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Autore: Kate244    30/01/2014    1 recensioni
-Non posso salvarlo, John.
Devi capirlo, la sua morte è un punto fisso nel tempo.-
-Allora non farlo. Non salvarlo.
Ma riportami da lui, fa' che io possa essere con lui.-
Partecipa al concorso "in una valle di lacrime" di gunslinger_
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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Autore forum e EFP: Kate244
Titolo della storia: I'll follow you into the dark
Fandom: Crossover Doctor Who e Sherlock (BBC)
Genere: Angst
Rating: Giallo
Avvertimenti: Death character
Personaggi: John Watson, Il Dottore (Eleven), Sherlock Holmes, River Song
Coppia: platonico (ma neanche toppo) John/Sherlock, River/Dottore

Introduzione:
-Non posso salvarlo, John.

Devi capirlo, la sua morte è un punto fisso nel tempo.-

 

-Allora non farlo. Non salvarlo.

Ma riportami da lui, fa' che io possa essere con lui.-


NdA (facoltative): Eccoci qua. Questa fanfiction è un po' un esperimento, ho tentato di mettere insieme due serie tv meravigliose come Sherlock e DW, cosa non originalissima visto le meraviglie che circolano nel fandom Wholock a cui io non mi paragono neanche. Come questa dalla quale ho preso ispirazione.

Insomma, I tried.

È ambientata dopo la 2x03 di Sherlock (sigh).

Ovviamente neanche mezzo personaggio mi appartiene (magari fossi un genio sadico come Moffat).

Piccole note tecniche: Essendo una AU, anzi, una Crossover, ho dovuto stravolgere “leggermente” gli eventi, ma spero di essere comunque restata fedele al canone. Nel caso non sia così, let me know.

 

 

 

Avvertimento: È una death character, quindi attenti a non inciampare nell'angst.

 

 

 

 

I'll Follow you into the dark

 

Love of mine

Someday you will die

 

 

 

 

Il primo incontro del Dottor John Hamish Watson e del Signore del Tempo conosciuto con il nome de “Il Dottore” avviene in una grigia giornata di aprile, davanti al St Bart's.

John torna spesso in quel luogo, senza un preciso motivo. In realtà c'è qualcosa che non riesce ancora capire, quasi vi fosse tristezza nei suoi occhi che si posano sul tetto del vecchio ospedale, mentre si fa ombra con la mano, nel respiro che si mozza alla vista degli antichi cornicioni. Ogni giorno, passando davanti al vecchio ospedale, sente di essersi perso. Un peso gli si posa sul cuore, opprimendolo, impedendogli di respirare liberamente. La testa gli duole, pulsa, come se qualcosa volesse uscirne fuori.

Quando abbassa lo sguardo gli occhi gli bruciano per le lacrime e il sole. Così, mentre si volta, pronto a tornare alla metropolitana, con l'indice e il medio che strofinano le palpebre stanche, non nota una cabina blu della Polizia situata dove un attimo prima c'era solamente un palo della luce.

 

 

-Scusi, ci conosciamo?-

-Non esattamente. Io conosco te, John, ma tu non mi conosci. Non ancora, almeno. Terribilmente scortese, vero? Il mio nome è il Dottore.-

-Il Dottore chi?-

-Il Dottore e basta.-

 

 

John si è sempre definito un uomo che ha vissuto. L'Afghanistan, le ferite, i morti, l'orrore, lo hanno temprato, fino a renderlo in pratica un uomo di ferro, di quelli che non si sorprendono più davanti a niente. Ma quando il Dottore (Dottore in cosa, poi?) gli mostra la sua macchina del tempo, TARDIS se ricorda bene, che può anche viaggiare nello spazio e gli racconta le sue meravigliose avventure, non può fare a meno di rimanere a bocca aperta. Tutto ciò che ha sempre sognato è una vita piena di azione, frenetica, che non gli lasci tempo per domande o pensieri, qualcosa che lo distragga dagli orrori della guerra. Ma purtroppo, dopo il ritorno dall'Afghanistan le sue giornate sono diventate sempre più lente e ripetitive, intrappolandolo in una routine che non ha mai desiderato ma alla quale è stato costretto a piegarsi: ci sono stati momenti, in quei due anni, in cui ha addirittura pensato di farla finita.

Riscuotendosi dai suoi pensieri si rivolge allo sconosciuto, in tono scettico:

-Ma tutto questo non è possibile, scientificamente intendo...-

Il Dottore ammutolisce, allora, si volta e lo guarda con un dolce sorriso stampato in faccia.

-John, John, John. John Hamish Watson. Mi ricordi così tanto di lui. Aveva minacciato di smontare pezzo per pezzo il TARDIS se non gli avessi spiegato quale tecnologia aveva creato una macchina simile.-

John rabbrividisce. Di nuovo, come ogni notte, gli sembra di scorgere nella sua mente un'ombra, un'immagine sfuggente come fumo.

-Di chi parli?-

-Oh, penso che tu lo sappia benissimo Dottor Watson.-

John sente la testa scoppiargli. Non capisce, è la stessa sensazione che prova ogni volta che passa davanti al quell'appartamento, il 221 B, in Baker Street, ma moltiplicata per mille. Gli sta sfuggendo qualcosa, è da mesi che ha questa sensazione, che si sveglia urlando un nome che non conosce, sperando inconsciamente di vedere occhi chiari dal colore indefinibile fissarlo, occhi che non icoda di aver mai visto in vita sua. Non ne ha parlato a nessuno, neanche alla sua analista. In qualche modo sente che non potrebbe aiutarlo, che deve riuscire a risolvere tutto ciò da solo.

-Come immaginavo. Non lo hai dimenticato John, e come avresti potuto?- Il Dottore gli si avvicina, prendendogli la testa fra le mani.

-Chi non ho dimenticato? Chi?-

L'alieno sorride triste.

-Sherlock Holmes, ovviamente.-

Quel nome scatena nella mente del medico militare un vero e proprio uragano.

Sherlock. Sherlock. Sherlock Sherlock Sherlock.

Di nuovo vede quegli occhi, che lo fissano, vede una figura alta, slanciata, che si fa sempre più vicina, sempre di più, finchè non lo vede chiaramente, Sherlock. In quel momento un milione di immagini, ricordi e suoni sembrano esplodere nella sua mente. Quell'appartamento, quello che gli provocava un tuffo al cuore al solo vederlo, era il loro, dove loro vivevano.

 

-Il nome è Sherlock Holmes

e l'indirizzo è il 221 B di Baker Street-

 

Una poltrona, uno smile giallo disegnato su una tappezzeria di dubbio gusto rovinata da colpi di pistola, e poi ogni caso, ogni momento, ogni singolo secondo, tutto torna alla mente di John Watson e la travolge, simile ad un uragano, allo stesso modo con cui Sherlock era entrato a far parte della sua vita, annullando tutto il resto.

Ricorda ogni cosa, ora.

Ogni cosa.

 

 

 

-Sherlock è morto.- John stringe i pugni e tiene lo sguardo fisso a terra.

-Sherlock è morto e io l'ho dimenticato. Spero che tu abbia una spiegazione per tutto questo.-

-È complicato.-

John alza gli occhi.

-Ho tutto il tempo del mondo.-

 

 

La spiegazione è effettivamente complicata. Quando il Dottore finisce di parlare John sente un terribile mal di testa: in meno di dieci minuti ha scoperto di aver appena parlato con un alieno, che l'umanità non è certo sola nell'universo e che il suo migliore amico è stato risucchiato da quella che il Dottore ha chiamato una “crepa nel tessuto del tempo” mentre cercava di mettere in scena il suo falso suicidio, così da poter ritrovare Moriarty che, a giudicare da ciò che dice l'alieno, non solo non è morto, ma non è neanche un pericoloso criminale, bensì un altro Signore del Tempo.

-Come posso ricordarmi della sua esistenza quando nessun altro lo fa?-

Il Dottore mostra un sorriso a trentadue denti:

-Bella domanda, bellissima domanda, ed immagino che la risposta non piacerebbe a Sherlock, ma si tratta di un potere di cui neanche il Maestro o come lo chiami tu, Moriarty, avrebbe potuto mai tenere conto.-

-Ovvero?- sbottò il medico, stanco della loquacità del Dottore.

-La fiducia, l'amicizia, l'amore, ogni sentimento che ti ha portato a credere a Sherlock Holmes anche quando l'intero universo aveva smesso di farlo. Gli antichi egizi, John, credevano che l'anima di un uomo sopravvivesse alla morte se questi era ricordato nel tempo, e così è anche per le vittime delle crepe. Le persone che riescono a ricordarli li mantengono in vita.-

-Questo significa che Sherlock è ancora vivo?-

-Certamente John, ma in un'altra dimensione, dalla quale non posso portarlo via.-

John sentì anche l'ultima speranza di rivedere l'amico perduto rompersi.

-Allora non è servito a niente. Non serve ricordarlo, se questo non può riportarlo da me.-

-No John, non è così. Lui rimarrà in vita, nella tua mente rimarranno tutti i ricordi di cui ti ha fatto dono.-

Il medico militare gli voltò le spalle, digrignando i denti e avviandosi verso l'uscita della cabina blu. Non c'era più niente che potesse fare, niente. Aveva perso Sherlock, per sempre, e non l'avrebbe mai più rivisto.

 

 

 

Quella notte rivive ogni attimo, in sogno.

Ogni caso, ogni scena del crimine gli scorrono davanti agli occhi concatenate.

Sogna anche la telefonata, le ultime parole, la voce profonda di Sherlock che gli ordina di dimenticarlo, di non credergli, di tenere gli occhi fissi su di lui.

Quando Sherlock si lascia cadere, John cade con lui.

Cade e stringe gli occhi.

Perché non vuole vedere, non può vedere, perché non è vero e perché non è giusto.

Sente la testa girare, e senza neanche guardarsi intorno si lancia verso il marciapiede, urlando.

 

Non si accorge neanche della bicicletta che senza riuscire a frenare lo investe, si ritrova a terra, con il sapore del sangue in bocca, e per un attimo pensa di essere stato lui a cadere da quel tetto, e non Sherlock.

Pensa che in fondo sia meglio così, perché il mondo può fare a meno di lui, può fare a meno di un medico militare. Ma non di Sherlock Holmes. Non del suo cervello, non delle sue intuizioni, non del suo coraggio.

Perché nonostante il mondo lo tradisca, lui lo difende, sempre e comunque. Nonostante le persone perdano la fede e lo chiamino bugiardo, lui è ancora lì, pronto a risolvere complicati casi con una semplice intuizione.

 

Ma non è così, non è così semplice, così facile.

Svegliandosi di soprassalto si ritrova a scendere correndo le scale che portano dalla sua stanza al salotto, sicuro di aver sentito la sonata al chiaro di luna di Beethoven.

La sua mente ha elaborato qualcosa a cui il suo cuore non si abituerà mai.

La morte è un finale così banale per una mente brillante come la tua, Sherlock Holmes.

Ritorna nel suo letto, ricacciando le lacrime. Ma ogni volta che chiude gli occhi, vede Sherlock cadere.

Col passare dei giorni, semplicemente smette di chiudere gli occhi.

Passa le nottate a leggere, in salotto (ormai non prova neanche più a sdraiarsi a letto), con la luce soffusa di una vecchia abat-jour, con gli occhi che pulsano e bruciano.

 

 

A volte si chiede che fine abbia fatto il Dottore, dove sia in quel momento, su quale meraviglioso pianeta. Si rimprovera per non aver indagato più a fondo sul legame presente tra lui e Sherlock. Ricorda un suo accenno riguardo ad alcuni viaggi che avevano fatto insieme. Era dunque un suo “compagno”? O sono state solo esperienze occasionali?

In quei momenti realizza quanto poco sa di Sherlock Holmes, nonostante sia l'unico a riuscire a ricordarlo. Ora gli pare strano che Mycroft non lo saluti se si incrociano per strada, che Lestrade non lo chiami per offrirgli una birra. Ma tutti loro hanno dimenticato, hanno scordato il sociopatico ad alte funzionalità che era riuscito a unirli, a farli conoscere.

 

***

 

Non passa più davanti al St Bart's dal giorno in cui vi ha incontrato il Dottore. Farebbe troppo male, lo sa.

Ma quando lo chiamano per un lavoro part-time nell'ospedale, non può rifiutare. Ha bisogno di quei soldi, e così di ritrova di nuovo davanti al vecchio edificio, gli occhi piantati a terra nel tentativo di non evocare brutti ricordi.

 

 


Finché un buffo rumore attira la sua attenzione.

 

 

 

-John! Finalmente ci rivediamo!-

Il Dottore gli va incontro a braccia aperte, il sorriso scanzonato e lo stesso cravattino dell'ultimo incontro. La differenza, questa volta, è che è seguito da una donna sulla quarantina, con folti ricci biondi e vispi occhi azzurri.

-Lascia che ti presenti la mia compagna, e quando dico “compagna” intendo “moglie”, ci si confonde sempre, la professoressa River Song!- e dicendo ciò unisce la mano di John a quella della donna, che risponde con un furbo sorrisetto.

-È un vero piacere dottor Watson-

-Il piacere è tutto mio. Scusate molto, ma avrei fretta, ho un colloquio di lavoro e...- John non fa in tempo a finire la frase che si ritrova trascinato dal Dottore all'interno del TARDIS.

-Ah, lavoro, lavoro, c'è sempre tempo per il lavoro, a contrario del tè! A proposito, si sarà fatto tardi ormai, non che mi lamenti, ma i viaggiatori del Tempo hanno sempre qualche problema a prendere il tè alle cinque precise, non ti scandalizzi se te ne offro una tazza ora, no?-

John balbetta delle proteste che cadono nel vuoto mentre il Dottore sparisce in una delle molte stanze del TARDIS, lasciandolo in compagnia della professoressa.

-La capisco sa? Non è semplice avere a che fare con il Dottore. Ma mi creda, sono molti più i pregi piuttosto che i difetti in quell'uomo.-

-Ah sì?- chiede sarcastico John, per poi ricordarsi delle buone maniere e tentare di imbarcare una conversazione -Ehm, e così lei è sua moglie? Da quando vi conoscete?-

River sorride, nonostante i suoi occhi si velino di tristezza.

-Oh, le cose non sono mai così semplici con il Dottore.-

John non fa in tempo a chiedere spiegazioni che nota un cappello appeso all'appendiabiti vicino alla porta.

Quel cappello... era sicuro che Sherlock l'avesse perso. Come aveva fatto a non accorgersi mai di niente? Probabilmente avere una macchina del Tempo permetteva di stare via per giorni senza che nel presente passasse tempo...

Macchina del tempo che però non poteva salvare Sherlock.

 

 

Improvvisamente John capì ciò che doveva fare.

 

 

 

-Dottore, mi chiedevo, questa macchina può ritornare ad ogni momento della storia? Anche al momento in cui Sherlock è scomparso?-

-Sì, ma non posso salvarlo, John. Devi capirlo, la sua morte è un punto fisso nel tempo.-

-Allora non farlo. Non salvarlo, ma riportami da lui, fa' che io possa essere con lui.-



***


-Non posso farlo.- Il Dottore corre freneticamente intorno alla console del TARDIS, seguito dalla moglie.

-Non posso farlo, ci ripenserà, andrà avanti con la sua vita e capirà l'enorme errore che stava per commettere.-

-Non essere infantile Dottore, sai bene che non sarà così. John merita più di questa vita, e lo sai anche tu.-

-No, non posso! Ho già perso Sherlock. Non posso lasciare che sparisca anche lui.-

-Dottore, guardami. Guardami ho detto!- River gli prende il viso tra le mani, fissandolo con gli occhi pieni di lacrime.

-Noi non potremo mai dirci addio. No, non evitare il mio sguardo, non ho rimpianti. Ma permetti almeno a loro due di avere il loro finale. Glielo devi.-

 

 

Il viaggio è straordinariamente silenzioso. Tutti quanti sanno che sarà l'ultimo per John, ma cercano di far finta di niente.

Quando atterrano il medico sussulta per l'impatto, per poi voltarsi con sguardo risoluto verso il Dottore.

-Ho deciso.-

-Lo so, l'ho sempre saputo, in realtà. Arei voluto che viaggiassimo insieme, sai? Io te e Sherlock, destinazione: ovunque. Saremmo stati un bel trio. È stato un onore conoscerti John.-

-Anche per me lo è stato Dottore.-

-Sii felice.- gli sussurra River, commossa.

-Lo sarò, professoressa.-

Il Dottore batte le mani, riscuotendosi dal torpore in cui era caduto e asciugando una lacrima.

-Bene. Non c'è bisogno che te lo dica, immagino, ma non devi assolutamente interferire con i fatti John, mi raccomando. Tutto ciò che devi fare è avvicinarti a Sherlock e... sì, insomma...-

-... saltare. Lo so. Addio Dottore, professoressa, grazie di tutto.- John fa un impacciato saluto militare e si volta, evitando di incrociare gli sguardi dei due viaggiatori del Tempo, ed esce dalla cabina.

 

 

È un grigio martedì di Marzo quando Sherlock Holmes perde l'unica persona che abbia mai avuto importanza nella sua vita.

È un grigio martedì di Marzo quando John Watson ritrova l'unica persona che abbia mai avuto importanza nella sua vita.

 

 

 

 

-John? Cosa... com'è possibile?-

-Non ha importanza. Dammi la mano.-

-Perchè?-

-Perchè non posso dirti addio.-



 

But I'll be close behind
I'll follow you into the dark

 

  
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