Tredici febbraio: in treno.
Il frastuono delle rotaie
copre addirittura i pacati sospiri sognanti e
i fremiti d’emozione trattenuta;
i tonanti discorsi dei personaggi di carta e inchiostro
pullulano, crescono e periscono tra le tempie corrugate;
pulsano inquieti.
Si viaggia fino alla morte del sole
e poi ancora più in là;
non c’è una meta
non c’è luogo d’arrivo;
si persiste e si continua.
Giusto?
Ci si dice che nulla potrebbe maie poi ancora più in là;
non c’è una meta
non c’è luogo d’arrivo;
si persiste e si continua.
Giusto?
annullare il tramestio dei pensieri, delle aspettative;
l’immaginazione corre, salta, gareggia.
Eppure si giunge in una stazione grigia e plumbea
e tutto quanto diventa più tangibile, più veritiero;
le banchine si delineano tra linea di nebbia scura
e le persone si alzano, celando le loro nude ossa
nei lunghi cappotti e nelle sciarpe bollenti:
tornano umani: fragili entità malinconiche disperse.
Il treno singhiozza.
*