E, dopo averci lavorato sopra per quasi
sei mesi, eccomi qua.
Mi sono divertita un botto a scriverla,
e spero che voi, leggendola, possiate fare altrettanto ;)
Era partita come una rivisitazione del
romanzo di Jane Austen, ma poi è passato in
secondo piano quando ho cominciato a fantasticarci su senza il libro sotto agli occhi, e alla fine è venuto fuori quello che
è venuto fuori. E in fondo non è che mi dispiaccia poi più
di tanto.
Sarà composta di una decina di capitoli (nonostante
tutte le mie buone intenzioni non l'ho ancora finita :/) e ne pubblicherò all'incirca uno a settimana.
Grazie infinite alla mia beta lalla_4 per il suo betaggio e un grazie anche a Giuls_18 per il sostegno e qualche letturina qua e là :3
Ora sparisco in fretta prima che mi
lanciate pomodori…
Buona lettura!
Love,
Gage.
~*~
Orgoglio e Pregiudizio
Capitolo 1
«J |
ohn, devi venire alla festa. Devi
distrarti un po’, dannazione! Non puoi
rifiutare un invito della Dimmock… Ci saranno tutti!» ripeté Mike per la terza
volta nello stesso giorno.
John portò gli occhi al cielo per poi
puntarli nel proprio piatto.
Nella mensa in cui si trovavano risuonava il solito
incessante brusio dato dal chiacchiericcio dei numerosi studenti che stavano
mangiando. C'era chi pranzava in silenzio al suo posto, inviando di tanto in
tanto un messaggio col cellulare o leggendo un libro, chi ascoltava musica e
chi invece discuteva della mattinata appena passata. Al tavolo dove sedevano
John e Mike in quell’istante c’erano solo un paio di ragazzine del primo anno
che sfogliavano alcune riviste lanciando di tanto in tanto qualche urletto di gioia alla vista di un attraente
cantante o sbuffi di delusione all’ennesima storia d’amore finita tra qualche
popolare coppia di attori hollywoodiani. John avrebbe tanto voluto strappare
loro di mano quelle cose o spostarsi in un altro tavolo, ma l’amico lo aveva
costretto a sedersi lì. Non era proprio un posto appartato e John si era
separato dagli amici della squadra di rugby solo perché aveva intenzione di
ripassare per il test di letteratura inglese del pomeriggio. Inutile dire che
di quel passo non avrebbe ripetuto nemmeno una parola.
«Oh, piantala! Ti ho già detto di no.
Perché devi fare tutte queste scene? È solo una festa!»
«Non è solo una festa, è la festa dell’anno.» lo corresse cocciuto l’altro.
«Dicono che abbia invitato anche un sacco di gente importante.»
«Come fa ogni anno?» commentò John
sarcastico, per poi addentare un bel pezzo di pollo che gli avrebbe tenuto
impegnata la bocca almeno per qualche minuto.
Mike lo guardò con tanto d’occhi e si
dilungò sui nomi degli invitati, la maggior parte dei
quali John conosceva solo per fama. «Gira voce che abbia
persino invitato alcuni suoi amici di Scotland Yard. Ti rendi conto? Quella ha
amici pure lì!»
John deglutì. «Ti ricordo che suo fratello
ci lavora, là dentro…» commentò sarcasticamente.
Mike fece un gesto d’impazienza con la
mano. «Andiamo John! Verrà tua sorella e tu no? Pensavo che avessi deciso di non lasciarla
più sola…»
John s’incupì. «Almeno questa volta spero
che userà il cervello.»
«Sei un idiota John.»
Il ragazzo sbuffò e si guardò intorno con
aria annoiata.
Come in ogni liceo che si rispetti anche
al Barts esisteva una specie di piramide sociale alla cui sommità si trovavano
i membri della squadra di rugby e le cheerleader a loro associate, mentre
alla sua base c’erano i cosiddetti secchioni e i più sfigati della scuola,
sempre isolati e il più delle volte con un paio di occhiali tondi sul naso. In
mezzo si vagava tra i membri delle varie squadre sportive (subito sotto a
quella di rugby) e gli svariati gruppi scolastici. C’era il club di astronomia, quello di cucito e
quello di cucina, il club di scrittura creativa e quello di lettura, canto
corale e canto coreografato. Solitamente durante la pausa pranzo i membri dei
vari club si riunivano ciascuno al proprio tavolo nella mensa e pranzavano tra
i loro coetanei e amici senza mai mischiarsi ai gruppi altrui. Poi c’erano
alcuni tavoli che venivano puntualmente lasciati
liberi perché “senza padrone” ed era lì che si sedevano coloro che ancora non
appartenevano ad un gruppo, solitamente quelli del primo anno, o chi, come John
e Mike in quel momento, desiderava prendersi un attimo di pace.
Proprio in quell’istante, al tavolo dei
Blackheath, Harry Smith stava imitando la fatale caduta della squadra
avversaria che la sera prima aveva regalato loro la
vittoria, tra le risate delle cheerleader e dei compagni. John desiderò essere
lì con loro solo per un momento, prima che il suo sguardo si posasse sul libro
in bella vista appoggiato sul tavolo accanto al vassoio.
«Orgoglio e pregiudizio… che razza
di libri vi fanno leggere?» commentò sarcasticamente Mike.
Le ragazze del primo anno lanciarono un
altro gridolino e cominciarono a ridere sguaiatamente
riguardo a una certa battuta fatta da una delle due, guadagnandosi l’ennesima
occhiataccia da parte di John.
«Magari i più importanti della letteratura
inglese?» ribatté l’altro stizzito e, abbandonato il piatto, afferrò il tomo e
fece per alzarsi.
«Te ne vai di
già?»
«Sì, Mike. Al contrario di te non ho la minima intenzione di farmi bocciare.»
L’amico fece una smorfia infastidita e si
rigirò la forchetta tra le dita. «Se continui così ti stresserai troppo e
l’esame non lo passerai nemmeno sapendo tutto il programma a memoria.»
«Ho bisogno di studiare e stasera approfitterò del non-allenamento per
questo. Perché ti è così difficile capire quanto sia importante per me entrare
in quella dannata accademia?»
Mike lo guardò di sbieco. «No, non lo
capisco…»
John sbuffò ancora sonoramente. Poi sembrò
prendere una decisione e, assicuratosi che nessuno li stesse ascoltando, si portò le mani a coppa alle labbra e si chinò un
po’ di più verso l’amico. «La verità è che ho un appuntamento con Sarah…»
sussurrò.
L’amico lo guardò sorpreso, poi rise e gli
diede una pacca sulla spalla. «Eccolo lì il nostro Johnny-Boy! Altro che studio… beh, questo cambia le
cose. Caspita, Sarah! Hai fatto un bel colpo questa volta!»
John lo implorò di abbassare la voce. «È
ancora un segreto, per favore…» lo supplicò. «E comunque ci vediamo per
studiare…»
Mike rise un’altra volta. «Vuoi davvero farmi credere che quella
abbia intenzione di studiare stasera? Fai prima a portarla alla festa…»
John scosse la testa. «Ho detto che alla festa non ci vengo,
Mike, basta. Preferisco la tranquillità di casa sua ad una festa in mezzo a un manipolo di
ragazzi ubriachi…»
«Ah beh, certo… casa sua… Capisco.»
ridacchiò l’altro.
John sospirò scuotendo la testa, poi
sbatté un po’ troppo violentemente il bicchiere sul tavolo, chiudendo così la
discussione con decisione e facendo sobbalzare le biondine di fianco.
Ma, com’è vero che il sole sorge a est e tramonta ad ovest, è anche vero che le cose non vanno
mai come le si aspetta.
~*~
Gregory Lestrade osservava esasperato il
ragazzo seduto affianco a lui sul taxi.
Sherlock era appollaiato sul sedile anteriore con l’aria truce, le braccia
incrociate al petto e le mani strette a pugno. Indossava una dei suoi soliti
completi costosi, lo stesso che aveva indossato per tutto il giorno ad essere precisi, ed i capelli spettinati
gli ricadevano in riccioli sul volto pallido e affilato.
Non c’era stato verso di fargli cambiare
l’abito e neanche di pettinarlo. A Greg pareva di avere a che fare con un
bambino di sei anni, nonostante il ragazzo al suo fianco ne dimostrasse circa
il triplo.
Continuava a maledire Mycroft per quella
bella pensata: gli aveva ripetuto per un’intera settimana che non aveva nessuna
intenzione di trascinarsi dietro uno
Sherlock irritato, e quindi scorbutico, a una festa il cui scopo era semplicemente
divertirsi, ma il maggiore degli Holmes era irremovibile. Ricordava
perfettamente la discussione avuta solo qualche ora prima mentre tentavano di trovare un modo per
convincere Sherlock a schiodarsi dalla sua camera.
«Ti rendi conto che la sua presenza
rovinerà l’intera festa?» aveva detto Lestrade leggermente
incazzato.
«Ci saranno decine di persone, la sua
presenza nuocerà solo a qualche sfortunato.» aveva replicato
pacatamente il maggiore degli Holmes.
«Per esempio me!»
«Te ne prego Gregory... Sai quanto me che ne ha bisogno. Hai presente i
nervi di mia madre, no? Non voglio che le succeda niente, e Sherlock prima o poi potrebbe causarle
qualche malattia irreversibile.»
Lestrade aveva guardato Mycroft ponderando
l’idea di tirargli un bel ceffone.
«Se non sbaglio mi devi ancora un favore
per quell’ammissione che tanto desideravi.» aveva poi aggiunto
Holmes, e Greg era stato costretto ad accettare contro la propria volontà,
un’altra volta. Se c’era una cosa che odiava fare, sicuramente quella era
discutere con Mycroft Holmes: chissà per quale assurdo e contorto motivo l’uomo
doveva riuscire ad averla vinta ogni volta.
«Non avresti dovuto accettare, allora.»
Lestrade rivolse uno sguardo incredulo a
Sherlock: era sicuro di non aver aperto bocca su ciò che gli passava per la
testa in quel momento.
L’altro roteò gli occhi. «Ti si legge in
faccia quello che pensi.»
«Piantala di fare il bambino una buona volta e
lasciami divertire stasera, ok?» sbottò seccato l’amico, strofinandosi le mani
sui pantaloni in un gesto nervoso.
Sherlock non rispose, voltando invece lo
sguardo verso il finestrino che si appannò con il calore del suo respiro.
«Sarà una festa piena di ragazzi. Vedi di cercartene qualcuno di abbastanza
interessante e di fartelo amico.» continuò Greg.
Sherlock arricciò il naso. «Per poi
entrare a far parte di qualche insulso gruppo su qualche altrettanto insulso
argomento e potermi sedere ad un insulso tavolo
insieme ad altre insulse persone?»
Greg sbuffò. «È la regola, Sherlock!
Sei al Barts ormai da un anno e non sei ancora entrato a far parte di un
gruppo! Lo sai che è anche per questo che ti prendono di mira? I Blackheath si divertono prendendo in giro gli sfigati o chi non fa parte di un club, o chi è
tutti e due. E tu non sei per niente uno sfigato.»
«Parli come se fossi mio padre.» sbuffò l’altro
infastidito.
«Beh, scusami tanto se tuo fratello ha
deciso che io ti debba fare da baby-sitter.»
«Appunto. Non avresti dovuto accettare. Mycroft sembra avere una certa
influenza su di te…» mormorò Sherlock distrattamente, ma non per questo in modo meno pungente.
Fu una fortuna che fosse buio, per lo meno
il moro non si accorse del lieve rossore che andò a imporporare le guance di
Lestrade. Il ragazzo era perennemente in lotta con il fratello del suo migliore
amico per la sua dignità: non c’era mai una volta in cui Greg riuscisse ad
avere ragione in qualche discussione. Ma dopotutto Mycroft era un
Holmes e aveva sette anni in più di lui; solo con questo pensiero il ragazzo
riusciva a consolarsi e a tirare avanti.
Certo che condividere i suoi pensieri con l’amico sarebbe servito a ben
poco, Greg si limitò a sbuffare e a voltare lo sguardo dall’altra parte. «Per lo meno lascia in pace Dimmock. Siamo in buoni rapporti con lui, e sai cosa questo vuol dire.» borbottò, ma Sherlock
non sembrava più ascoltarlo.
~*~
Sarah arrivò con due cartoni di pizza in
mano che appoggiò poi sul tavolino, nello spazio libero tra i libri accatastati
l’uno sull’altro alla rinfusa.
«Il ragazzo delle consegne era leggermente
incazzato…» ridacchiò mentre prendeva posto sul divano vicino
a John, il quale rise a sua volta.
«Non è da tutti ordinare pizze alle undici
di sera, vero?»
Sarah aprì la lattina di coca ridendo.
«Speriamo solo che non abbia confuso
qualche ingrediente, come lo zucchero con il sale per esempio.» aggiunse John,
che nel frattempo aveva aperto il primo cartone e stava guardando con aria
critica la mozzarella filante straripare da un pezzo di crosta.
Sarah continuò a ridere e dovette portarsi
una mano alla bocca per l’improvviso attacco di
tosse dovuto alla coca appena bevuta. Quando finalmente ebbe deglutito guardò John con aria di
rimprovero. «Smettila di farmi ridere… Mi fanno già male gli addominali per
tutte le battute di prima…»
John sogghignò. «Che ci posso fare se sono
così simpatico?»
Sarah sospirò. «In realtà niente…»
John addentò la prima fetta e masticò
lentamente, osservando la ragazza fare altrettanto.
Si trovava a casa sua ormai da più di tre
ore e non ricordava di essersi mai divertito tanto con una ragazza. Sarah era
una delle migliori con cui avesse mai avuto un appuntamento, anche se di
studio, come nel loro caso. Con lei anche gli argomenti più noiosi del libro
sembravano divenire improvvisamente più interessanti, anche se forse era lei ad
affascinarlo, con i suoi modi gentili e la sua determinazione a finire il
lavoro per poter poi così fare qualcosa di più divertente, come mangiarsi una
pizza per esempio. John aveva ridacchiato mentalmente quando Sarah glielo aveva
detto, cogliendo l’espressione maliziosa del suo sguardo. Ma il ragazzo sapeva per esperienza che
quello che Sarah intendeva non era l’approccio giusto per un primo appuntamento
e si limitava a scherzare, mostrando il lato più divertente di sé con cui
sapeva avere le maggiori possibilità di far colpo. E ci stava riuscendo bene a giudicare dalle occhiate dolci che la ragazza gli
lanciava ogni tanto. Per una volta John si
ritrovava a sperare che il loro rapporto potesse approfondirsi di più, come gli
era successo in rare occasioni.
Era uscito con un sacco di altre ragazze
affascinanti e simpatiche, ma con nessuna era riuscito a sentirsi completamente
a suo agio come con Sarah. Forse uno degli elementi che la favorivano era il fatto che anche lei era decisa a
dare il meglio di sé nello studio, tralasciando solite frivolezze a cui altre
difficilmente avrebbero rinunciato.
«Sei un ragazzo simpatico John Watson, e
finora non ho ancora trovato qualche tipo di difetto in te.»
John sorrise. «E questo che fai ai primi appuntamenti?
Trovi i difetti negli altri?» scherzò.
Sarah si diede un’occhiata critica
intorno. «E questo lo chiami appuntamento?»
John si strinse nelle spalle. «Come dovrei
chiamarlo?»
«Beh, ritrovo di studio, per esempio…
Comunque sì, mi piace trovare difetti, tanto per sapere con chi ho a che fare. E tu? Ne hai trovato qualcuno
in me?»
John scosse la testa. «Dovrei trovarne?»
Sarah annuì. «Non fare il timido John… Non
mi offendo.»
John deglutì, non sapendo cosa rispondere.
Sarah notò il suo disagio e ridacchiò. «Il
mio ex mi diceva sempre che sono troppo curiosa e impulsiva…»
John la guardò sorpreso. «Davvero?» poi
aggiunse: «La curiosità la consideri un difetto?»
«Oh beh… Dipende dal contesto, ma per la maggior parte dei casi per me
vale come difetto. Se pensi che poi il mio ragazzo mi ha lasciato proprio per questo…»
John ridacchiò. «Che cosa gli hai fatto?»
Sarah cominciò a sbocconcellare la crosta
di una fetta di pizza con aria truce. «Diciamo che non gli è piaciuto quando
sono andata a curiosare nei suoi affari famigliari…»
Un brivido freddo percorse la schiena del
ragazzo a quell’affermazione, e Sarah dovette notarlo dalla sua espressione
perché si affrettò ad aggiungere:«Non lo faccio più, ovviamente… Ho imparato la lezione. Ma continuo a pensare di aver fatto la mossa
più giusta. Avevo l’impressione che mi stesse tradendo con una sua amica,
quando invece aveva solo alcuni problemi con i suoi. Se solo me lo avesse
detto…» Sospirò.
«Allora posso considerarmi fortunato che
non l’abbia fatto…» mormorò John con un sorriso appena accennato sul volto.
Sarah arrossì lievemente.
Passarono alcuni minuti in silenzio, poi
fu di nuovo lei a parlare. «Ora che ci penso un difetto ce l’hai…»
John alzò lo sguardo sorpreso. «Spero
qualcosa di non troppo evidente…»
Sarah sogghignò. «No, non si nota, a meno che non ti si provochi.»
affermò.
«Ah sì?»
Sarah abbassò lo sguardo a rimirarsi
un’unghia. «Ricordi la prima volta
che ci siamo incontrati? Alla festa dopo la partita di rugby?»
John annuì.
«C’era un tizio… Un certo Spencer…»
John corrugò la fronte nello sforzo di
riportare i ricordi alla mente, e quando essi riaffiorarono emise un flebile «Oh…»
Sarah lo osservò attentamente. «Ti aveva
provocato?»
John ricordava abbastanza bene quel
momento. Dopo una vittoria alla partita di rugby di quel giorno era andato con
la squadra a festeggiare al loro solito bar, e lì aveva conosciuto il nuovo
ragazzo di Janette, una delle sue ex. Gli
era sembrato insopportabile fin da subito e aveva avuto modo di provare
l’autenticità di quell’antipatia quando, due ore dopo circa, il ragazzo aveva
cominciato a sparlare alle sue spalle. A quanto pareva Janette doveva avergli raccontato molto su di lui,
perché Spencer aveva cominciato a parlare di Harriet e dei suoi problemi con
l’alcool. A quel punto John non aveva più resistito e gli aveva risposto male,
dando inizio così a una rissa, fermata per l’appunto da Sarah prima che
cominciassero a prendersi a pugni. Ricordava bene l’orribile sensazione di
essere stato messo a nudo davanti ai suoi amici
con ciò che più tentava di nascondere, l’orribile sensazione che si prova
quando si viene feriti nell’orgoglio.
Sì, John poteva definirsi abbastanza
orgoglioso.
«È una
brutta cosa vero?» tentò di sviare.
Dopo essersi assicurata che John non si
fosse offeso, Sarah annuì. «La maggior parte delle volte.»
John sorrise. «Quindi abbiamo entrambi i
nostri difetti.» constatò.
Sarah sorrise a sua volta.
Buttarono via i cartoni della pizza e si
sedettero sul divano con l’intenzione di guardarsi un po’ di tv. Stavano
decidendo se guardarsi un film o fare qualcos’altro quando il cellulare di John
squillò dal tavolo. Il ragazzo rivolse un’occhiataccia all’apparecchio, quasi
sperando che smettesse di vibrare. Quando questi non lo fece si scusò con Sarah e lo prese in mano: la
foto di sua sorella compariva sullo schermo, accompagnata dal suo nome e
cognome. John trattenne a stento un’imprecazione.
«Che succede?» Sarah si avvicinò
interrogativa.
«Mia sorella.» rispose John, secco, poi
premette la cornetta verde. «Che c’è?»
«Numero quattro di Brook Street. Vieni subito, se puoi.
Se non ti è possibile, vieni lo stesso.» fece una voce profonda dall’altro capo
della cornetta.
Per poco John non si prese un colpo. «Chi
parla?»
Dall’altra parte qualcuno sbuffò. «Harriet è tua sorella? Sì, ovviamente.» John non ebbe neanche il
tempo di rispondere alla domanda.
«Vieni al quattro di Brook Street, penso che non tornerà
a casa da sola.» e con questo chiuse la chiamata.
John rimase imbambolato con il cellulare
all’orecchio, mentre la sua mente correva avanti col pensiero. Harriet si era
cacciata un’altra volta nei guai. Aveva semplicemente esagerato un’altra volta
con l’alcool o qualcosa in più? Poi gli venne in mente l’indirizzo che gli era
stato dato al cellulare e si rilassò un poco. Brook Street era l’indirizzo dove
Clara Dimmock aveva organizzato la festa, quindi non
c’era motivo di preoccuparsi più di tanto. Clara poteva anche essere una
ragazza avventata, ma non sufficientemente da permettere che qualcuno si
facesse male ad una delle sue feste: su
questo John sapeva che la ragazza faceva attenzione. Chiunque entrasse con
qualcosa d’illegale era subito cacciato dalla festa, almeno su questo Clara era irremovibile.
«Cos’è successo?» chiese Sarah con
apprensione.
John si riscosse dai suoi pensieri e
sospirò pesantemente. «Mia sorella…» Deglutì, «Sì è cacciata nei guai…»
«Che genere di guai?» chiese preoccupata
la ragazza, poi arrossì lievemente e distolse lo
sguardo. «No, scusa, non dovevo
chiedertelo. Me lo dirai solo se vorrai.»
John si agitò sul posto. «No non… non è
niente.» Si morse un labbro nervosamente. «Penso che si sia fatta qualcosa alla
festa… Niente di grave.»
Sarah annuì. «Quindi devi…?»
Il ragazzo si passò una mano sul volto.
«Mi dispiace…» sospirò.
Lei gli sorrise comprensiva.
«Beh, è comunque tardi… Ci sentiamo?»
John si alzò e raggruppò le sue cose. «Ti andrebbe di vederci venerdì? Magari un
film?» chiese.
Sarah annuì. «D’accordo… Ma niente film
romantici, non sono proprio il mio genere.»
L’altro ridacchiò. «Neanche il mio.»
La ragazza lo accompagnò alla porta e li
aspettò che l’ascensore arrivasse, facendogli compagnia. Quando si udì il
tintinnio delle grate aprirsi lo salutò: «Allora a
venerdì, John Watson… e fammi sapere se è andata bene con tua… Cioè, sempre se
vuoi…»
John sorrise. «Ti mando un messaggio, ok?»
Sarah annuì, poi, quasi timidamente, si sporse
verso di lui e gli diede un bacio leggero sulle labbra. «Tieni a bada il tuo
orgoglio.» scherzò, e richiuse la porta.
John ridacchiò tra sé e sé ed entrò
nell’ascensore, che scese poi sferragliando i sei piani che lo separavano
dall’uscita.
Una volta in strada John prese un respiro
profondo. Era passata la mezzanotte, il che voleva dire che di prendere la
metro non se ne parlava neanche. Si avviò alla fermata dell’autobus più vicina,
ma una volta arrivatoci, vide che mancava più di mezzora alla corsa successiva.
L’unica macchina che possedevano se l’era presa Harriet, il che voleva dire che a Brook Street ci sarebbe dovuto arrivare con le
proprie gambe: di certo non avrebbe chiesto un passaggio a Sarah. Poi, come se
non bastasse, cominciò a scendere una pioggia sottile. Con uno sbuffo di rabbia
John si calò il cappuccio sul volto e si avviò a piedi verso la sua
destinazione.
Ci impiegò venti minuti buoni a passo
svelto, e in un certo senso fu contento del risultato, tanto da salire gli
scalini che lo separavano dall’appartamento a piedi. Quando suonò al campanello aveva il fiatone.
Dall’ingresso sentiva il suono della musica a tutto volume accesa in sala, e
per una volta si chiese che cosa ne pensassero i vicini. Per quanto ne sapeva
le feste di Clara duravano fino alle prime
ore del mattino; di certo lui non avrebbe voluto avere una vicina del genere.
Andò ad aprirgli Clara in persona, che gli sorrise e lo fece entrare nell’ampio
ingresso. «Heilà Johnny!» Lo abbracciò
velocemente. «Ti aspettavo qui come invitato, non come tassista.»
John abbassò lo sguardo imbarazzato. «Mi
dispiace di non essere venuto… Avevo un…»
Clara fece un gesto con la mano. «Non
importa, ora sei qui, no?» ridacchiò. «Vieni, tua sorella è da
questa parte… Avresti anche potuto farmela conoscere prima, però. A dir la verità pensavo che fossi figlio unico.»
John non rispose, cercando invece con lo
sguardo la sorella. La trovò in un angolo della sala, seduta su di un puff bluastro con
in mano un bicchiere di quella che sperava vivamente essere acqua. Al suo
fianco c’era Mike, anche lui con un bicchiere in mano, e quando lo vide gli fece un gesto con la mano in segno di
saluto. «Che ti avevo detto
stamattina? Non puoi perderti la festa dell’anno…» ironizzò il ragazzo, tirandogli una bella
pacca sulla spalla.
John gli sorrise di circostanza e
si rivolse alla sorella. «Riesci a non provocare una guerra mondiale prima che
io me ne torni a casa?»
Qualcuno seduto vicino si mosse sulla
sedia, voltandosi verso John, ma il ragazzo era troppo occupato a prendersela
con la sorella per accorgersi di altro.
Harriet lo guardò con occhi vacui, poi
scosse la testa e abbassò lo sguardo verso il bicchiere che teneva in mano,
guardandolo come se fosse fatto di un particolare diamante.
John sospirò e tirò fuori il cellulare dai
pantaloni per guardare l’ora, facendo al contempo cadere il portafoglio che
teneva nella stessa tasca. Si affrettò a raccoglierlo, poi continuò il
discorso. «È passata la mezzanotte, magari possiamo essere a casa per l’una ed
evitare di far preoccupare mamma…»
Harriet scosse la testa, alzando lo
sguardo sulla sala. «Non voglio… non… in questo stato.» borbottò.
John strinse una mano a pugno. «Forse
avresti dovuto pensarci prima, eh?»
«Questa volta do ragione a Harriet, John. Dai, ancora una mezzoretta.
Beviamoci qualcosa, ti va?» fece Mike, guadagnandosi un’occhiataccia dall’amico.
John sospirò e si lasciò cadere su un
altro puff lì vicino. «No grazie.»
rispose secco.
«D’accordo…» sospirò Mike. «Ti va una coca
Sherlock?»
John si accorse solo in quel momento del
ragazzo seduto a gambe accavallate sulla sedia vicino a Mike. Era alto e snello,
il volto pallido e affilato era contornato da lunghi riccioli castani e aveva
un paio di occhi di colore chiaro, che alla richiesta di Mike distolse da John
per puntarli negli occhi del vicino. «No.»
Fu una sola parola, ma per John fu
abbastanza per riconoscere la voce del
ragazzo che gli aveva parlato al cellulare.
Lo guardò interrogativo. Mike si diede una
manata sulla fronte, borbottando qualcosa sul fatto che si scusava per non aver
pensato a presentarli. «John, ti presento Sherlock Holmes, un mio… ehm…» gettò
un’occhiata al ragazzo, «…diciamo amico.
Frequenta il terzo anno da noi al Barts, non so se lo hai mai visto. Prima ha
avuto la cortesia di chiamarti quando tua sorella ha, diciamo, un po’
esagerato…»
John sospirò, non osando pensare a cosa
Harriet avesse mai potuto fare per costringere un ragazzo a chiamarne il
fratello, poi sorrise. «Piacere, John Watson.» e tese una mano verso l’altro,
il quale, però, lo guardò distante senza muovere un muscolo.
«Piacere.» rispose laconico.
John si affrettò a ritirare la mano,
limitandosi ad ignorare il suo
comportamento.
«Beh, io vado a prendermi una coca.» fece
Mike, e si alzò, per poi allontanarsi lungo la parete evitando i ragazzi che si
muovevano a ritmo della musica a tutto volume.
John osservò Sherlock, che intanto aveva
distolto lo sguardo e fissava un punto indefinito di fronte a sé, soffermandosi
in modo particolare sui suoi abiti lindi e costosi. Sedeva ritto e
composto, in un modo che gli dava un’odiosa aria altezzosa, e osservava i
ragazzi nella sala con superiorità. John provò subito un moto di antipatia nei
suoi confronti. Per quanto ne sapeva quel ragazzo era solo uno dei tanti
ricchi sfondati che credevano di essere superiori a
tutto e a tutti e che non si abbassavano a guardare una persona se non portava
orologi o scarpe di marca.
John non aveva mai avuto pregiudizi di
nessun genere nei riguardi di coloro che avevano la fortuna di essere più
ricchi di lui, ma osservando Sherlock Holmes cominciò a pensare che in fondo
non erano solo voci di persone gelose quelle. Non che tutti i ricchi si
comportassero così, poi. John sperava vivamente di non dover mai avere a che
fare con qualcuno di loro.
«No.» La sua voce profonda lo
distolse dai suoi pensieri. Sherlock lo stava osservando di nuovo, questa volta
però con aria irritata.
Il ragazzo lo guardò accigliato. «Che cosa
no?»
«No, non sono uno dei tanti noiosi ricchi
sfondati.»
John spalancò la bocca, sorpreso mentre
l’altro lo osservava con diffidenza. «E invece tu sei noioso, esattamente come tutti. Ma non ricco…»
A quelle parole John sentì una morsa
stringergli lo stomaco.
«…e neanche nella media direi. Tua sorella non ha nemmeno i soldi per
comprarsi un abito nuovo, figuriamoci. Per fortuna quelli di vostra madre sono
ancora in buono stato.»
John sedeva rigido sul puff, le unghie che gli affondavano nel palmo
della mano da quanto stringeva forte i pugni, la mente
divisa tra la stupore per quello che il ragazzo sapeva su di lui e la
frustrazione per ciò che gli stava sbattendo in faccia senza il minimo tatto.
Alla fine si risolse nell’esprimere un unico pensiero. «Che cosa vuoi da me?»
Sherlock fece saettare gli occhi sul suo
viso. «Niente.» disse poi con una smorfia, e si alzò.
«Sherlock, tutto a posto?» dalla folla
spuntò un ragazzo allampanato, i capelli in disordine e il viso leggermente
arrossato.
Il moro non rispose, limitandosi a spostare
lo sguardo sul nuovo arrivato.
Il ragazzo notò John e sorrise. «Avete fatto conoscenza? Piacere, Greg
Lestrade.» disse e allungò una mano
verso il ragazzo, il quale, furioso, si alzò a sua volta e voltò le spalle ai
due. «Andiamo Harriet.» disse, poi prese la sorella per le spalle e la guidò fuori dalla
sala, fermandosi solo a salutare Mike e a ringraziare Clara per l’ospitalità.
Intanto Greg spostava lo sguardo da
Sherlock a John, ormai lontano. Poi sospirò. «Che cosa diamine gli hai detto?»
Sherlock si strinse nelle spalle. «La
verità.»
Greg si passò una mano sul volto e sbuffò.
«E ti sei chiesto se fosse giusto dirgli la verità?»
Ancora una volta, Sherlock non rispose.