Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: etby98    28/01/2014    0 recensioni
Codesta che sto per presentarvi, e che spero seguirete, è una FF su JeanxMarco, potrei dire.
In realtà, è una FF AU.
Non parlerò solo di JeanxMarco, bensì farò una vera e propria storia, la vita di Jean in questa Londra -anno non preciso- e questo corso.
Seguite l'avventura di Jean,ed i suoi compagni (?) Tutti qui.
Siamo ancora all'inizio, quindi attenderete un poco per le cose serie, o magari divertenti.
Ma si, ci sarà anche dell'amore. Per le pulzelle fujoshi, sì, anche un poco di yaoi.
Il personaggio principale: è un Jean molto torvo, spocchioso e solitario. Molto arrabbiato con se stesso per via del passato, che cerca di dimenticare -AU- dall'aspetto molto rude, tra orecchino all'orecchio destro, il taglio di capelli e gli abiti di poco conto che porta.
Un personaggio dall'aria cattiva, ma che questo suo essere è più che altro una difesa.
La pubblicherò una volta alla settimana -salvo complicazioni.
Per il resto, vedremo con il proseguire della storia~
Buona lettura, leggete almeno il primo capitolo, e ve ne sarò grata
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shoujo-ai, Yaoi | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Autrice.

Salve a tutti! Codesta che state per leggere, è una prima FF che pubblico -non stupitevi se non è granché.
Leggete le caratteriste per info in più, oppure scritevete i vostri pensieri sotto nelle recensioni. Okke?
Un enorme grazie, a te Caro Lettore. Grazie, anche solo di averla aperta, e se la leggerai, spero ti piaccia.
Goditi la lettura. Al prossimo capitolo~

  Prologo.
 
Un sussurro.     
"Jean"
«Chi è?»             
Un tunnel vuoto. Guardarsi attorno e inutile: quel paesaggio e cosi familiare. Può sentire delle grida sottomesse. Un odore inconfondibile di morte, sangue.            
Angoscia, dolore, rabbia.            
Emozioni tanto familiari, anch'esse. Il corridoio nero sembra farsi sempre più stretto. Nel mentre cerca di ricordare, di seguire quel ricordo, che gli sembra tanto lontano.       
Un sussurro.     
"Jean"
Corre. Comincia a correre. Non ne capisce la ragione, ma sente che se non sarà veloce, se non si sbriga, non arriverà mai in tempo.
"in tempo, perché?"     
Corre. Perle di sudore gli bagnano la fronte, il respiro e pesante e quasi gli scoppiano i polmoni.            
Corre. Le gambe si fanno man mano più pesanti.           
Corre. Non vede nulla, dinanzi a lui. Il nulla. Eppure continua. Continua a correre.         
Comincia a notare che, quella pesantezza delle gambe, deriva dal fatto che sta sprofondando.              
Comincia ad urlare, vedendo il nero avvolgerlo e risucchiarlo in un altro luogo. Dove? Perché?               
Un sussurro. Allunga una mano, gridando un nome. Grida, mentre le lacrime gli rigano il volto.              
"Ci rivedremo"

***

L'acqua scorre lenta. Calda sui polsi.      
Si era svegliato nel cuore della notte. Il cuore ancora palpitante, minacciava di voler uscire letteralmente dal petto. Sentiva la testa pesante, ed un'angoscia terribile sembrava strisciargli addosso.
«Maledizione..» disse tra sé.    
Si passò un poco d'acqua anche sul viso. Poggiò poi le mani sul lavandino, appoggiandosi con il peso. Si guardò allo specchio. Dei solchi, formatosi sotto i suoi occhi, sembravano tanto profonde e familiari, come una vecchia conoscenza che torna spesso a farti visita.       
Che brutta faccia, tch pensò.   
Fu ancora meno consolatoria la vista del orologio dell'ingresso. Erano circa le 4:45 a.m.               
Non posso certo tornare a dormire. Non voglio di nuovo ritrovarmi in quel buio.            Si passò una mano sul viso, uscendo dal bagno. Dovette accendere la luce, per poter camminar nel corridoio –ma soprattutto per quella sua sensazione di vuoto ed angoscia nel rimanere in quel buio pesto.    
Dopo essersi svegliato, era corso nel bagno, portandosi dietro la coperta. Ora era tutta stropicciata a terra, come un serpente silenzioso pronto ad attaccare. Sbuffando, decise di lasciarla dov'era.             
A piedi nudi, arrivò in cucina. Prese un bicchiere di vetro, vi versò un poco d'acqua. 2 ore.
Che fare in 2 ore?          
Sorseggiando l'acqua fresca -che gli diede un poco di sollievo- non poté non ripensarci.             
Quel sogno.      
No, un incubo. 
Un assillante scena, che tornava. Tornava. Notte dopo notte. Da un mese oramai.       
Stessa scena. Sempre. Sempre..            
Eppure, anche se più volte rivista, quella scena non cambiava. Sapeva bene come finisse, ogni volta. Ma non poteva evitarlo. Sentiva quel sussurro. Una voce tanto lontana. Ma di chi? Chi era?     
Non poteva ricordare. 
Nemmeno il nome.       
Lo ripeteva sempre. Durante il sogno, quel sussurro lo chiamava per nome, ed anche lui chiamava il sussurro. Lo gridava, quel nome, ma nel risveglio tutto svaniva.         
Era irritante.     
Poggiò il bicchiere sul tavolo.    
Si adagiò con la schiena al muro. Portò la testa indietro, sentendo le piastrelle sulla nuca, fredde.
Socchiuse gli occhi.  Fissò a lungo il soffitto. Chiuse gli occhi, cercando di metter ordine a quella miriade di pensieri.

 
Capitolo 1
Il buio che precede il sorgere di un nuovo inizio.



Era una mattina come tante.  Al centro di Londra, uomini d’affari indaffarati e distratti attraversavano la strada, con le loro valigette nuove e la puzza sotto il naso.              
Nel mentre li osservava, Jean non poteva far meno di sbuffare tra sé. Ricordava che, da giovane, anche lui desiderava esser come quei uomini che tornano tardi da lavoro, con una bella moglie, dei figli, ed uno stipendio niente male.   
Cazzate.. pensò.            
Il gelido inverno era appena iniziato. Il leggero strato di ghiaccio formatosi sul marciapiede, faceva sì che qualche innocuo passante rischiasse di cadere. Quello sì, che era spassoso. Soprattutto per i ragazzini che li osservavano, deridendoli. Con i loro nasi rossi, i cappelli di lana –probabilmente cuciti da una nonna prematura- tirati giù sino alle orecchie e quei loro giacconi rigonfi e colorati.           
Jean, con il borsone a tracolla ed una mano nella tasca del suo impermeabile, se ne stava con il muso nascosto nel colletto. Il respiro formava piccole nuvolette, che gli passavano dinanzi gli occhi. Camminava a passo lento ma lungo, per poter arrivare il prima possibile alla metropolitana.    
Scese le scalette –rischiando di cadere- comprò un biglietto sul momento e si diresse al binario, ad aspettare. Attorno a lui scorgeva molta gente. Tra mamme e padri con i loro bambini, poi anziani con i capelli brizzolati e miriadi di ragazzi che andavano verso i licei.  
Quanto mi manca la scuola, mi stupisco di me stesso. La scuola non era stato tanto male, in effetti. È li che aveva conosciuto i suoi amici.       
Sentì lo sferragliare, poi dinanzi a lui sfrecciò il treno. Fastidiosi brividi lo percorsero, quando fu colpito dalla scia d’aria del vagone. Stringendosi ancor più nell’impermeabile, aspettò l’aprirsi delle porte.             
Quest’ultime fecero un crepitio, poi uno scatto e si aprirono. La gente uscì come un fiume in piena, mentre cercava di farsi strada tra quei visi stanchi ed infreddoliti.          
Riuscito ad entrare, cercò con la mano un qualcosa a cui reggersi.          
Rimase in silenzio, controllando con la coda dell’occhio lo schermo ove veniva indicata la prossima fermata.

***

Risalendo le scale, si ritrovò in Leicester Square. Alle sue spalle, l’edificio in cemento di un pallido grigio/beige, lo salutava tristemente.     
Dinanzi a lui, la gente sembrava aumentare ogni secondo di più.            
Guardò l’ora. Erano circa le 7:43.             
Con passo veloce, questa volta, si diresse verso Cranbourn Street. Svoltò, trovandosi accanto il ristorante “Bella Italia”.                
Le poche macchine che passavano, erano veloci e lasciavano il loro passaggio, scomparendo come erano apparse. I palazzi che si eleggevano tutt’intorno a lui, erano fieri testimoni dell’architettura e grandezza Londinese.       
Finalmente, si ritrovò dinanzi alla Survey Corps.              
La S.C. era, almeno per lui, una scuola. Una specie di scuola. Non era proprio convinto di quella sua scelta, ma oramai era presa.  
Si veniva temprati, addestrati e poi, un giorno forse, mandati a proteggere il proprio paese. Per ora, potevano solo pulire le posate con cui mangiavano e studiare libri di 500 pagine l’uno, senza capire assolutamente nulla su come codeste letture potessero servir loro.   
Sta il fatto che, dopo il pre-corso di metà anno, c’era stata una scelta. Quella scelta, era tra 3 diverse opportunità:       

-Garrison, la meno importante, cui ruolo è sorvegliare le vie della città e star seduti su una scrivania a controllar scartoffie.               
- Survey Corps, cui lavoro principale era il lavoro sul campo. Partecipare a spedizioni speciali, diventare un militare attivo con la pelle sempre a rischio.            
-Military Police: cioè lavorare nel castello della regina, a Buckingham Palace. Un lavoro glorioso, che spettava solo ai migliori 10 del pre-corso.            

Jean, appena entrato nel pre-corso, aveva optato per la Military Police. Ovviamente, non se lo sarebbe mai aspettato di cambiar così facilmente idea.   
Rischiare la vita, non era certo da lui. Ma era troppo tardi per ripensarci.            
Ogni opzione, ha una propria sede. La S.C. è situata su una via piccola e stretta, isolata. Un enorme castello riadattato, con i dormitori appositi sia per maschi che per femmine.      
Visto che il corso vero e proprio iniziava quel dì, Jean si convinse di non esser agitato e che sarebbe andato tutto liscio. Ovvio.  
Entrando, dal enorme portone di legno, posando il suo borsone a terra, non fece a meno di notare la enorme scritta incisa nella pietra.      
“Flügel der Freiheit“     
  «Tradotto: “Ali della libertà” è tedesco, ma tu Jean non sai nemmeno parlare la tua, di lingua.»           
Quella voce, che a lui sembrò tanto irritante, bastò a farlo innervosire. Si voltò, con uno sguardo pieno di disprezzo, verso il ragazzo accanto a lui.    
Eren Jaeger. 5° posto tra i migliori del pre-corso, una testa dura, che credeva ancora ai sogni, che parlava tanto ma che nel agire era solo un bambino pieno di sé. Però aveva qualcosa. In quei suoi occhi, Jean poteva scorgere una scintilla, un qualcosa che lui stesso non aveva. Un qualcosa, che non sapeva spiegarsi. Qualcosa che lo faceva sentire inferiore –oltre al fatto che Jean era arrivato 6°.  
  «Ah, Jaeger. Non parlarmi come se fossi come te.»    
Il ragazzo digrignò i denti, con disprezzo nella voce «Sei solo un cretino, Jean. Ancora non capisco cosa tu ci faccia qui.»               
  «Ho deciso di venire qui di testa mia. La cosa non ti riguarda. »             
  «Forse avevi paura di far brutta figura nella Military Police? Magari non vogliono uno come te.»         
  «Tu, maledetto!» disse, prendendo il colletto del ragazzo. Eren sgranò per un attimo gli occhi, afferrando poi la mano di Jean stretta alla maglia.               
  «Basta voi due.» disse una voce. Una voce dolce, che bloccò il povero Jean. Una mano pallida, dolce ma ben delineata, si posò sulla sua mano e su quella di Eren, per separarle. «Basta.» ripeté.             
Jean schioccò la lingua, lasciando la maglia di Eren, che fece un passo indietro per riprendere l’equilibrio.
  «Sei fortunato, Jaeger. Ringrazia che ci sia sempre Mikasa a salvarti.»               
Mikasa Ackerman. Una ragazza alta e snella, dai profondi occhi grigi e dei capelli neri corti fin sopra alle spalle. Aveva il suo solito aspetto un poco serio. Con la sciarpa rossa al collo. Non accennò a dir nient’altro, al contrario di Eren.    
  «Io me la so cavare anche da solo. Vedrai, un giorno.»              
  «Ah? Minacci, Jaeger? Non mi fai paura, aspetterò con ansia che tu muova quel culetto, invece di lasciar parlare a vanvera quella tua boccaccia.»  
Eren strinse i denti. Sembrò sul dire qualcosa, quando rinunciò ed avanzò, con Mikasa alle calcagna.   
Quando gli passarono accanto, Jean non si voltò. Adorò la scia di profumo della ragazza, sospirando poi. È proprio un bastardo fortunato, pensò.      
Dopo quel incontro mattutino, salì le scale, alla ricerca della sua stanza.              
I dormitori maschili erano al 3° piano, al 2° quello femminile, al 1° le classi e la mensa. Nel sotto suolo, quelle che una volta dovevano esser delle celle, ora erano le biblioteche ed alcuni uffici e la direzione.        
I dormitori avevano 4 posti letto.           
La sua stanza era la 304.              
Mentre passava dinanzi ogni stanza, alla ricerca della sua, si sentì chiamare alle spalle.
Si voltò.              
  «Buondì, Jean» disse il biondo.             
  «Ehilà, Armin.»             
Armin Arlert. Il migliore nelle materie scritte ed orali, ma incapace quasi di alzare una penna dal tavolo. Era un ragazzo bassetto, dai capelli a caschetto biondi, occhi azzurri brillanti, ed una mente anch’essa brillante.
  «Come hai passato il mese per la decisione?»
  «L’ho passato a non far nulla, a parte dormire e fare alcuni giri per la città. Tu?»           
  «Io sono stato con Mikasa ed Eren a nord di Londra, ma nient’altro purtroppo. Ero molto agitato oggi, però questa è una struttura ben organizzata.» disse, sorridendo «Ho saputo che avete bisticciato, tu ed Eren.»                  
  «Tch, già. Quell’idiota che si crede invincibile.» disse Jean con amarezza.         
  «N-Non fare così, Jean.»          
  «Già, non me la prendo con te.»          
Ci fu un attimo di silenzio, che sembrò durare un’eternità.        
  «Ah, stai cercando la tua stanza?» disse Armin.            
  «Sì, sono alla 304.»      
  «Ma è la mia stessa stanza, a quanto pare la condivideremo!» disse, alquanto contento.        
  «A quanto pare.»        
  «Vuoi che ti ci accompagni?»  
  «No, ci andrò da solo.» disse poi, salutando il biondo, che si voltò per poi sparire dietro l’angolo.        
Dopo un poco, trovò finalmente la sua stanza. Introdusse la chiave nella serratura, notando che la porta non era chiusa.  Forse Armin l’ha lasciata aperta?           
Aprendola, ci fu un cigolio sommesso. 
La stanza era spaziosa, ma mal arredata: a destra due letti a castello, così come a sinistra, proprio dinanzi la porta c’era una finestra grande che lasciava passare il sole nella stanza in modo quasi etereo, sotto codesta finestra vi erano due scrivanie.               
Ma la cosa che lo lasciò perplesso, era che non era da solo.       
Accanto ai letti di destra, un ragazzo era intento a sistemare le cose contenute in una borsa da viaggio.             
Il ragazzo si voltò, sorridendo poi al nuovo entrato. «Buongiorno.» disse.          
Era un ragazzo dai capelli corvini, occhi scuri e lentiggini sbarazzine sul volto. Era un poco più alto di Jean, snello e con le spalle sottili.     
  «Ehila.» rispose Jean, un poco disorientato.  
  «Piacere di conoscerti, forse ci siamo visti al pre-corso, di sfuggita.»   
Il viso del ragazzo lentigginoso non gli era nuovo, ma non lo poteva associare a nessun nome.
  «Ti vedo un poco perplesso.» disse il ragazzo ridendo «Marco Bodt.» sorrise, porgendo la mano.       
  «Jean Kirschtein. Sì, mi ricordo vagamente.» disse, stringendogliela.       
  «Spero andremo d’accordo, in futuro.»            
  «Lo spero anch’io.» disse Jean, sorridendo. Non ne capì il motivo, ma provò strana sensazione, nel guardarlo. «Avrai incrociato Armin, il ragazzo biondo, un poco basso…»  
  «Sì, sì. È andato via circa 10 minuti prima del tuo arrivo. Un ragazzo simpatico.» il ragazzo si voltò, tornando a far quel che poco prima stava facendo.        
  «Un tipo ok.» disse Jean. Guardandosi attorno, notò che i letti sulla sinistra erano stati disfatti e sopra ad entrambi vi erano delle borse.      
  «Eh già, quelli sono occupati.» disse Marco.    
Jean sbuffò. L’idea di dividere la stanza con così tante persone, non gli andava per niente giù. Con malumore, tirò la borsa sul letto in alto sulla destra. Marco sussultò, voltandosi prima verso la borsa, poi verso Jean.   
Jean non aggiunse nulla. Né spiegazioni, né scuse. Si avvicinò al letto, mentre il povero ragazzo sembrava diventare un pezzo di legno.
  «Ehi, rilassati.» disse Jean, aggrappandosi alle scalette del letto a castello.      
  «Non vieni a  fare colazione?» chiese timidamente.   
  «Forse. Per ora, voglio solo dormire. Ho fatto 3 ore di metropolitana.»             
  «Capisco.» disse il ragazzo. Jean vide la testa del ragazzo che annuiva, a testa bassa, mentre si dirigeva verso l’uscita.               
Jean si sdraiò sul letto, con accanto la propria borsa. Sentì la porta chiudersi.   
Cercò di riposarsi.          
Sarebbe sceso, più tardi. Avrebbe rivisto i visi già noti, visti un mese prima. Visi amici. Visi conosciuti e visi nuovi. Stranamente, gli passò ancora una volta il volto di quel ragazzo.             
“Spero andremo d’accordo, in futuro.” Gli ripassò alla mente la sua voce. Sospirando, fiaccamente, si rilassò qualche attimo, cercando di prender sonno.      
Sperando di non rivedere lo stesso film, angoscia familiare.      
  
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