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Autore: Bess Black    25/01/2014    13 recensioni
Nathalie, alla sola età di diciassette anni, si trova in un carcere minorile ad alta sicurezza e da più di un anno ormai.
Insieme ad alcune compagne di cella ed alcuni amici tenterà un evasione, ma è impossibile superare FBI, Militari, CIA e Servizi Segreti.
Ed è qui che iniziano i sospetti: telecamere di sorveglianza ad orario continuato, pasti selettivi, controlli rigidi, divieto di ogni comunicazione con l'esterno.
Dal testo:
«Non ci pensare nemmeno.» Mi minaccia il Militare Black secco, alle mie spalle.
Non mi volto, ma non torno nemmeno indietro.
«D'accordo.» Soffia irritato, esattamente dietro di me. «Mettiamola così, bellezza.»
Odo qualche colpo duro, rigido e metallico, fino a quando non sento la canna fredda di una pistola tra le scapole.
Trattengo il respiro e inarco la schiena, involontariamente.
«Tu scappi, io sparo.»
Genere: Azione, Mistero, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Capitolo II




      «Cammina.»
La pressione della pistola aumenta e sono costretta a fare qualche passo in avanti. Poi però mi fermo.
L'arma si trova in mezzo alle scapole, in un preciso - e fastidioso - punto che faticherei a raggiungere anche se non fossi ammanettata.
    La verità è che per quanto possa essere pericoloso o rischioso avere un'arma da fuoco puntata contro, io lo trovo umiliante. Il militare Black mi sta puntando contro una Calibro-38 solo perché vuole che obbedisca agli ordini, per sottomettermi al suo volere, per esigenza di controllo e non esiterebbe a premere il grilletto se osassi scappare.
     «No.»
In difesa o attacco, quando si minaccia la vita di qualcuno, si ritiene che valga meno della propria. In questo caso, Black pensa che la mia vita valga meno della sua pazienza.
«Voglio sapere come sta la mia amica.»
Quando parlo, mi rendo conto che avevo trattenuto il respiro fino a quel momento. «Voglio vederla.»
     Una mano s'infila tra i miei capelli, sulla nuca, e li tira all'indietro, costringendomi a piegare la testa.
«Tu non devi volere.» Soffia il militare sulla mia faccia. «Tu devi obbedire agli ordini.»
     Tento di divincolarmi, ma mi fermo subito: se tiro mi faccio solo più male. Lui se ne accorge e stringe ancor di più la presa.
«E gli ordini dicono che dovresti essere nella tua cella a prepararti per la cena.»
     «Non sto facendo nulla di sbagliato.» Insisto. Ed è vero: un'altra guardia mi avrebbe permesso di vedere Lily, o per lo meno di sapere come sta. Credo.
     Il militare inspira forte - probabilmente per trattenersi dal prendermi a pugni in faccia - ed espira sul mio viso. I suoi occhi si riducono a due fessure verdi  e taglienti mentre mi ammoniscono, suggerendomi di tacere.
     Ha un profumo troppo forte. 
Sono altamente intollerante all'alcol etilico: ogni tipo di fragranza artificiale mi provoca nausea ed emicrania. Al momento, essendo a stomaco vuoto, tutto quello che ne viene fuori è uno sterile rigurgitare acido. Provo ad inspirare solamente con la bocca, ma il peso sulla gola non diminuisce e presto avverto fitte nervose, così cerco di allontanarmelo di dosso. Appena inizio a divincolarmi, sento improvvisamente quanto sono strette le manette: più del dovuto, più del solito. Tuttavia non riesco a spostarmi nemmeno di un centimetro e finisco solo con l'agitarmi in modo inquieto e nervoso sul posto, con l'unico risultato di aumentare la nausea ed infastidire il militare ancor di più.
    Ad un tratto, inaspettatamente, mi sento spingere in modo improvviso ed irruento in avanti. I miei piedi nudi non fanno tempo ad inciampare sui suoi scarponi che la mia mandibola si scontra col muro.
    Urlo.
E fa così male - le labbra, le mani, le spalle, la nuca - che mi pento di aver aperto bocca: vorrei non aver nominato Lily e non aver insistito per vederla, vorrei non avergli disobbedito e non averlo sfidato. 
     Con i miei capelli ancora stretti in un pugno, mi schiaccia la bocca contro la parete liscia e fredda, soffocando le mie grida; non posso respirare dal naso perché il suo profumo è ancor più vicino, ma nemmeno dalla bocca: mi si comprime l'aria dentro.
     «Che dici stronzetta, com'è il sapore dell'amianto?»
     Agito invano le mani, intrappolate nelle manette, cerco di scalciare con i piedi, ma Black mi intrappola le gambe tra le sue, pestandomi i piedi nudi. Strizzo gli occhi dal dolore e mentre boccheggio in cerca di ossigeno, la mia lingua incontra un liquido denso dal sapore ferroso.
     «James?» Una voce all'angolo del corridoio. «James che diavolo stai facendo?»
La presa sui miei capelli si allenta, così come la pressione sulle gambe, ma prima di riprendere fiato cerco di spostarmi e mettere più distanza possibile - anche solo di qualche centimetro - tra me e il profumo di Black. 
     Mi cedono le ginocchia ed essendo ammanettata non riesco ad attutire la caduta, così sbatto con violenza sul pavimento e lì rimango. Mi porto la testa tra le ginocchia ed ignoro le due voci alle mie spalle: inspiro ed espiro aria pulita, uscendo dallo stato di asfissia.
Qualcuno si china al mio fianco. «Tutto a posto?» 
     È il militare Matt Andersen.
Scuoto il capo e deglutisco prima di rispondere. «S-sono intol-lerante a-all'etanolo.»
     «Certo che lo sei, è un veleno!»
     Guardo male Black. «Non in quel senso.» Fatico a parlare.
     Sento Matt imprecare, mentre Black armeggia con l'Identificatore, annoiato, e mi getta dall'alto un'occhiata seccata.
«Qui non c'è nulla a riguardo.» Sbotta dopo un po'. «Sta mentendo.» 
     Matt mi aiuta a rimettermi in piedi. «No, che non sta mentendo, James! Guarda la sua faccia, diamine!» Lo rimprovera. «Deve essere una sottospecie di insofferenza... Le intolleranze non sono come le allergie: non si possono rilevare da esami generali.» Spiega, allentando la stretta delle mie manette. «Dobbiamo portarla in Infermeria per segnalare l'alterazione funzionale.»
     «No.» Scatta Black, avvicinandosi. «Non ce n'è bisogno.»
Indietreggio intimorita, non appena il suo profumo si fa largo nell'aria che inspiro. Se ne accorge e fa un passo indietro.
     Matt si frappone tra me e lui. «James non essere sciocco, dobbiamo farlo. È la normativa più...»
     Black lo interrompe con uno sbuffo. «Non sei nella posizione giusta per ricordami le norme alla base del Regolamento, Matt.»
      L'altro soldato incassa il colpo, limitandosi a guardarlo. 
     James Black dà le spalle alla telecamera centrale - che solo ora noto lampeggiare - e si rivolge all'amico, calcando le parole ora bisbigliate. «Nessuna segnalazione, nessun controllo.»
     Matt si volta a guardarmi e sospira. «Ti portiamo a cena, d'accordo?»
     Annuisco, senza aggiungere nulla.
    Black si mantiene ad una discreta distanza davanti a noi, digitando i Codici di Conferma nei cancelli tra un corridoio e l'altro.
    Il carcere è diviso in quattro principali celle: due maschili e due femminili. Quattro militari sono incaricati di sorvegliare le celle a turni, con la supervisione di un agente FBI e uno della CIA. In ogni cella ci sono tre detenuti, per un totale di dodici in tutto il carcere. Lily dorme nel letto davanti al mio. È probabilmente la più piccola qui dentro, non più di quindici anni. Non parla mai con nessuno: mangia, vomita e dorme tutto il tempo. Non è mia amica e ad essere sincera non sono nemmeno sicura che il suo vero nome sia Lily. Volevo solo sapere come sta.

    Quando la porta dell'anticamera del Refettorio scorre davanti a noi, sento Matt tirare un sospiro di sollievo, ma Black non fa in tempo ad aprire la seconda porta, che l'agente Chung dell'FBI ci viene in contro.
     «Siete in ritardo.» Ci informa con tono piatto.
     Mentre Matt non dice nulla, Black non si trattiene dallo sbuffare. 
     La Chung lo scruta severa attraverso i suoi occhi a mandorla. «Ti rendi conto, vero?» Gli domanda livida in volto. «Hai idea di quante storie faranno i Musi-Bianchi?»
     Lui si limita a grattarsi la nuca. «Sono affari loro, io non...»
     «Hey!» Li ferma Matt, indicandomi. «Ci pensiamo dopo al rapporto, d'accordo?»
     La Chung annuisce e gli ordina di portarmi dentro, mentre lei rimane a scambiare due chiacchiere con Black.
     Matt sblocca la seconda porta d'accesso al Refettorio e mi accompagna dentro, lasciando che la porta scivoli alle nostre spalle e si chiuda. Il doppio strato di vetro rinforzato attutisce completamente la voce rimproverante della Chung e gli sbuffi seccati di Black.
    Il Refettorio è diviso in quattro tavoli triangolari ad ogni lato dei quali siede un detenuto. A differenza delle celle, i posti, pur essendo pre-assegnati rigorosamente, cambiano ogni giorno. Tuttavia, Dalton - un ragazzo della Prima Cella Maschile - crede che ci sia un qualche ordine primario e probabilmente intenzionale nell'assegnazione delle collocazioni: secondo lui non sono casuali; ormai sono settimane che si strugge in calcoli statistici per cercare di comprendere il fattore indipendente a cui sono soggette le frequenze.
     Quando io e Matt passiamo accanto al primo tavolo, incrocio il suo sguardo fermo. Dalton ha quegli occhi a mandorla lunghi, concentrati, ma perennemente lontani: su qualunque cosa abbia puntato lo sguardo, sembra averla già vista in realtà, sembra non fare altro che fissarsela bene nella mente per rielaborarla. Dalton si definisce una persona dotata di capacità logico-deduttive più sviluppate rispetto alla norma; Hugo ha riassunto il concetto in un "Lui è avanti" e credo che renda perfettamente l'idea.
     Per la cena mi è stato assegnato il terzo posto del secondo tavolo, con Aaron e Hugo, che non appena ci avviciniamo tacciono, chiudendo quello che molto probabilmente era uno dei loro soliti battibecchi. Matt mi toglie le manette, ma non perdo tempo a controllarmi  i polsi rossi e doloranti, piuttosto mi affretto a sedermi perché non riesco a reggermi più in piedi e lui non dice nulla, attiva il vassoio del cibo tramite il Consenso dell'Identificatore e con un cenno recupera la postura sull'attenti e si allontana di cinque metri, prendendo la Distanza di Vigilanza.
     «Dove diavolo eri? Perché diavolo ci hai messo tanto?» Sbraita Hugo subito, facendomi trasalire sul posto. «E perché diavolo stai sanguinando?»
     «Sanguino? Dove?» Mi tasto il viso alla cieca.
     «Per Dio, Nathalie, hai la bocca tutta rossa!» Esclama Aaron, dal lato alla mia sinistra, cercando non lasciar trasparire il suo disgusto.
     Prendo una piccola salvietta, che trovo vicino alle posate, e me la porto in bocca: il labbro superiore si è spaccato. 
     «Non hai risposto.» Mi fa notare Hugo, sporgendosi in avanti.
     «Black.» Dico solo.
     Hugo digrigna i denti, Aaron si limita a scuotere il capo. «Quello là deve avere un qualche gene di bastardaggine a parte. Un gene mutante tutto suo.» Commenta poi.
Apro la bocca per aggiungere una lunga lista di termini da attribuire al gene che ipotizza Aaron, ma la salvietta è così confortante sul labbro ferito che taccio e mi limito ad annuire. L'annuso e noto che è inodore esattamente quanto insapore.
     «Quindi?» Mi sollecita impaziente Hugo, alla mia destra. «Notizie?»
     Abbasso gli occhi sul cibo selezionato sul vassoio, cupa. «Niente. Alex non c'era.» Continuo a tamponare il labbro, anche se ha smesso di sanguinare: la salvietta è davvero confortante.
     Aaron sorride. «Beh, Hugo ha notizie, invece.» Mi informa. «E anche buone.» Gli fa una pernacchia, mentre l'altro si limita a mostragli il dito medio senza alzare lo sguardo.
     «Notizie buone?» Domando. «Di che si tratta?» Ho davvero bisogno di sentire che almeno una cosa sta andando per il verso giusto.
     Aaron scrolla le spalle e parla con disappunto. «Non vuole parlarmene. Non si fida.» 
È offeso. È decisamente offeso.
     «Aspettavo Nathalie, idiota.» Sbotta Hugo.
     «A Dalton l'hai già detto però.» Lo accusa.
     «Perché lui è la mente del piano, mentre tu non servi a un...»
     «Piano?» Li interrompo. «Quel piano?»
     La fuga.
Mi fanno segno di abbassare la voce entrambi. Di solito durante la consumazione dei pasti non ci è concesso parlare, non frequentemente almeno. Getto uno sguardo oltre la porta di vetro rinforzato e intravvedo la Chung parlare e gesticolare rossa in volto e Black fischiettare con le mani in tasca.
     «D'accordo.» Sussurro chinandomi sul tavolo e sporgendomi verso Hugo. «Ma parla.»
     Lui annuisce e inclina verso il basso il viso, per evitare che sia interamente esposto alle telecamere e rendere quindi difficile ai Sorveglianti leggere il labiale. «Ho trovato una piantina del carcere.»
      Aaron ha la mia stessa reazione: spalanca gli occhi e si guarda attorno.
«Scherzi?!» Scatta contento.
    Hugo lo ignora. «Non è finita qui.» Abbassa di nuovo il capo e io mi avvicino il più possibile per non perdermi nemmeno una sillaba. «C'è una chiara e precisa indicazione di un passaggio bi-frontale: un'uscita antincendio.»
     «Dio!» Esclama Aaron ed io annuisco in sua direzione.
     Hugo sorride soddisfatto. «Quello che ci serve è il diversivo. Solo quello.»
     Inarco le sopracciglia e parlo con la salvietta ancora premuta contro la bocca. «Vuoi dare fuoco all'intero carcere?»
     «No. Certo che no.» Dice scuotendo il capo. «Se non sarà necessario, no.»
     «Quindi che si fa?»
     «Si controlla bene il tragitto, si prepara l'occorrente e si trova un diversivo decisamente convincente.»
     Annuisco e mi scappa un sorriso, anche se il labbro fa male mentre si allarga.
     «Aspetta.» Aaron socchiude gli occhi, diffidente. «Dov'è questa mappa?»
     «È una piantina, idiota.» Lo corregge Hugo, riprendendo a mangiare.
     «Dov'è?»
     «Al sicuro.»
     «E tu come hai fatto ad averla?»
     Hugo ghigna. «L'ho trovata.»
     «Trovata dove?» Intervengo.
     «Ricordate quando ho insultato Black?» Chiede.
Veramente ha insultato sua madre. È stato circa due settimane fa e Black gli ha rotto il naso, lo ha messo nella Cella di Detenzione per due giorni e in punizione per cinque.
     «Beh, quel bastardo si è fottuto da solo.» Il suo ghigno si allarga. «L'ho trovata nel sesto cestino di raccolta, durante l'ultimo giorno di punizione. Era tutta pieghettata, credevo fosse uno di quei rapporti che custodiscono tanto gelosamente...»
     «Fammi capire, amico.» Lo interrompe Aaron, voltandosi a guardarlo. «Tu hai... Ideato un piano di fuga da un carcere a sorveglianza speciale, basandoti su un foglio mezzo stropicciato che hai trovato nel cestino della carta plastificata in lavanderia?»
     Hugo lo fronteggia indispettito ed irritato per essere stato interrotto. «Sì.»
     Inarco le sopracciglia, ma non dico nulla: lascio fare ad Aaron.
     «Ti rendi conto che è una cazzata, vero?» Domanda mellifluo infatti.
La forchetta nella mano di Hugo vibra e sono sicura che in altre circostanze gli spaccherebbe la faccia, o l'avrebbe già fatto molto prima. Dalton dice che Hugo è iperattivo e che quindi i suoi impulsi naturali sono più veloci rispetto alle sue reazioni razionali. A me sembra solo una persona altamente irascibile e potenzialmente collerica. Forse è vero quello che dice Dalton, ma continuo a credere che Hugo sia semplicemente molto arrabbiato e incapace di controllarsi. Io me la tengo stretta la rabbia, la nascondo e a volte me ne dimentico, ma rimane ugualmente lì dov'è; altre volte la libero io, solo che non è più rabbia ormai: è rancore e ogni gesto che ne ricavo è vendetta. La mia rabbia finisce sempre per diventare una subdola arma.
     All'improvviso mi rendo conto che Aaron e Hugo hanno smesso di battibeccare e che tutto il Refettorio è in silenzio. Mi guardo attorno: Black e la Chung sono rientrati. E con loro non si parla.
Ho appena il tempo di scambiare un'occhiata con Hugo, prima che la voce arcigna dell'agente FBI mi richiami.
     «Dawney, per quale motivo non stai mangiando?»
Effettivamente ho ancora la salvietta premuta sulle labbra e davanti a me un vassoio pieno di cibo selezionato che ho il dovere di mangiare. I pasti sono pre-selezionati per ogni detenuto ed ogni vassoio contiene l'esatta quantità di cibo proporzionata per le esigenze di ognuno. Quando si tratta di cibo, nessuna guardia è tollerante: una volta Black mi ha addirittura imboccata e siccome non ho la minima intenzione che riaccada, a malincuore tolgo la salvietta, prendo in mano la forchetta ed inizio a mangiare. In realtà non sono veramente abituata a finire tutto perché do sempre di nascosto una porzione a Lily, ma mi obbligo a mangiare frettolosamente il più possibile: gli altri hanno già finito, quindi per il rientro nelle celle stanno aspettando solo me. E mi guardano tutti. E questo non aiuta né lo stomaco chiuso, né la ferita sul labbro.
Mentre mi agito sul posto per dissimulare la nausea, Hugo rutta ed attira sguardi, sbuffi e risatine, trasgredendo il silenzio; nel giro di un altro paio di rutti, che riescono a richiamare l'attenzione generale, mando giù tutto quello che posso frettolosamente, chiudo il vassoio e aspetto il Segnale di Consenso che arriva subito dopo con una lucina verde all'angolo del tavolo. 
     Tengo gli occhi bassi e sorrido riconoscente a Hugo, poi mi unisco alla risata silenziosa di Aaron.

     Ci rimettono le manette, prima di riportarci nelle nostre celle.
Black è rimasto indietro a controllare i Codici di Consenso, perciò ne approfitto per seguire il gruppo di Matt. 
Gli spostamenti di gruppo avvengono sempre in fila indiana: dietro di me Hugo spiega ad Aaron come ruttare per finta e davanti Dalton cammina a testa bassa. Mi getto un'occhiata attorno, prima di attirare la sua attenzione.
     «Hey!»
     Lui non si volta per non dare nell'occhio, ma fa un basso cenno con la testa. «Nath.» annuisce. «Stai meglio?»
Dalton non usa mai parole come "Bene" o "Male": secondo lui lo stato d'animo umano è troppo complesso per essere associato a concetti tanto astratti, ambigui e generali.
     Sorrido anche se essendo di spalle non mi può vedere. «Sì, meglio.»
     «Mmh...» Considera, poi. «Che tu sappia, quella salvietta conteneva del disinfettante?»
     Sbatto le palpebre e corrugo le sopracciglia. «Ehm... No. Cioè, non credo. Perché dovrebbe?»
     «Mmh.» Si guarda i piedi.
Matt ci passa a fianco per aprire un cancello, ma non ci richiama.
    «Senti Dalton, Hugo mi ha detto della piant... Cosa. Sai se c'è un modo per verificare che corrisponda effettivamente all'edificio?» Domando bisbigliando.
   Dalton annuisce. «Certo. Possiamo controllare l'incidenza di angoli e inter-spazi. Dovrebbe essere sufficiente per verificare una coincidenza verosimilmente approssimativa.»
     «Bene.» Annuisco, anche se l'unica cosa che ho capito è che se ne occuperà lui; e io mi fido. Lo fermo però, prima che inizi ad esporre una serie di probabilità statistiche che invece, non ci sia alcuna coincidenza. «Lo faremo.» Annuisco. «Hai già qualche idea?»
   «La Cella di Detenzione è sul lato estremo, ne controlleremo gli angoli. Il Refettorio e l'Infermeria hanno una collocazione mediana invece, sono interspazi abbastanza affidabili.»
     «Questo significa che qualcuno deve finire in punizione e qualcun altro si deve fare male.» Deduco.
Svoltiamo l'angolo e ci ritroviamo sullo stesso corridoio dove Matt ha raggiunto me e Black, prima di cena.
     «Amianto.» Ricordo, all'improvviso: ne sento ancora il sapore artificiale sulla bocca.
     «Cosa?»
     «Amianto.» Ripeto. «Tu sai che roba è?»
     Dalton si volta di poco, ma mi basta per notare la sua espressione sorpresa e gli occhi a mandorla ancora una volta sottili e concentrati. «Amianto?» Torna a darmi le spalle per non attirare l'attenzione delle guardie.
     «È un minerale ignifugo. Per questo iniziarono ad utilizzarlo per la coibentazione di edifici, fabbriche, automobili, treni, navi ed utensili per i Vigili del Fuoco. Finché non hanno scoperto che è tossico.»
       Ho smesso di sorprendermi per conoscenze di Dalton, ormai. «Tossico?»
    «Ah-ha.» Annuisce. «In sé l'amianto non è pericoloso, ma dopo venti, trent'anni inizia a sfaldarsi in fibre che intossicano l'apparato respiratorio. Ci hanno messo più tempo a rimuoverlo dopo che ad accorgersene, infatti.»
     «Quindi non lo usano più?»
     «Certo che lo usano! Ne è proibita la lavorazione, ma non la vendita e in alcuni paesi nemmeno l'utilizzo. Oggi, più che altro, usano la polvere di amianto per armi da fuoco...»
      «Dove diamine credi di andare, tu?» Una mano spunta fuori dal nulla e mi arpiona il braccio, facendomi trasalire.
Mentre Black mi trascina dall'altro lato del corridoio, mi rendo conto che stavo entrano nella Cella Maschile perciò all'inizio lo seguo senza oppormi, ma non appena vengo invasa dal suo rivoltante profumo, sono costretta istintivamente a scrollarmelo di dosso ed allontanarmi.
     Vorrei tapparmi il naso, ma sono ammanettata. Il respiro mi si affanna subito e sento il peso della cena sulla bocca dello stomaco. Non capisco perché gli altri giorni non abbia avvertito nulla di simile quando si avvicinava, non capisco perché solo ora.
Mentre altri due selezionano i detenuti delle celle maschili, Matt accompagna le tre ragazze della Seconda Cella Femminile. Siccome Lily è ancora in infermeria, per la Prima Cella Femminile ci siamo sono io ed Alicia.
     Black tira fuori l'Identificatore e seleziona la mia compagna di cella tramite il suo Bracciale di Distinzione. Poi mi guarda e sospira.
      «Devo sul serio tirare fuori la pistola di nuovo?» Inarca le sopracciglia.
La vista mi si sta annebbiando. Non apro bocca perché la nausea me lo impedisce, mi limito a guardarlo.
     La voce di Hugo alla nostra sinistra, oltre le sbarre della Prima Cella Maschile, arriva alta. «Che c'è, Black? Ti serve un'arma per tenere a bada una ragazza?»
In un'altra occasione sarei scoppiata a ridere solo per schernire Black, per una volta tanto, ma riesco solo ad approfittare delle risate dei ragazzi per fare un altro passo indietro in cerca d'aria pulita. 
     Il soldato si acciglia e noto un solco di rabbia corrugargli la fronte. Tira fuori la pistola e la punta contro Hugo.
«Chiudi la bocca o te la faccio saltare in aria.» Sputa, togliendo la sicura.
   L'altro scoppia a ridere sprezzante, senza smettere di guardarlo. «Smettila di atteggiarti, stronzo. Tanto non puoi uccidermi.» E gli sorride.
Rabbia. Sono così simili. E se Matt non fosse intervenuto tra loro, sono sicura che Black sarebbe finito col staccargli la mandibola a pugni.
     «Jamie, non fare cazzate.» Lo ammonisce severo.
     Black non si muove, in nessuno dei due sensi: non si avvicina ulteriormente a Hugo, ma non si allontana nemmeno.
   Allora, l'altro soldato scuote il capo e si limita ad un «Tra poco scatta il Coprifuoco.» con una piega leggermente divertita nel tono della voce.

      È Matt a siglare il Consenso del mio Ritiro in cella: si frappone tra me e Black, come prima, cercando di tenerci ad una distanza sufficiente.
     Quando il Ritiro viene completato, mentre le sbarre scorrono alle mie spalle, sento i due militari discutere e qualche istante prima che il campo di forza neutralizzi i suoni, sento Matt dire a Black di non mettere più alcun profumo.
     Do le spalle alle sbarre e mi dirigo verso il bagno; tolto il camice con uno strattone, m'infilo subito sotto le docce.
     Il militare Matt non è sempre stato così. Ricordo che era il primo nelle segnalazioni di condotta, il più rigido nel rispetto degli orari e il più disinteressato nell'assegnazione delle punizioni. Hugo ed Aaron portano ancora i lividi del suo manganello sulla schiena. Per certi versi era addirittura peggio di Black, prima.
     Prima di Emma.
La sua Emma si trova nella Seconda Cella Femminile, adiacente alla mia. Da quel che ricordo, è sempre stata occhi lucidi, guance tonde e capelli rossi, quel tipo di ragazza dal sorriso birichino e la risata cristallina, che non nasconde altro che qualche sciocca ed infiocchettata speranza.
     Lei ha sedici anni, lui trentaquattro. E io giuro di non aver mai visto due persone amarsi tanto.
Tutti sanno della loro relazione, tutti fanno finta di nulla: loro compresi. Eppure io li ho visti innamorarsi: da quando Matt la osservava ancora da lontano, con la scusa di sorvegliarla e lei arrossiva continuamente sotto i suoi occhi, tanto che le guance raggiungevano la stessa tinta dei capelli; li ho sentiti la notte rinunciare al sonno e ai sogni solo per poter parlare, timidi e imbarazzati poi a poco a poco più aperti, sicuri, avidi; è come leggere un romanzo o guardare un film di cui l'unica cosa certa della trama è il loro amore, mentre il resto solo ingiustizia.
     Il getto d'acqua si arresta all'improvviso. Alzo lo sguardo verso una delle otto telecamere che ho puntate contro, quella all'angolo della porta di vetro ed esco dalle docce andando contro un vortice d'aria calda che mi asciuga il corpo bagnato.
La parete-specchio che ho davanti riflette i miei capelli mossi dall'aria dell'asciugatore: ciocche bianche che mi svolazzano attorno al viso, tanto bianche da mettere in secondo piano il pallore della pelle; tanto bianche da porre in evidenza prima di tutto la loro anormalità: la mia anomalia. Gli occhi invece non sembrano nemmeno chiari perché non sono semplicemente azzurri o grigi, ma non hanno alcun colore, l'iride non si è mai differenziata dopo la nascita.
     Eppure non è questo a farmi esitare davanti allo specchio, è il mio viso teso: gli occhi rossi, il labbro gonfio, le sopracciglia corrucciate. Riesco a riscuotermi, ad uscire da un groviglio di pensieri che non mi appartengono ed allora sento un nodo al limite dell'esofago, percepisco chiaramente dolore alle gambe ed avverto fitte nervose trapassarmi il cranio; le mie mani sono strette in due pugni contratti e nervosi.
     Metto la divisa che consiste essenzialmente in pantaloncini igienici e camice, nient'altro è concesso, ma prima di uscire dal bagno getto un'altra occhiata al mio riflesso.
     C'è qualcosa che non va.
Esco dal bagno e mi dirigo subito verso il mio letto, sdraiandomi e raggomitolandomi su me stessa. Faccio sempre fatica ad addormentarmi perché tengono le luci accese tutta la notte e in più non possiamo coprirci; ma questa notte chiudo gli occhi e mi concentro sul tremolio delle mie mani. 
     Dimentico le telecamere, le guardie, Alicia, Lily; ci siamo solo io e la sensazione di vuoto che mi strozza la gola, ottura l'esofago e blocca lo stomaco. Ora ci sono solo io e quel qualcosa che non va. Ora ci sono solo io.

     Nel mio sogno Hugo e Aaron salgono di corsa le scale. Raggiungono il tetto e trovano Black seduto sul cornicione ad aspettarli. D'un tratto, si alza e allontana Aaron da Hugo, mentre quest'ultimo lo ringrazia e si dà fuoco.
     Mi accorgo di essere sveglia perché sento freddo. Ho il respiro affannoso e mentre cerco di distinguere ciò che vedo, una lucina - reduce dal sogno - mi lampeggia davanti. È baluginante: compare e scompare, ma riesco a trarne una conclusione ancor prima di comprenderne a pieno il significato. Ed eccolo, il motivo dell'incertezza che mi segue dalla cena, la ragione per la quale continuo a ripetermi inconsciamente 'C'è qualcosa che non va'
   Se l'intero edificio è rivestito da un materiale che non può prendere fuoco, perché dovrebbe esistere un'uscita antincendio?
     Incrocio lo sguardo di due occhi verdi che mi osservano oltre le sbarre. Scatto a sedere: sono sudata, sto tremando. E vomitando.
      È una trappola.



 



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Eccomi qui :)
Lo ammetto, in questo capitolo ci sono molti più indizi di quanti ne avrei voluti. Innanzitutto ci sono alcuni avvenimenti e/o passaggi che hanno una rilevanza particolare: i caratteri della violenza di Black su Nathalie, perché il suo primo istinto è quello di ferirla in alcuni punti piuttosto che in altri; perché ha insistito continuamente affinché lei non andasse in Infermeria sia nei non portarla da Lily che nel non segnalare l'intolleranza, quando è un suo dovere? È davvero un caso che Hugo abbia trovato la piantina del carcere? È realmente la piantina del carcere? E come ha capito alla fine Nath: perché è segnalata un'uscita antincendio se l'edificio è già protetto da ogni forma di calore? Ma soprattutto, è possibile che James Black si sia lasciato sfuggire la parola "amianto"? Una piccola precisione, su Nathalie e sulla sua descrizione: lei è albina perciò ha i capelli bianchi e gli occhi innaturalmente chiari.
Detto questo, grazie per aver letto e, essendo la storia la mia prima originale ed essendo ancora agli inizi, se qualcuno volesse lasciare un parere costruttivo, mi farebbe davvero piacere
A presto, 
Bess

 
   
 
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