Tremilaseicentocinquanta
(Lettere che non
riceverai)
«You
are like two sides of the same coin.»
*
*
*
Silenzio.
Solo la dolce
melodia delle fronde
degli alberi che si muovono al ritmo del vento disturba la quiete del
bosco. Cric-crac è il
rumore delle foglie
autunnali che chiedono pietà, intrappolate sotto le suole
delle sue scarpe.
Nulla è cambiato, tutto è rimasto uguale: gli
stessi alberi, le stesse radici,
la stessa erba, gli stessi odori, gli stessi ronzii, la stessa
umidità sulla
pelle.
Chiude gli
occhi, Merlin. Chiude gli
occhi e resta in ascolto, attento a non lasciarsi sfuggire nulla, ad
imprimere
ogni singolo dettaglio nella sua memoria. Cammina sul sentiero
sterrato, tracce
di zoccoli nel fango suggeriscono che siano passati cavalieri, qualche
tempo
prima. Segue le vie, Merlin. Quelle che ha percorso centinaia di volte,
quando
bisognava andare a caccia, cercare le erbe o nascondersi dai banditi.
Le
conosce a memoria quelle foreste.
Si ferma
– solo un istante –
perché è troppo da sopportare. Ed è
venuto per
ricordare, per non dimenticare, eppure adesso vorrebbe eliminare,
resettare la
memoria, che non gli dà tregua. Testa alta, mani lungo i
fianchi, Merlin lascia
che le lacrime scorrano lungo le sue guance con gioia, permettendo al
suo cuore
di svuotarsi, al suo animo di espellere il dolore. I momenti del pianto
sono i
meno dolorosi, sono quelli in cui trova un po’ di pace.
E quando si
siede, Merlin nota che la
terra è umida di pioggia e si dice che sembra aver piovuto
ininterrottamente
per tutti questi anni, una pioggia continua, che non smette mai, non
smetterà
mai, piove sempre e pioverà sempre. Merlin apre il suo sacco
di stracci e tira
fuori il suo taccuino di cuoio.
Piuma,
inchiostro e comincia a
scrivere.
Tremilaseicentocinquanta.
Tremilaseicentocinquanta
giorni.
Tremilaseicentocinquanta
giorni senza di te.
Ho
iniziato a scrivere questo diario il giorno successivo alla tua morte,
con
l’intento di raccontarti la mia vita, quello che avrei fatto,
quello che sarei
diventato. Ho sempre pensato fosse un modo per sentirti più
vicino, ancora un
po’ vivo, ma ora che sono passati tremilaseicentocinquanta
giorni – e io sono
invecchiato – mi rendo conto che è stato
l’unico modo per poter sopravvivere,
per continuare ad andare avanti senza di te.
In
questi dieci anni non ho fatto altro che viaggiare, trasformandomi in
un
nomade, senza casa e senza legami. Ho visto posti che non avrei neanche
immaginato esistessero, luoghi che avrei voluto vedessi anche tu,
perché ne
saresti rimasto incantato. Ho conosciuto centinaia di persone, ma non
mi sono
affezionato a nessuno di loro. Da quando te ne sei andato, sembra che
io non
sia più in grado di provare alcun sentimento. Tutto
l’amore che era in me,
forte e vivo, sembra avermi abbandonato e ora riesco solo a stare
quieto, in un
placido limbo che mi intrappola.
Ma
adesso che sono uomo, ho deciso di tornare indietro, di fermare
temporaneamente
i miei viaggi e darmi tempo. Perché ne ho bisogno, di tempo.
Ne avrei avuto
bisogno, tremilaseicentocinquanta giorni fa, ma non me ne è
stato dato, così ho
deciso di prendermelo ora.
È
strano toccare di nuovo le foglie dei pini, dell’autunno che
profuma così
solamente a Camelot. È odore di casa, di passato, di
ricordi. E nel vedere
questa foresta non posso non ricordarmi di tutte le volte in cui ci ho
passato
notti insonni insieme a te, in cerca di scovare il nemico di turno,
sempre
pronti a combattere e mai ad arrenderci.
Ancora
oggi non riesco a capacitarmi di come riuscissi ad avere il sorriso
pronto
anche nel momento meno opportuno, di come fossi disposto a mettere in
gioco
tutto, pur di salvare la tua gente, i tuoi amori. Perché tu
eri così, un libro
aperto che qualsiasi persona poteva leggere, incapace di mentire. Puro
d’animo.
Ed è forse per questo motivo che avrei smosso i cinque
regni, pur di salvarti
la vita, quel giorno. Ma non ci sono riuscito. E tu sei morto.
Mi
hanno sempre detto che la tua morte era stata un sacrificio
indispensabile, un
prezzo che bisognava pagare; e mi hanno sempre detto che tu eri
riuscito nel
tuo intento di formare il grande regno di Albion. L’ho sempre
pensato anche io,
mentre scrivevo queste pagine, mentre girovagavo per il mondo in cerca
di un
qualcosa che mi era sconosciuto. Ma ora che vedo questi boschi e le
immagini
dei giorni felici trascorsi insieme riaffiorano nella mia mente,
capisco che
non si trattava solo del nostro destino e del futuro di queste terre,
ma di qualcosa
di più. Tu non saresti dovuto morire, perché io
avevo bisogno di te. Ho ancora
bisogno di te ed è per questo – ora lo so
– che ti sto scrivendo da
tremilaseicentocinquanta giorni delle lettere che non riceverai mai.
Eravamo
i due lati della stessa medaglia e adesso io non esisto più,
senza di te.
Eri
più di un sovrano, più di un padrone,
più di un amico, per me: eri il mio
destino, Arthur.
Il servo
peggiore dei cinque regni,
Merlin.
Asciuga
l’ultima lacrima solitaria,
Merlin. Fa un grosso respiro, uno di quelli che riempiono i polmoni e
fanno
venire un po’ il capogiro. Rimette in ordine quel suo vecchio
taccuino e la
piuma, poi chiude il sacco e se lo mette nuovamente in spalla,
finalmente
pronto. Cammina ancora per un centinaio di metri, poi scala una piccola
collinetta, una di quelle che creano piccoli burroni.
Aria fresca ad
accarezzargli la pelle,
le nuvole che stanno andando verso nord, come se volessero lasciare ben
visibile lo splendido panorama che si staglia dinanzi a lui: il
castello di
Camelot.
Un vuoto nello
stomaco gli dice che lì
ritroverà ogni attimo della sua vita insieme ad Arthur,
mentre invece un
brivido gli suggerisce che potrà riabbracciare i suoi amici.
È
così che sarà, ormai l’ha capito:
deve andare avanti, perché bisogna andare avanti.
Perché c’è ancora una cosa
per cui vale la pena di vivere, si dice il mago mentre scende il pendio
in
direzione della città: il ritorno dell’unico e
futuro Re.
E Merlin lo
aspetterà. Per tutto il
tempo che verrà.
*
*
*
Note
Merlin e Arthur avranno sempre un po’
di spazio nel mio cuore: questa è per loro.
Eryca.