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Autore: kishal    01/02/2014    2 recensioni
E' quasi autunno. La guerra contro Voldemort è finita, Sherlock è morto da ormai due anni. John, davanti alle porte di Diagon Alley, viene sommerso dai ricordi proprio quando, in preda al dolore, decide di abbandonare la magia.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: AU, Cross-over, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Quasi Autunno





E' quasi autunno.

Le foglie cascano, il sole dice addio al cielo, il freddo inizia a farsi sentire... et cetera, et cetera. Lo sapete com'è il quasi autunno, non rompete i coglioni chiedendomi di descriverlo. Non sono un cazzo di poeta.

E non è delle foglie che voglio parlare, tra l'altro.

Anche se, senza dubbio, è tutto l'insieme di cose che fanno sì che il quasi autunno sia tale a permettermi di ricordare.

Perché è dei ricordi che voglio parlare. Sì. Dei ricordi che il quasi autunno porta con sé.


Credo sia il caso di iniziare dal nome. Quasi autunno. Perché non fine dell'estate? Perché questo periodo non è mai stato per me la fine di qualcosa, ma l'inizio di qualcos'altro. Le porte della stagione più ambigua dell'anno mi hanno sempre portato fortuna, a dirla tutta.


Fu durante il quasi autunno dei miei undici anni che ricevetti la lettera di Hogwarts. Probabilmente fui uno degli ultimi del mio anno a tenerla in mano, visto che il mio compleanno cadeva ad estate inoltrata. E probabilmente, essendo un babbano – e della specie più razionale, oltretutto – fui anche uno degli ultimi a credere alla sua veridicità. E quest'ultimo prodigio lo dovetti niente poco di meno che a quell'anima pia di mia madre la quale, a differenza di mio padre – personificazione stessa del close minded per eccellenza – aveva la tendenza a pensare che nulla al mondo fosse impossibile. Un esempio per farvi capire meglio: quando le porte di Diagon Alley (o meglio, i muri) si aprirono per noi due, lei fece i salti di gioia, io quasi svenni.

“Oh, Johnny caro!” Mi disse una volta che mi fui ripreso, con quel sorriso dolce e luminoso che non ho ancora trovato sul volto di nessun'altra donna. “Credo tu abbia ereditato molto da tuo padre. La tua acuta logica, ad esempio. Ma se quella lettera è giunta nelle tue mani, significa che c'è anche qualcosa della mia follia in te! Adesso devi solo abituarti.”

“Abituarmi a cosa? Ai muri che si aprono? Che altro ci sarà là dentro?! Scimmie parlanti? Asini volanti? Demoni?!... Oddio! I demoni! Sono spacciato!” Sbottai, già in iperventilazione. Da bambino ero veramente un rompicoglioni, devo ammetterlo.

“Devi solo abituarti all'idea che i sogni possono essere realtà! O possono diventarlo!”

E detta da lei sembrava la cosa più meravigliosa del mondo. Fui rapito dal luccichio dei suoi occhi e dalla letizia del suo sorriso, e mi scordai di tutto il resto. Certamente era quello il suo obiettivo, risvegliare in me la meraviglia e scacciare così la paura verso quel nuovo universo in cui stavo per immergermi, senza lasciarmi modo di soppesare pericoli, controindicazioni e conseguenze varie. E, cazzo, funzionò. Ci misi un po' ad acclimatarmi, ma quella prima giornata di shopping a Diagon Alley in compagnia di mia madre sancì per me l'accettazione di quel che ero: un mago.


Sempre nello stesso anno, il quasi autunno mi accompagnò a Hogwarts.

E, cazzo, ho già detto tutto.

Hogwarts.

Un castello con tanto di fantasmi, soffitti magici, scale animate, stanze segrete, pericoli nascosti e incanti portentosi.

Un castello con quattro Case, centinaia di studenti e professori sopra le righe.

Quel cazzo di posto fantastico non solo mi ha fatto vivere le avventure più straordinarie che un uomo possa desiderare, ma mi ha dato anche una famiglia.

Venni smistato a Corvonero. Figlio di mio padre com'ero, non me ne stupii. “C'è qualcosa in te...” mi disse il Cappello parlante “... che parla di entusiasmo e coraggio. Sei leale, lo vedo. Onesto. Intelligente oltre ogni dire. Ma questa piccola scintilla che vedo... deve ancora ardere. Non è fra i grifoni il tuo posto. Non ancora.”

Sì, lo avete capito tutti: quella piccola scintilla era lo spirito di mia madre. Piccolo, minuscolo, fragile: ma c'era. Come lei mi aveva detto, la sua follia era in me.

Ed ebbe modo di divampare, a suo tempo, per mano di colui di cui ora vi parlerò.


Perché fu sempre durante un quasi autunno che conobbi Sherlock.

Secondo anno, King's Cross.

Quel cazzone aveva dato fuoco ai capelli di Draco Malfoy per dimostrare che non erano ossigenati. Non mi chiedete nulla di più, non so bene cosa, come e perché. So solo che, in qualche modo, c'entravano quelle emerite teste dei gemelli Weasley. Fatto sta che per poco la questione non fu chiusa con un duello fra Lucius Malfoy e i coniugi Holmes, e l'intervento del fratello maggiore dell'improvvisato piromane, Mycroft, evitò il peggio.

“Quel ragazzino ha coscientemente attentato alla vita di Draco!” Sibilò Lucius, fuori di sé per l'oltraggio.

“Quantunque debba ammettere la volontarietà del gesto” Precisò Mycroft, con quella modesta aria da saccente capace di irritare perfino un santo “Devo però ardire contraddirla per quel che riguarda la coscienza del tentato omicidio: è evidente si tratti di uno scherzo finito male.”

“Un quasi omicidio per lei è uno scherzo finito male?”

“Un pipistrello per lei è un topo che vola?”

“Un pipi..? Ma cosa...?!”

“Perché le giraffe hanno il collo lungo?”

“... E' forse impazzito?”

“E' venuto prima l'uovo o la gallina?”

“...”

“Ebbene, vedo che una cosa ci accomuna, signor Malfoy: rimaniamo entrambi basiti davanti alle più importanti domande filosofiche che l'uomo si è posto.”

“Di quali filosofie avrei mai parlato io?!”

“Mi ha domandato se un quasi omicidio possa essere uno scherzo finito male. E' questo il problema? Lo è o non lo è?”

“Esattamente!”

“Neanche Amleto seppe rispondere. Essere o non essere... per Merlino, quale importante interrogativo! Dunque, dico io, giacché nessuno è in grado di dare risposta a un tal quesito, guardiamo ai fatti: i capelli di suo figlio ricresceranno e senza dubbio Sherlock starà alla larga da lui. S'è fatto forse male qualcuno?”

“No, ma...”

“Dunque è finita al meglio!”

“Senza dubbio, però...”

“Felice di aver risolto con lei nel più razionale dei modi! Arrivederci, signor Malfoy! Spero veramente di poter discorrere di filosofia con lei quanto prima! E' una materia in cui è raro trovare interlocutori del suo livello!”

E così fu conclusa la faccenda.

Vi giuro: ricordo alla perfezione ancora sia le parole che le facce di quel momento memorabile, ma ancora non ho capito come cazzo abbia fatto Mycroft a salvare la situazione. Dopo la prima frase io già non lo seguivo più!

Prima di allora avevo già sentito parlare dei fratelli Holmes. Sapevo chi fossero, ma essendo entrambi più grandi e di Casa differente (Serpeverde) non avevo mai avuto occasione di frequentarli.

Fu casuale, dunque, il mio approccio con Sherlock quel quasi autunno. E dovuto più che altro all'ammirazione verso Mycroft.

“Tuo fratello è un mago delle parole!” Gli dissi, accostandolo mentre salivamo in treno.

Lui sbuffò, seccato. Ancora non sapevo che i due erano legati da rapporti altalenanti, dovuti – come capii in seguito – a consistenti differenze caratteriali e filosofiche. Nonché a una lotta intestina muta e silenziosa per decidere quale di quelle eccelse menti fosse la superiore.

“Potrebbe anche convincerti che una penna rossa è blu, lo ammetto. Ha del talento. Ma sono io ad aver dimostrato che quello sgorbio platinato non si ossigena!”

“... giusto!” Ammisi, perplesso, non volendo contraddirlo né fargli notare l'assurdità della sua affermazione. Era un po' come se mi avesse detto, con fierezza: certo, lui ha evitato la seconda guerra mondiale, ma sono io ad aver inventato la bomba atomica!

“Vuoi sapere come ho fatto?” Aggiunse poi.

In tutta sincerità non mi fregava un cazzo di come avesse fatto, come non mi fregava un cazzo del fatto che i capelli di Malfoy fossero autenticamente biondi o meno. Ma l'entusiasmo con cui mi porse quella domanda fu tale che non riuscii a dirgli la verità.

“Certo!”

“Ebbene: è stata una pozione! E non ti immagini come sono riuscito a gettargliela nei capelli!”

“Una pozione?” Io adoravo le pozioni. D'improvviso mi illuminai pure io, e la conversazione iniziò ad attrarmi sinceramente.

“Pensavi ad un incantesimo tu, vero?” Disse, ridendo, mentre entravamo in uno scomparto e ci piazzavamo lì. “E' naturale... ah, come ti chiami?”

“John. John Watson.”

“Piacere,” Disse, allungando una mano in maniera molto pragmatica. “Sherlock Holmes! Dicevo, è naturale che abbia pensato ciò: chiunque lo penserebbe! In fondo, non mi sono avvicinato a lui! E una pozione non può agire a distanza!”

“Allora come hai fatto?”

“Elementare, Watson!” Esclamò, con un sorriso che esprimeva tutta la sua soddisfazione per quell'ingegnosa trovata. “Ho liofilizzato la pozione!”

“L'hai... cosa?”

“Praticamente, ne ho estratto la componente liquida, rendendola polvere! E la polvere è molto più pratica da usare di un liquido, non trovi? Ci vuole un niente per gettarla sopra l'oggetto o la persona di tuo interesse! E la pioggerella tipica del clima londinese mi ha permesso di reintegrare naturalmente e senza sforzo l'integrante fluido necessario perché la magia abbia il suo effetto! Ma ti rendi conto?! Immagina la portata di questa trovata, Watson!”


Conobbi Sherlock così, fortuitamente, nel quasi autunno di quel secondo anno a Hogwarts. E da allora non lo mollai più.

Diventammo amici, fratelli, amanti. Non c'era nulla al mondo che non condividessimo. E quando erano i nostri corpi a unirsi – Merlino! - sembrava fossimo nati per essere uno solo. E questo, forse, lo capii io per primo. Dico forse perché Sherlock, per quanto possedesse un prodigioso intelletto, era assolutamente menomato dal punto di vista emotivo. Sembrava non fosse in grado di esprimere a parole – e spesso neppure di rendersi semplicemente conto – dei sentimenti che provava.

Ma non scappò via quando, nel quasi autunno del nostro quinto anno, entrambi mezzi brilli, finiti in un'aula in disuso dopo la festa (festino) di Bentornati a Hogwarts, lo baciai. Né si tirò indietro. Per questo capii che anche lui mi desiderava, e gli incontri successivi lo confermarono.

Ricordo la nostra prima volta. Le mie mani su di lui. Il suo corpo nudo. I suoi acuti e spudorati versi di piacere mentre lo prendevo in bocca. Il suo delicato inarcarsi quando, con selvaggia bramosia, rubai la sua verginità.


Cazzo.

Merlino.

Cazzo.


E sono ricordi che fanno male. Sono ricordi che bruciano, che fanno piangere.

Perché l'Ultima Guerra è finita da due anni. Due-cazzo-di anni. E lui non c'è più.


Ed io sono qui, davanti al muro di Diagon Alley, solo come un verme, ad attendere che anche questo quasi autunno mi porti fortuna. Ad aspettare che i miei sogni diventino realtà proprio come mia madre mi disse. Qui, dove tutto è iniziato, stesso luogo e stesso giorno, tutto finirà. Perché non c'è magia senza Sherlock. Non c'è nessuna entusiasmante follia. C'è solo dolore.


Tengo la bacchetta fra le mani, pronto a romperla in mille pezzi e tornare alla mia vita razionale nel mondo babbano. L'ho abbandonata da bambino, è vero, ma sono convinto non mi sarà complicato riaverla indietro.

Piango.

Non so se siano le lacrime a infiacchirmi i muscoli delle braccia e impedirmi così di portare a termine il mio obiettivo, o se sia semplicemente l'istinto di conservazione del mio io magico a non lasciarmelo fare. Fatto sta che più guardo quel pezzo di legno, più mi viene da piangere.

Onestamente non immaginavo sarebbe stato tanto difficile.

Stupidi ricordi del cazzo.

Stupido quasi autunno del cazzo.

Stupido Sherlock del cazzo. Poteva anche evitare di crepare. Coglione.

“Che poi, voglio proprio vederti in Paradiso, a comprovare la veridicità del capello biondo di qualche arcangelo. San Pietro ti avrà già buttato fuori a calci.” Mi lascio sfuggire, preso come sono dall'enfasi alienante del mio dolore.


“Lo ammetto, c'è voluto un po' ma devo proprio averlo fatto esasperare!”


Impietrito, gelato, scioccato da quella voce, mi volto.

Due occhi azzurri, acuti e giocosi, accolgono i miei.

Proprio come quel lontano giorno di anni prima, quasi svengo.

Lui mi si fa vicino, mi sorride con quel sorriso che solo mia madre sapeva regalarmi, aspetta che mi riprenda un poco.

“E' quasi autunno.” Mi dice, guardando il cielo. “Il tuo quasi autunno assurdo e senza senso.”

“Sei tornato.”

“Avevi dubbi?”

“Eri morto.” Gli faccio notare.

“Cosa non hai ancora capito della magia, Watson?”

“E' di te che ancora qualcosa mi sfugge.”

“No, è di te che ancora qualcosa ti sfugge.”

“E cosa?”

“Neanche Voldemort potrebbe tenermi lontano dal tuo fianco, John.”






   
 
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