suoi
occhi. Erano trasparenti come vetro, austeri e solenni, tediati, ma anche
sarcastici, canzonatori. Arguti. “Hai
usato le chiavi di riserva”, lo sbugiardò.
Sherlock
non batté ciglio, le mani intrecciate dietro la schiena. “Vero, ma se avessi
voluto entrare usando una forcina ci sarei riuscito. E una volta entrato io qualunque
delinquente di bassa lega potrebbe fare altrettanto.”
Molly
fece un cenno, come a dire che se ne sarebbe ricordata. “Cosa vuoi, Sherlock? È
stata una giornata pesante.”
Lo
sguardo di Sherlock la scandagliò. Sembrava dirle che lui sapeva. Sapeva che aveva sofferto di insonnia negli ultimi giorni,
della sua perdita di appetito, del fatto che per tutto il tempo, tutto lo
stramaledetto tempo, Molly non aveva fatto altro che pensare a lui. A quanto
avrebbe dovuto essere arrabbiata con lui per averle mentito, a quanto avrebbe
dovuto odiarlo per quello che le aveva fatto. A quanto poco, a conti fatti, le
importasse di cosa avrebbe dovuto provare e a quanto fosse intimamente grata,
sollevata che lui fosse tornato di nuovo.
Sono tornato per restare, aveva detto.
“Vieni
a vivere a Baker Street.”
“Cosa?”
domandò Molly, sicura di aver avuto un’allucinazione uditiva.
“Cosa?”
fece eco John. Sul suo viso passarono una gamma di emozioni differenti. Molly
si rendeva conto di non essere da meno, di averne dipinte anche lei una miriade,
come in un caleidoscopio. John si accorse di aver parlato ad alta voce. Si strinse
nelle spalle, contrito. “Scusate.
Continuate pure.”
Con
una certa vergogna, Molly si accorse di aver quasi dimenticato la sua presenza
fino all’attimo precedente.
Anche
Sherlock, a modo suo, appariva infastidito dall’interruzione. Lanciò a John
un’occhiata di disapprovazione, quindi tornò a puntare gli occhi su di lei. Assomigliavano
ad argento liquido.
“È
una specie di scherzo?” volle sapere Molly. Perché se lo era, era il più
crudele che le potesse venire in mente e si ripromise che gliela avrebbe fatta
pagare con gli interessi.
Sherlock
aggrottò le sopracciglia. Sembrava offeso, quasi l’ipotesi fosse un insulto
alla sua persona.
Sul serio, Sherlock?
“Io
non scherzo mai. La considero un’abitudine malsana e-”
“Balle”,
lo interruppe Molly con rabbia, senza neppure capire cosa di preciso, in tutta
quella faccenda, l’avesse fatta arrabbiare così tanto. “Tu non fai altro che
prenderti gioco del prossimo, di chi ti è antipatico o ti pare troppo stupido.
Ti fai beffe dei clienti quando credi che i casi che ti presentano non siano
abbastanza interessanti o alla tua altezza.”
“Non
intendevo prendermi gioco di te”, scandì Sherlock, pacato.
“Bene.”
Molly incrociò le braccia contro il petto. “Allora cos’era? Un esperimento? Un
modo per costringermi a parlarti?” lo torchiò.
“Era
una proposta”, disse Sherlock, battendo le palpebre, come se fosse colpito
dall’idea che si era fatta al riguardo. “Un’offerta di pace.”
“Non
comprerai il mio perdono.”
Di
nuovo, Sherlock si accigliò. “Non ne avevo l’intenzione.”
“Allora
cos’è che vuoi?”
“Credevo
fosse evidente. Voglio che tu venga a vivere a Baker Street. Con me.”
“Questo
lo hai già detto”, gli fece notare Molly con rimprovero, senza lasciarsi
impressionare o intenerire dall’aria di perplessità e confusione sul viso di
lui.
“E
tu non mi hai risposto.”
“Perché?”
Sherlock
prese un respiro profondo. “Non ti dirò amene sciocchezze.”
“Non te ne chiedo.”
“Quando
mi hanno sparato…”, iniziò Sherlock e se non lo avesse conosciuto Molly avrebbe
giurato che quella nella sua voce fosse una nota esitante, il dubbio assurdo di
dire la cosa sbagliata. “Tu eri là. Insieme a Mycroft e Anderson. C’era anche
il mio cane Barbarossa. Lo abbatterono quando ero-”
“Sherlock”,
lo ammonì John, simulando un colpo di tosse. Arriva al punto, amico.
Sherlock
annuì, come a dire: Giusto.
“Tu
eri là”, ridisse, gravemente. “Se sono sopravvissuto lo devo a te. È merito
tuo.”
“No.”
Molly scosse la testa, deglutì a vuoto. Non sapeva cosa pensare. “Lo devi solo
a te stesso, al fatto che sei geniale.”
“Molly.”
Sherlock allungò una mano e gliela poggiò su una guancia. La sfiorò piano, -
una punta di trazione, quasi si stesse trattenendo, dietro la patina di
dolcezza -, con qualcosa di simile alla gentilezza. Ed era straordinario, pensò
Molly, come mani così grandi potessero riservarsi di usare anche un tocco tanto
delicato, leggero. Se lo sguardo di Sherlock era pesante come sbarre d’acciaio,
le sue mani, nervose e smaniose, erano impalpabili come aria.
“La
mia mente mi ha mostrato una persona precisa perché sapeva che non mi sarei
fidato di nessun altro con la stessa immediatezza. Mi hai salvato la vita una
volta, Molly Hooper. Lo hai rifatto una seconda.”
John
simulò un altro colpo di tosse. Le parve di cogliere un “Melodrammatico”.
Molly
non riusciva a distogliere lo sguardo. Si sentiva sopraffatta. Ancora una volta
ebbe la sgradevole sensazione di essere divisa in due. C’erano due Molly: una
che piangeva, commossa e un’altra che sbraitava, scontrosa. Ed entrambe avevano
ben in chiaro quale reazione pretendere.
Si
costrinse a staccarsi e fece un passo indietro, disorientata.
“Vedi
come fai?” mormorò, disprezzando la propria voce rotta, sbrecciata. Rialzò gli
occhi, odiando il velo di lacrime che li riempiva. “Sei impossibile!” lo accusò.
“Puoi essere un genio, ma rimani uno stupido per quanto riguarda tutto il
resto!”
“Sono
d’accordo”, condivise John, prima di essere tacciato da uno sguardo glaciale di
Sherlock.
“Non
puoi piombare in casa mia e pretendere - pretendere, neppure chiedere! -”
protestò Molly, esterrefatta, “che io venga a vivere con te!”
Sherlock
roteò gli occhi, chiaramente seccato dalla piega imprevista che la
conversazione aveva preso. Forse si era aspettato che lei gli gettasse le
braccia al collo e gli dichiarasse imperituro amore. Be’, se era così, era
cascato male, malissimo. “Per l’amor di Dio, Molly”, proruppe. “Non ti ho
chiesto di sposarmi.”
“Ma
cosa mi hai chiesto?” ritorse Molly. “Mi piacerebbe che tu me lo spiegassi,
Sherlock.”
“Ti
ho chiesto di stare con me.”
“Lo
hai fatto?”
“Lo
sto facendo adesso.”
E,
mirabile dictu, le sorrise.
Assomigliava lontanamente al sorriso da psicotico del Joker, davvero, ma Molly
cercò di focalizzarsi sul proposito e non sull’esito.
Gli
si avvicinò, incerta, gli poggiò le mani contro il petto, sul punto in cui
sapeva esserci la cicatrice recente della ferita da arma da fuoco che l’aveva
quasi ucciso. La ferita per cui era morto sul serio, anche se per pochi minuti.
Tu eri là. Tu mi hai
salvato.
“Perché
ora?” Molly sollevò lo sguardo. “Perché proprio adesso? Devo saperlo.”
Sherlock
esitò un istante, quindi annuì. “Moriarty è astuto. Non impiegherà molto a desumere
la tua implicazione nel mio suicidio. Tenerti fuori dal cerchio ora è inutile.”
“E
io non te lo lascerei fare”, mormorò Molly di rimando. “Sei serio?”
Sherlock
non rispose, non a parole. Le prese le mani e se le portò davanti al viso, poi
premette le labbra contro le nocche e il dorso. Le sue labbra erano fredde,
sottili, ma Molly si sentì lo stesso piccola e meschina per aver dubitato di
lui.
Le
sfuggì un sospiro vibrante. “Ti darò dell’insensibile ogni volta che mi farai
arrabbiare. Qualche volta potrei anche prenderti a schiaffi.”
“E
io potrei soffrire di sbalzi di umore.” Sherlock ci ragionò sopra. “Due o tre
volte al mese.”
“Facciamo
tre o quattro”, intervenne John.
Molly
rise. “Non sarà facile.”
“Qualcuno
mi ha detto che non lo è mai. Andiamo, Molly.” Sherlock le strizzò l'occhio.
“Sociopatico, iperattivo. Perché non chiudere il cerchio? Non è una sfortunata
coincidenza. È il tuo destino.”
“Già”,
riconobbe Molly a fior di labbra. “E io non ne vorrei uno diverso.”
Sherlock
si sporse in avanti per baciarla. Stava sorridendo.
John
si schiarì la gola.
“John”,
si rivolse a lui Sherlock, in tono di blanda minaccia, senza scostare gli occhi
da lei.
“Okay,
ho ricevuto il messaggio.” John aprì le braccia e si coprì le palpebre con i
palmi aperti delle mani. Fischiettò un motivetto. “Fate come se non ci fossi.
Anche se prima non vi siete fatti tutti questi scrupoli.”
“Seriamente,
John. Con Janine non mi hai creato gli stessi disagi.”
Molly
cercò di evitarlo, di non irrigidirsi. Non ci riuscì.
A
Sherlock non sfuggì. “Ho detto qualcosa di indelicato?”
“No,
non troppo”, smentì Molly, spianandogli con le dita le pieghe che gli increspavano
la fronte. “Non più della volta in cui ti ho detto che io e Tom stavamo facendo
un sacco di sesso.”
Sherlock
fece una smorfia. “Un’osservazione infelice e decisamente inappropriata.”
“Ragazzi”,
li richiamò John dal suo angolino. “Davvero troppi particolari. Se poteste
evitare, ve ne sarei… uhm, grato.”
Molly
scoppiò a ridere. “Scusa, John.”
Sherlock
la abbrancò per la vita, lasciò che gli si addossasse contro. Sollevò solo un
angolo di bocca, una falce di sorriso persuasivo che riempiva la sua visuale. “Allora,
Dottoressa Hooper, verrai a stare a Baker Street?” domandò con fare insinuante.
“No.”
Sherlock
le rivolse un’occhiata ferita.
“No,
Signor Holmes”, disse Molly, avvolgendogli le braccia dietro alla nuca. Si allungò
sulle punte. “Io verrò a vivere con
te a Baker Street.”
John
fischiettava più forte che mai e l’intera situazione rasentava il ridicolo e il
grottesco, ma, davvero, avrebbe
potuto essere diversa, considerato il soggetto con cui aveva a che fare?
Anche
perché lei di quel soggetto stravagante era irrimediabilmente innamorata.
N/A:
Oddio.
L’ho finita. L’ho. Finita.
Non
ci credo, quasi. Facciamo un po’ più di quasi. Diciamo che non ci credo tanto.
Ci
lavoro sopra da una settimana, un’intera settimana in cui, mentre sviluppavo
questa, di per sé già abbastanza ingarbugliata nella mia testa, mi venivano
alla mente millemila altre scene che non c’entravano niente e che perciò mi
mandavano, ragionevolmente, ancora più in
confusione xD.
Ma
l’ho finita, anche se ora, a rileggerla, mi rendo conto che no, arcidiavolo,
non è affatto completa, perché manca la scena del benedetto litigio, il faccia
a faccia tra Sherlock e Molly, la chiave di volta che sostiene il tutto.
Anche
quella l’ho salvata da qualche parte, qui dentro – nella mia testa - o su
carta, non lo so, devo controllare. Quindi aspettatevi la vera conclusione –
oddio, ad essere precisi sarebbe il preludio – pubblicata tra tre, cinque,
sette giorni.
Ultima
nota. Come accidenti è possibile che mi riesca più semplice scrivere dal punto
di vista di Sherlock piuttosto che da quello di John? Qualcuno me lo spieghi. Sono
seria.
Alla
prossima, allora, con “Chiave di volta”. Perché sì, per me è ed è sempre stata
Molly la chiave di volta del cambiamento di Sherlock, lei che ha permesso un
cambiamento reale e duraturo.
http://www.youtube.com/watch?v=wR3t6vJOMe0&list=LLOOZUNCNzVeIvKsVfIxsmig
(I
Lieder di cui accennato sopra. Un omaggio al ciclo di romanzi di Doyle.)