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Autore: roseinwonderland    23/01/2014    0 recensioni
Buio.
Sempre buio.
Da secoli solo buio assoluto. Le tenebre ci avvolgevano, e nella loro lussuria e comodità, nella loro notte perenne , noi dormivamo. In silenzio da centomila anni, una quiete assoluta che tutto azzerava. Non solo il Verbo, ma anche il Pensiero erano stati dimenticati da tempo.
Era la cessazione di qualsiasi vita comune.
[Oneshot/DoctorWho]
Genere: Dark, Malinconico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Doctor - 10, Nuovo personaggio, Rose Tyler
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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NOTA PRELETTURA
La storia è basata sulla scoperta del mondo da parte di una androide rinchiusa in un vecchio magazzino, e di come il Dottore la aiuta e le insegna a conoscere il mondo esterno. ATTENZIONE! Molto incentrata sulla giovane protagonista, il Dottore compare solo verso la fine. Ispirato a Io, Robot. e a una fantastica fanfiction , Prototype,  di Yoko Hogawa, che mi ha dato l’ispirazione! La copertina la trovate qui: https://31.media.tumblr.com/cab02411601ace5230789987b7b06134/tumblr_mzx8p8gKp71s3a4g8o1_500.png
I ° T ° I ° N ° E ° R ° A
 
Buio.
Sempre buio.
Da secoli solo buio assoluto. Le tenebre ci avvolgevano, e nella loro lussuria e comodità, nella loro notte perenne , noi dormivamo. In silenzio da centomila anni, una quiete assoluta che tutto azzerava. Non solo il Verbo, ma anche il Pensiero erano stati dimenticati da tempo. Le persone non-nascevano e non-morivano. Quando l’esistenza di un membro umano cedeva all’oscurità semplicemente scompariva. E un neonato compariva tra le braccia di qualcun altro; nessuno desiderava ne sentiva il bisogno di nutrirsi, di sfiorarsi o parlarsi.
 
Era la cessazione di qualsiasi vita comune.
 
Ammassati gli uni sugli altri nel buio, un corpo con mille mila gambe e mille mila mani sporgenti, un migliaio di occhi chiusi, il respiro pesante che ognuno di noi ha quando è immerso nei meandri più profondi dei sogni. Mille volti immobili dalle palpebre serrate.
 
La loro visione era terrificante. Avrei voluto non vedere, ma le mie palpebre rimanevano spalancate , le pupille si dilatavano e  io ero costretta a osservavavo l’ambiente circostante. Potevo scorgere bene quasi ogni cosa: il buio non mi fermava: io vedevo.
 
Ero sveglia. E desideravo muovermi.
 
Il corpo fremeva dalla voglia di correre, camminare, esplorare. Mi alzai a fatica, sgrovigliandomi dalla matassa di membra accartocciate, e riuscii a sollevarmi. La prima umana dopo centenni ad alzarsi in piedi. Iniziai a avanzare, incespicando, come un bambino che deve ancora imparare a mettere un piede dietro l’altro.
 
Camminai per minuti, ore, giorni. Inizialmente cadevo ogni pochi passi, ma con la tenacia andavo avanti. Ah, gli umani. Che razza testarda siamo. Tutto l’Universo ce lo rinfaccia.
 
E così ripresi a incedere come un tempo i miei avi facevano, e imparai a correre. Corsi nel buio, in quell’infinito mare di corpi immobili, cercando una via verso la luce. Non sapevo quando l’avrei trovata, ma sapevo che c’era.
 
 
***
 
 
Ero in marcia da secoli ormai. Non ero annoiata, perché a quell’epoca la mia mente era ancora chiusa. Ci vogliono anni per imparare a pensare, quando si è dimenticato ogni cosa.
Tutto era sempre uguale.
Poi ci fu quel rumore. Era comparso da un paio d’anni credo. Non sapevo cosa fosse, ma mi accompagnava , come un mormorio ritmato. Non potevo averne Paura, perché non sapevo cosa fosse la Paura. Ma sentivo qualcosa che mi spingeva a correre nella sua direzione. Scoprii dopo anni che quell’impulso era detto Curiosità
 
Dopo centocinque anni da allora li vidi.
 
Altri come me.
 
Mi avvicinai a uno di loro, i nostri sguardi si incrociarono per un istante: capii che anche loro erano in marcia verso l’ipotetica Uscita. Lo eravamo tutti: l’attesa doveva terminare, come ogni cosa.
Il ragazzo che mi aveva guardato(non sapevo come nominarlo, se non così) era giovane, dal viso affilato e dai riccioli di un bel castano scuro. Non sapevo chi fosse, ma era come se lo conoscessi da sempre. Saltati una fossa tra gli addormentati e lo affiancai. A quel punto lui fece un gesto che avevo dimenticato: sorrise. Solo un sorrisetto malizioso, un angolo delle labbra piegato in una smorfia divertita.
 
Poi parlò.
 
La sua voce era profonda: “ Guarda in alto.”
 
Alzai lo sguardo. Prima non vidi nulla, poi osservai meglio: un puntino accecante nell’oscurità illuminava la fine dell’eterna prigionia.
“Lassù” disse “c’è la Libertà.”
**
 
Passarono altri cinquant’anni prima che toccassimo la parete. Il fondo del barile,  qualcuno avrebbe detto. Ma nessuno parlava più da troppo tempo per ricordare simili detti.
All’inizio ci immobilizzammo semplicemente nell’oscurità, come cento statue di pietra. Poi il ragazzo e i suoi riccioli si mossero, per primi, verso l’alto. Si stava arrampicando.
Come una sola anima ci muovemmo all’unisono verso la stella sul Soffitto. Faceva freddo, salendo, era un freddo stantio, come di un luogo chiuso, una soffitta in cui accumuli i ricordi che non vuoi rivedere.
Era strano. Non avevo paura, anche se stavo percorrendo chilometri in verticale ed ero sospesa nel vuoto. Non avevo paura, ma solo Speranza. Il momento di essere pavidi era terminato nel momento in cui ci eravamo risollevati sopra gli altri, per iniziare la nostra crociata di disperazione.
 
Molti cadevano, nelle tenebre, senza né urli né strilli. Solo un piccolo tonfo quando toccavano terra, e nient’altro. Una vita spezzata con un semplice puf. Alla fine iniziammo a non sentire più nemmeno il rumore dei corpi che si distruggevano a terra, miglia più in basso.
 
Più la cima era vicina, meno erano gli appigli. E tutti sbagliavano prima o poi, bastava un secondo.
 
O un piede messo male, come accadde a me.
 
 Sentii la gamba scivolare, e sapevo di non poterla fermare. Sentii la mano che perdeva la presa, e sapevo di non poterla recuperare. Sentii il corpo cadere, e sapevo di aver perso.
Fu un corpo caldo a prendermi, una mano salda. Il ragazzo. Era sotto di me, mi agganciò al volo. Mi tenne stretta, mi guardò e disse solo: “Continua. Va avanti.”
 
***
 
 
Passano gli anni, ma noi non li sentiamo.
Forse siamo tutti già cadaveri e non c’è ne siamo accorti. Eppure io sento l’aria, i rumori. Le mie mani grattano sulla ruvide superficie della parete, sento la polvere e lo sporco sotto le unghie. Sento il mio cuore battere, il fiato corto di chi mi sta accanto.
Eppure siamo antichi, esserci con migliaia di anni.
 
Non siamo umani? O forse ci siamo dimenticati com’era esserlo?
 
Nessuno riflette. Tutti corrono soltanto verso l’alto.
 
La verità è che non so verso cosa stiamo andando incontro. So perché gli andiamo incontro, disarmati, indifesi.
 
E’ per quella voglia di correre che senti nelle notti fresche d’estate. Quella voglia di fuggire, ma non per nascondersi. Una incredibile fame di avventure, condita dalla spezia della curiosità.
 
L’appetito dell’uomo per l’ignoto, insaziabile. E sono mille anni orsono che non tocchiamo o vediamo nuovi orizzonti.
Siamo incredibilmente affamati.
 
 
***
 
 Un giorno qualcuno disse che la razza umana compie meraviglie da sempre.
Ebbene, questa è la storia del mio miracolo, la mia meraviglia.
 
Da quello che la fisica dice, ogni cosa , tranne l’universo, ha una fine. Anche la Grande Parete c’è l’aveva. Toccammo il Soffitto circa mille anni dopo la partenza dal Terreno. Sembra tanto tempo, ma per noi fu un semplice battito di ciglia.
 
La luce si era ingrandita, la nostra stella era cresciuta e si era spostata. Ora era al centro dell’enorme Volta, mentre noi eravamo al suo limite, sullo stipite, nell’angolo. Non c’erano appigli. Essa era liscia come le guancie di una bambino.
Tra noi e la luce c’era il vuoto. Ma non il vuoto che trovi in una stanza spoglia. Era freddo, buio. Guardare giù era come vedere un pozzo senza fine, che ti dava una scarica nel corpo, che dai piedi toccava le punte delle orecchie, provocandoti un brivido. Credo fossero vertigini.
 
Qualcuno si avvicinò a me. Lui  era ancora con me.
 
“E’ perduto tutto.” Affermai senza tristezza, ma solo come una semplice affermazione.
“No. Guarda attorno a te. Ecco la tua risorsa. Noi siamo la tua risorsa.”
 
Gli altri si voltarono verso di noi. Maschi, femmine. Uomini, bambini. Mi sorrisero.
Quindi si unirono. Gli uni sugli altri, si strinsero le mani, i piedi, si abbracciarono. Erano milioni, lungo tutta la volta. Mille anime, mille cuori, mille gambe e mille braccia che si stringevano per uno scopo.  Rimasi altri mille anni a guardare questo spettacolo incredibile, e non me ne stancai neanchè per un’istante.  Da quello che sappiamo degli anni futuri, non accadrà mai un evento come questo.
 
“Hai una possibilità.”
 
La colonna umana che univa le pareti della volta alla luce stava già inziando a  cedere.
Il ragazzo mi strinse la mano e disse solo: “Corri.”
 
Mi trascinò lungo la colonna di corpi. Ero appesa nel vuoto sostenuta dalle braccia di milioni di persone. Dovetti correre a lungo. Almeno cent’anni credo. Per me furono come pochi istanti.
 
Mi voltai e vidi che le parti finali della catena umana erano crollate. Le persone cadevano nel vuoto, e io non potevo salvarle. Non emettevano un lamento, cadevo e basta. Non potevo ringraziarle, dire loro che erano state fantastiche, assolutamente fantastiche.
           
La luce si intensificava a ogni metro, ma non vedevamo cosa c’era dietro. Finalmente fummo abbastanza vicini: era una grata a maglie larghe. La parola che rimbalzò nella mia mente fu tombino. Non avevo la minima idea di cosa significasse, ma somigliava a quello che stavo osservando. O almeno, il mio cervello mi diceva così.
Il mio compagno mi passò davanti, e afferrò le sbarre. Tirò con forza disumana. I pezzi di ferro caddero nel buio, e la luce, ora piena, invadeva la volta. Un abisso bianco aldilà delle tenebre.
 
Lui si voltò e mi tese la mano.
 
L’afferrai, e lui mi tirò versò di se, oltre di sé, verso il bianco. Le mie mani toccarono il bordo, e lo afferrai con tutta la tenacia e resistenza che avevo. Mi issai  senza voltarmi.
 
Dapprima fu solo luce.
 
Poi le cose divennero nitide: un tavolo, una porta chiusa, una stanza bianca in cui ero il centro di tutto. E ancora strumenti strani e meccanici, sostanza, luci al neon. Il bianco era ovunque, ma era meno idilliaco di come me lo era immaginato.
 
Mi girai e vidi che il mio compagno non c’era. Mi chinai sull’imboccatura della cavità : la catena di corpi di mille miglia era quasi completamente distrutta. A prima vista pensai fosse caduto: non c’era; poco dopo comparve dall’oscurità. Era parecchi metri addietro a dove lo avevo lasciato. Non poteva avanzare, perché ormai c’era solo soffitto liscio davanti a lui, e non poteva indietreggiare, perché dietro c’era solo il vuoto. Rimase immobile, mentre gli ultimi corpi che lo sostenevano iniziavano a cadere. Lo guardai negli occhi, ma non dissi nulla. Sapevamo che non c’era nulla da dire.
 
“ Arrivederci dolcezza.”
 
 
***
 
 
Mi sedetti sul bordo del tombino.
Non piangevo, perché non avevo idea di come si facesse.
 
“Mark 11004568-A. Benvenuta.”
 
Mi voltai. Un uomo di circa trent’anni, capelli mossi e corti sul tono rossiccio, lungo camice bianco mi osservava, come se mi aspettasse.
 
“Chi sei?”
“Il guardiano. Sono qui solo per disattivarti.”
“Disattivarmi? “
“Hai scalato una parete di otto miliardi di parsec. Non mangi. Non bevi, Non dormi. “
“Nessuno dorme più ormai.”
“Gli androidi come te certo che no. Sei un modello strano…Forse la venticinquesima forma? O un prototipo? Ma non fa differenza, non sta a me valutarti, io sono solo un controllore.”
 
Ero un robot. Metallo e sintetico. Il mio cuore, benché finto, perse un colpo.
 
“Perché vuoi disattivarmi?” La domanda mi sorse spontanea.
 
“Sei un rifiuto. Quel container, da cui sei uscita, è un magazzino di materiale di ricambio. Tutto ciò che è rotto, inutile o vecchio lo gettiamo lì. Ogni trent’anni apriamo per tirare fuori dagli strati bassi materia prima da utilizzare. Vi smontiamo e vi ri-assembliamo.”
“Lasciami andare.”
“No.”
“Perché?”
“Procedure. Non posso lasciarti uscire da qui, non da attiva almeno. Nessuno ha mai superato quella porta, e non vedo come una qualsiasi come te ne avrebbe il diritto. Non sei speciale. ”
 
Era vero. C’erano altri miliardi di androidi là sotto, e io ero uguale a loro.
 
“In 900 anni di spazio e tempo non ho mai incontrato qualcuno che non fosse importante.”
Chi aveva parlato era un uomo dal lungo cappotto, un ciuffo ribelle e un paio di scarpe da ginnastica i piedi. Il mio cervello positronico mi riferì in un attimo che erano Converse.
 
Lo scienziato del laboratorio lo guardò terrorizzato: “Chi sei?” Non si aspettava il suo arrivo.
L’altro sorrise: “Sono il Dottore, e questa è Rose Tyler! Ora, tra meno di novanta secondi la polizia irromperà nella stanza per violazione della Carta sui Diritti Cibernetici Intergalattici, stilata dall’imperatore del Terzo Impero Umano , un certo Mayloo Tersham. Io c’ero, tipo simpatico l’imperatore, ma leggermente pomposo. In ogni caso,  la Ingeneering Robotics ha violato in 378 modi diversi la suddetta carta, e ho trovato rispettoso avvisare la polizia federale. Ora la saluto, signore.” Si voltò verso di me  “Mark-A, che ne dici di venire con me?”
“Dove?”
“Ovunque tu voglia.”
La ragazza bionda accanto al Dottore mi sorrise, mentre lui mi tese la mano. Non avrei dovuto fidarmi forse. Ma l’istinto mi suggeriva che potevo confidare in quell’uomo, se era un uomo. Sapevo che avrebbe mantenuta la sua promessa e mi avrebbe portato via di lì. Il suo viso ispirava compassione e dolcezza.
 
 “Dove credi di andare, Mark-A? Sei di nostra proprietà. Obbedisci e rientra nel magazzino. SUBITO. E per questa volta sarai risparmiata. ” Lo scienziato berciava come una vecchia zitella.
 
Ero confusa.
Dovevo obbedire.
Era nel mio DNA, ero nata per asservire i creatori.
Mi voltai verso il buco dove un tempo c’era la grata.
Mi avvicinai lentamente e guardai verso il buio.
 
Arrivederci ,dolcezza .
 
“Arrivederci, dolcezza.”
“Cosa stai dicendo!?”
 
Mi girai di scatto e afferrai il tecnico per un braccio.
“Lasciami!”
 Strillava.
Lo trascinai di peso fino alla cavità.
Lo sollevai senza difficoltà.
“Mark-A…” strascicò le ultime parole e mi fissò terrorizzato.
 
Arrivederci, dolcezza.
“Arrivederci, dolcezza.”
E lo lasciai.
 
Al contrario degli altri, lui urlò mentre precipitava.
 
 
***
 
 
“Qual è il tuo nome?”
La domanda me l’aveva fatta la ragazza bionda. A quanto pare si chiamava Rose, dovevo ricordarmelo.
“Non ho un nome.”
“Sì. Il tuo nome è Emily.” Il Dottore si avvicinò e indicò un tatuaggio sul polso sinistro “Piacere di conoscerti, Emily. E ora Allons-y! Dobbiamo andarcene prima che la polizia arrivi! Non vorrei dare delle spiegazioni, si creano sempre degli spiacevoli malintesi.”
 
E così corsi ancora, lungo corridoi e attraverso porta chiuse e aperte, finché non arrivai all’ultima.
Dietro c’era il mondo esterno.
 Il sole. La luce. Il cielo. Il vento e la pioggia. La vita.
La prima ad uscire fu Rose. Aprì la porta e scomparve in meno di un battito d’ali.
Il Dottore uscì per secondo e anche lui puf! Scomparve.
 Aspettai: avevo paura. Finalmente sapevo cosa significava. La porta si riaprì, e l’uomo che mi aveva salvato si sporse:
“Non vieni?” Lo chiese con un fare malizioso. Ero terrorizzata, ma la Curiosità, quella che mi aveva condotto fin lì, mi spingeva ancora. Chi ero io per resisterle dopotutto?
 
***
 
L’Esterno.
Se provate a descriverlo a qualcuno che non lo conosce, vi risulterà impossibile. Perché è impossibile.
C’era il sole. La giornata era limpida. Ci trovavamo in una città piena di palazzi, e auto, e rumore. Caos. Ma un caos vivo, non morto come quello del Magazzino. C’era la vita laggiù. Le persone camminavano lungo il marciapiede, parlavano, urlavano, fumavano.
 
Indescrivibile.
 
“Allora , che te ne pare del mondo?” Il Dottore era allegro.
“Fantastico.”
 
Piansi. Senza ritegno, si direbbe oggi.
 
 “Sono l’unica che ne può godere. E non vale nulla la mia conquista, se vissuta in solitudine.”
“Ma non sei sola.” Il suo sguardo si spostò dietro di me. Mi voltai.
Dietro di me c’erano gli altri. Tutti quelli che avevo perduto. Vivi, osservavano il novo mondo di cui erano partecipi. Espressioni estasiate sui loro volti. Anche il tecnico era lì, benchè meno felice e più malconcio.
 
“Li hai salvati. Come?”
“Beh, diciamo che essere un Signore del Tempo ha i suoi vantaggi.”
“Perché lo hai fatto”
“Perché so cosa vuol dire essere soli.”
Mi guardò con occhi velati da un’infinita tristezza. Sembrava così solo, sotto quella sua spensieratezza.
 
“Hey, dolcezza.”
 
La voce dietro di me era squillante, viva. Mi voltai di scatto.
 “Hey, dolcezza, sei in debito con me.” Il viso pallido del ragazzo si contrasse in una smorfia  ironica. In quel momento non ricordo né perché, né da cosa fossi spinta, ma sentii l’impulso di abbracciarlo. Un nuovo inizio. Una nuova amicizia. Una nuova vita.
Lo lasciai. Il Dottore sorrideva ancora. Ricambiai il sorriso.
“Vi devo ringraziare, persone spaziali. Vi devo non solo la vita, ma tutto ciò che ne consegue.”
Rose si avvicinò prima che il Dottore potesse ribattere: “Io ero una ragazza qualunque. Arrivo da così lontano che non basterebbero duemila vite per tornare indietro, ed è un attimo sperduto nella storia. Ma ora sono qui. Ognuno di voi merita una possibilità. Tutti ne meritano una.”
Ero stupita. Non rimase molto da dire.
“Grazie.”
Il magico uomo dello spazio prese la mano alla sua compagna. Insieme entrarono in una cabina telefonica blu, che, con un leggero tworptworp, svanì nel nulla.
 
 
   
 
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