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Autore: teabox    17/02/2014    6 recensioni
Si conoscevano, anni fa. E ora che si sono incontrati di nuovo, non si conoscono più.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nota: c’era già, l’avevo tolta e ora la rimetto (scusate). Perché alcune persone non sono solo state così gentili da chiedermi se potevo, ma anche estremamente pazienti e cortesi nel incoraggiarmi a farlo. Grazie mille e buona lettura (rilettura?) spero.

 

 

  

 

(lui e lei)

 

 

Piove e fa freddo per strada, poche luci e ancora meno macchine, e andrebbe benissimo così, se non fosse per lei.

Lei e quelle sue ridicole scarpe rosse.

Benedict affonda un po’ di più il viso nella sciarpa e pretende di interessarsi al messaggio che gli è appena arrivato sul cellulare. Sa, però, che lei è lì, quasi alle sue spalle, a pochi passi da lui. Lo sa la sua testa e apparentemente lo sanno anche i suoi occhi, che continuano a spostarsi su di lei. E su quelle assurde scarpe estive e sui piedi di lei che sono ormai bagnati. 

Sa che non la sta fissando - sono più che altro sguardi estremamente cauti e veloci - ma lei fa un passo indietro, o forse due, e Benedict non la vede più. Si dovrebbe sentire meglio, lo sa. Invece no. Dovrebbe iniziare una conversazione, lo sa. Invece no. 

Lei l’ha messo bene in chiaro fin dall’inizio di quella serata che non era interessata. Evidentemente non lo è nemmeno ora, dato il silenzio in cui si è nascosta. Le braccia incrociate, il viso spostato di lato, le labbra chiuse. Grazie ma no grazie.

Benedict si chiede perché. E’ ormai abituato ad incontrare persone che non ha visto per anni - decine di anni, a volte - e sentirsi indirizzare, parlare e trattare come se invece lui e la persona di turno fossero sempre stati in contatto, migliori amici da una vita in una serie noiosa di “ti ricordi quando”. Lo disgusta un po’ tutto questo.

Quindi sarebbe un punto a favore di lei il fatto che non si sia comportata così, né che lo stia facendo adesso che sono soli. Sarebbe una cosa positiva, piacevole, apprezzabile. Se non fosse per l’atteggiamento che lei invece sta portando avanti dall’inizio della serata. 

Benedict, nella sua ingenuità, in un primo momento lo aveva scambiato per timidezza. In fondo da quello che si ricorda di lei, era sempre stata timida. Anche dopo che erano diventati molto amici, anche dopo che avevano passato giorni a raccontarsi cose ridicole e cose serie e cose stupide, c’era sempre stata questa parte di lei perpetuamente timida. Ma forse a quattordici anni è normale che sia così. 

 

Benedict si accende una sigaretta e la usa come scusa per voltarsi un po’, come se dovesse riparare la fiamma dell’accendino da un vento che non esiste. Le lancia un’occhiata veloce, ma lei sembra altrove. Non lo sta guardando, né sembra interessata a farlo.

Benedict torna a guardare di fronte a sé.

E’ cambiata. 

Sarà la centesima volta che lo pensa in quella serata. 

Certo, da qualche parte c’è ancora la ragazzina che ha fatto un po’ fatica a ricordare, ma di cui si è comunque ricordato alla fine. Ma ora quella ragazzina è solo una parte di qualcosa di diverso, qualcosa di sconosciuto. Un mistero che indossa scarpe rosse estive in una notte invernale londinese. Che stupidaggine.

La ragazza che aveva conosciuto lui non l’avrebbe mai fatto. 

Non avrebbe indossato del rosso, tanto per cominciare. Avrebbe attirato attenzione e l’attenzione l’avrebbe fatta sentire a disagio. Né avrebbe mai indossato tacchi, perché non avrebbe saputo camminarci, né tanto meno avrebbe avuto pazienza per la scomodità.

Ed ora eccola lì, vent’anni dopo - santo cielo, vent’anni - in un paio di scarpe rosse con il tacco. Gli occhiali troppo grandi spariti con l’apparecchio per i denti e altri dettagli. 

Benedict si schiarisce la voce e fa per dire qualcosa, ma un trillo dal cellulare di lei lo interrompe. Si volta veloce a rubare uno sguardo al di là della sua spalla e la vede intenta a leggere un messaggio, il viso illuminato da una luce biancastra. 

E’ carina, pensa.

E si sente immediatamente a disagio per averlo pensato.

 

Era carina a quattordici anni? Benedict non se lo ricorda. Ricorda, però, che in quell’estate di troppi anni fa, quando si erano conosciuti ed erano diventati amici, parlavano sempre, parlavano tanto, parlavano troppo. E ricorda anche dell’assurda infatuazione che aveva avuto per la migliore amica di lei. (Come si chiamava, qualcosa che cominciava con “e”, forse.) Ovviamente si era trattato di un sentimento non corrisposto, particolare che lo aveva fatto soffrire per quasi un anno e in modo particolare per tre mesi, ma che aveva aggiunto un’aura campale a quel periodo. 

Poi cos’era successo? La sua migliore amica si era messa con qualcuno, lei era sparita nel nulla e quell’amicizia - e quel periodo in generale - erano giunti alla fine.

 

Aveva incontrato la sua migliore amica - che aveva saputo non essere più tale - qualche anno prima e lei era stata tutto un “Ben, Benny, tesoro”. Benedict non aveva apprezzato.

Aveva visto anche lei, qualche anno prima, ma non aveva avuto modo di parlarle, né si era sentito sicuro quella volta che si fosse trattato proprio di lei. 

Quella sera, però, quando in uno strano caso di coincidenze e amicizie in comune che non sapevano di avere, l’aveva trovata a quella festa, non aveva neanche avuto bisogno di essere introdotto. L’aveva guardata per un po’, aveva sorriso, allungato una mano e chiamata per nome. 

Lei per un attimo era sembrata sorpresa. Poi, per ragioni che ancora gli sfuggivano, gli aveva a mala pena sorriso e appena era sembrato accettabile, si era allontanata.

Qualcuno - Benedict non ricordava chi, in quel momento - scherzando gli aveva detto qualcosa come “temo che non subisca il tuo fascino” e Benedict aveva riso e allontanato il pensiero con un gesto della mano e un sorso di whisky. Perché ovviamente quella persona non sapeva che c’era stato un tempo in cui loro erano stati amici, un tempo in cui lei lo aveva conosciuto più di chiunque altro e lui avrebbe potuto recitare le dieci cose che la rendevano sempre felice. 

Ma ora, fuori nel freddo di quella notte londinese, ha l’impressione - la sicurezza, a dire la verità - di non conoscerla affatto. Non più, quanto meno. 

 

E si sente a disagio in quel silenzio, aspettando un taxi che non sembra voler arrivare. 

E’ stato un idiota, in fondo. Ha agito d’impulso e sa meglio di chiunque altro che non dovrebbe mai - per l’amor del cielo, mai - agire d’impulso. Ma quando l’aveva vista lasciare la festa e l’appartamento, non si era certo fermato a pensare. Aveva salutato tutti il più velocemente possibile e l’aveva seguita, ignorando i commenti delle persone, i “fa freddo fuori”, gli “aspetta qui”, i “non hai visto che piove?” ed il suo preferito, “è Londra, Ben. Ci vorrà una vita prima che il taxi si degni di arrivare”.

Avevano avuto tutti ragione, ovviamente.

Ma lei era uscita - scappata, avrebbe voluto dire - e lui l’aveva seguita. 

Razionalmente, non avrebbe saputo dire perché.

Irrazionalmente, aveva un milione di buone ragioni per farlo.

Ora, però, pensava che fossero comunque tutte sbagliate.

 

*

 

Lei guarda altrove. Lo sa che lui è lì, praticamente di fronte a lei. E sa che ogni tanto la guarda, anche se lei non capisce davvero perché. 

Piove, fa freddo e per l’ennesima volta si maledice per la scelta delle scarpe. E si maledice per aver accettato, alla fine, di andare a quella festa. Non l’avrebbe fatto, se avesse saputo in anticipo che ci sarebbe stato anche lui.

O forse sì, pensa così velocemente che quasi non se ne accorge. Arrossisce, però.

Sospira e per quella che sembra la milionesima volta in quella serata si domanda perché. Perché il disagio, perché l’irritazione, perché il silenzio. Si morde un labbro, infastidita dal fatto che la risposta è davanti a lei, nella forma di quell’uomo di nome Benedict. Che si ricorda di lei, nonostante tutto - stupidamente, vorrebbe dire - e che la guarda, ogni tanto, credendo di non essere visto.

 

Lei si era sentita un attimo in sospeso, all’inizio.

Parte era stato averlo avuto di nuovo di fronte a sé. Non in foto, non in video, non in parole. Lui, e tutto il resto. 

Parte era stato il fatto che si ricordasse il suo nome. Le aveva stretto la mano - la pelle calda e morbida che lei aveva lasciato come se scottasse - e l’aveva chiamata per nome. Lei si era chiesta per quale motivo. 

Che, obiettivamente, era una domanda piuttosto sciocca da farsi. 

Ma da quel momento in poi le sciocchezze erano solo sembrate accumularsi e c’era un limite a tutto, e quel limite apparentemente era connesso a quanto tempo lei potesse passare nella stessa stanza con Benedict. Quindi lo aveva evitato per il resto della serata, bevendo forse un po’ più del necessario e cercando di evitare ricordi che avrebbe preferito non rivisitare. E appena aveva potuto, aveva lasciato la festa e chiuso con quella serata.

O almeno così aveva pensato.

Non più di dieci minuti più tardi lui era comparso sul marciapiede. Le aveva detto qualcosa riguardo ai taxi e Londra di notte e forse la pioggia, ma lei non aveva davvero ascoltato. Si era sentita di nuovo in sospeso. Si era chiesta di nuovo perché. 

 

Ed ora eccolo lì, quasi di fronte a lei. Silenzioso, grazie al cielo.

Una versione più alta e meno magra dell’adolescente che aveva conosciuto. Sa che non è cambiato tanto. Ha letto le interviste, l’ha visto in televisione, e tutto in lui parla ancora di quell’adolescente buffo, strano e intelligente che era stato. Ancora a disagio con il suo corpo, ancora insicuro del suo talento. Ancora.

Trattiene uno sbuffo. Pensa che è un idiota. Pensa che fa sentire lei un’idiota.

Un ricordo le sfugge dalla rete in cui lei li ha intrappolati, e si rivede a quattordici anni, una delle ultime sere d’estate, protetta dal buio, lui al suo fianco. Si risente dirgli che lei lo trova bello e tutto nella sua testa suona come allora, il tono imbarazzato nella sua voce, il breve silenzio che era seguito e la risata di Benedict poco dopo. Aveva preso le sue parole per uno scherzo. Non aveva capito. Non aveva voluto capire, forse. 

 

Si muove a disagio, risentendo l’imbarazzo di allora. Aveva pianto quella notte? Probabilmente sì. Aveva pianto parecchie notti, durante quell’estate. Da quando lui le aveva confessato che si era innamorato - innamorato, santa pazienza - della sua migliore amica Evie. A quel tempo, in quei quattordici anni, era sembrata una tragedia. Ma lei era rimasta lì, tutta l’estate, al suo fianco. Erano amici, del resto. E certo, lei aveva sperato un po’ che lui aprisse gli occhi e la vedesse finalmente per qualcosa di diverso, ma non era successo. Non era successo nemmeno quando Evie si era messa con qualcun altro. Lui era andato da lei triste, insicuro e depresso e lei lo aveva consolato. Lo aveva ascoltato. Lo aveva fatto ridere. E gli aveva detto - di nuovo, per l’amor del cielo - che lo trovava bello.

Lui aveva riso di nuovo.

Poi era successo quello che era successo e tutto era finito. 

 

Scuote la testa, cancellando tristezza e umiliazione. Basta con i ricordi, si dice irritata. Il taxi sembra non voler arrivare, i piedi le si stanno congelando, e rivangare idiozie del passato non serve a nulla. Se non a ricordarle perché lui non gli piace. Non più.

Ed è come se tutto quel suo stupido pensare a lui abbia qualche influenza su Benedict, perché lei lo vede voltarsi appena e rubare l’ennesima occhiata veloce, ma lei pretende di non averlo notato. Non che creda in questo genere di cose, comunque. Anche se non fosse per altro, l’estate dei suoi quattordici anni le ha dato ampie prove che non basta pensare tanto a qualcuno o non basta volere davvero qualcosa per ottenerlo. 

 

Benedict si schiarisce la voce e lei, in un attimo di panico assurdo, pensa che stia per parlare, che voglia dirle qualcosa e lei non crede, non sa, non è sicura di volerlo. Di cosa mai potrebbero parlare, comunque, quando le loro vite sono diametralmente diverse e non ha più quattordici anni e la testa piena di fantasie.

Ma Benedict non parla, ritorna nel suo silenzio, e lei continua a fissare la strada e aspettare il taxi che non arriva e ignora - cerca di ignorare - quella punta di delusione che sente, nonostante tutto.

 

*

 

Benedict si schiarisce la voce. Ha trovato sette modi diversi per iniziare una conversazione con lei, ma nessuno sembra valere davvero la pena di essere utilizzato. Suonano tutti banali. E non è solo quello. Lei sembra proprio non voler parlare. E non in generale, ma con lui nello specifico. 

E’ solo una sensazione, riflette aggrottando un po’ la fronte, ma è una sensazione piuttosto forte. 

Forse potrebbe chiederglielo. Forse farebbe meglio di no.

Ma il silenzio ormai lo sta mettendo terribilmente in imbarazzo e prima di rendersi davvero conto di quello che dice, lo dice e basta.

«Non vuoi parlare con me?»

Che è un modo piuttosto brusco di mettere la questione, ma tant’è. 

«Scusa la domanda», aggiunge subito dopo, voltandosi a guardarla.

Lei sembra sorpresa. Giustamente.

La vede socchiudere la bocca, richiuderla ed esitare.

«Non saprei», risponde infine.

Che è un modo piuttosto brusco di rispondere alla questione, ma tant’è.

«Tu vuoi parlare con me?», gli chiede poi, quasi esitante.

Benedict fa un passo verso di lei, divertito dall’assurdità della situazione. «Forse. In fondo ci conosciamo.» Qualcosa nell’espressione di lei lo fa correggere. «Ci conoscevamo.»

Lei guarda altrove per un momento. «Tu non sembri molto cambiato.»

«Tu sì.»

Lei gli indirizza un’occhiata strana. Non è sorpresa, non è fastidio, non è curiosità. E’ tutto questo insieme. Sembra esitare. Sembra non aver voglia di chiederlo, ma una parte di lei non resiste. «Come?»

Benedict sorride e la cosa si trasforma in una piccola risata. «Le scarpe, tanto per cominciare.»

Lei abbassa lo sguardo con una piccola smorfia quasi imbarazzata. «Errore tecnico», ammette.

Benedict sorride a quella concessione. Forse nemmeno lei è poi così diversa. «E non ci sono più gli occhiali, né l’apparecchio per i denti. Sei cresciuta.»

Lei gli rivolge un sorriso quasi ironico. «Beh, sì, mi dispiace essere la portatrice di questa notizia, Benedict, ma generalmente è quello che succede a tutti i bambini. Prima o poi crescono.»

Lui sorride e mormora un “già” osservandola. Non come un’amica d’infanzia, né come una possibile nuova amica. La guarda lentamente, deliberatamente, con attenzione. Quando arriva al suo viso, la trova ad arrossire. 

Arrossisce anche lui, ma lo nasconde abbassando il viso e cercando una sigaretta. Si domanda cosa diavolo gli sia passato per la testa. Guardarla così. Santo cielo, guardarla così.

Come se l’avessi spogliata con gli occhi.

Il pensiero rimane incastrato nella sua testa. Le mani gli tremano appena e tenta due volte di accendere la fiamma dell’accendino. Alla terza, finalmente, s’illumina e lui sospira dentro la prima boccata di fumo. 

Si azzarda a guardarla di nuovo. E’ tornata a fissare la strada, lei e il suo profilo ancora arrossato.

 

*

 

Lei sposta lo sguardo troppo tardi.  Benedict deve averla vista arrossire.

S’innervosisce. Forse ha frainteso, forse si è immaginata il modo in cui lui l’ha guardata. 

Chiude gli occhi un attimo e si stringe nel cappotto, anche se sa che il brivido che ha appena sentito non ha niente a che fare con il freddo.

Guarda la strada e guarda il taxi arrivare, ma non lo vede davvero finché non si ferma davanti a loro. Sbatte gli occhi un paio di volte, quasi sorpresa. 

Benedict apre la portiera per lei e la invita ad entrare. E lei, prima di riuscire a capacitarsene, si sente chiedergli se lo vogliono condividere.

«C’è voluta una vita perché questo arrivasse. Chissà quanto potresti aspettare prima di trovarne un altro», gli dice senza guardarlo.

Lui non esita. Mormora un grazie, aspetta che lei entri per prima e poi scivola dentro, accanto a lei. Improvvisamente il taxi sembra troppo piccolo, troppo intimo e troppo silenzioso. 

Lei dà al tassista il suo indirizzo, solo per poi girarsi verso Benedict e chiedergli se non vuole essere lasciato per primo. Arrossisce di nuovo, questa volta però senza una scusa.

«No, va bene così», risponde lui lentamente. Ha le mani intrecciate sul grembo - quelle dita lunghe su cui aveva fantasticato per mesi, da adolescente - ma niente in lui sembra particolarmente rilassato.

 

S’imbarazza a fissarlo così e sposta lo sguardo fuori dal finestrino, solo per riportarlo su di lui un attimo dopo, quando lo sente parlare.

«Mi domandavo», dice leggermente esitante. Si schiarisce la voce. «Mi domandavo se volessi prendere un caffè o tè con me.»

Lei lo guarda sorpresa. «Ora?»

Benedict alza appena le spalle. «Perché no?»

«E’ mezzanotte passata», gli fa presente lei.

«E’ Londra», risponde lui.

Lo sente ridere quasi sottovoce e qualcosa di piccolo - qualcosa come una bolla di sapone - sembra scoppiare dentro di lei. Non riesce a dare un nome a quello che prova - è felice? E’ infastidita? E’ semplicemente terrorizzata? - ma non ha davvero molto tempo per pensarci, perché Benedict riprende a parlare.

«Conosco un posto, non è molto lontano da qui. Servono tè tutta la notte, se vuoi.»

Le si formano mille scuse nella testa - mille ottime ragioni per rifiutare - ma tutto quello con cui se ne esce è una lunga consonante, una “m” allungata per un istante o due. 

«Non ci vediamo da così tanto tempo e mi farebbe piacere parlare un po’ con te», aggiunge lui e le sue parole sembrano vibrare nello spazio chiuso del taxi.

«Va bene», risponde lei con un tono che sa incerto. Lo vede riflesso, in qualche modo, anche sul volto di Benedict - la fronte appena accigliata e un’espressione vagamente sorpresa o confusa. 

Forse, pensa lei in un attimo di fastidio, forse si è ormai abituato a tutti che gli dicono di sì subito e non si aspetta più che qualcuno possa avere incertezze o altri piani o non sia completamente sicuro di voler passare del tempo con lui.

Lo sente dare il nuovo indirizzo al tassista e con la coda dell’occhio lo osserva tornare ad appoggiarsi allo schienale della poltrona, il viso rivolto fuori dal finestrino, le mani ancora intrecciate in grembo. E’ tornato il silenzio tra di loro.

 

*

 

Non riesce a capirla. Non riesce a capire quale esattamente sia il problema. Perché non possa essere semplicemente contenta del suo invito o, più in generale, di averlo rivisto. 

Lui lo è. 

Chiude gli occhi per un attimo, cercando di rilassare le spalle. Forse, riflette, quello di cui è veramente contento è quella parentesi di normalità. Niente domande su film o ruoli, niente richieste di favori, niente falsità.

Riapre gli occhi e la spia con la coda degli occhi. Ha le mani intrecciate sul grembo, i polsi piccoli, le dita sottili, quattro anelli. 

Gli passa per la testa solo in quel momento. Forse è fidanzata, riflette. Forse si sente a disagio ad uscire con lui di notte perché sta con qualcuno. 

«Sei da sola?», domanda allora d’impulso, senza fermarsi a filtrare la sua curiosità. Non serve che lei lo guardi sorpresa - e arrossisca di nuovo - per fargli capire l’errore. «Voglio dire, hai un ragazzo?»

Che davvero, si dice Benedict, non è molto meglio della prima versione della domanda. Sembra quasi che le stia chiedendo se è libera e disponibile, e considerando dove la sta portando, non è assolutamente una buona domanda.

«No», replica lei senza guardarlo. Si fissa le mani.

Benedict fa lo stesso. Non è sicuro di cosa aggiungere, di cosa dire, né se ci sia davvero qualcosa da aggiungere o dire. Comunque, anche se in maniera goffa, ora almeno sa che lo strano comportamento di lei non è dovuto da qualcun altro nella sua vita. 

E la scoperta non lo fa sentire meglio, a dire il vero, perché significa solo che la questione - il problema che evidentemente lei ha con lui - è personale. 

 

Il taxi si ferma finalmente davanti ad un’elegante palazzina georgiana e quando lei prende dei soldi dal borsellino, lui la ferma appoggiando una mano sulla sua mano. La trattiene lì scivolando fuori dal taxi e aiutandola ad uscire. Non la vorrebbe lasciare, si trova a realizzare, ma lo fa comunque. 

«Siamo arrivati», le dice con un sorriso, aspettando la sua reazione. 

Lei si guarda attorno e poi fa la domanda più ovvia. «Dov’è il locale?»

Lui sorride un po’ di più e accenna ad una porta nera con un battente in ottone a forma di mano. 

Ci mette un attimo a capire. «E’ casa tua?»

Benedict sorride. «Sì. Beh, non tutto il palazzo, ovviamente. Il mio appartamento è all’ultimo piano.»

Cerca le chiavi, apre la porta e la invita ad entrare. La vede esitare e non lo stupisce. Le sorride. «Ti prometto il miglior tè di Londra. O quanto meno, il miglior tè che puoi trovare a Londra dopo la mezzanotte.»

Lei tentenna un attimo, poi accenna uno di quei pochi sorrisi che gli ha raramente rivolto durante la serata. «Sorprendimi», gli dice quasi divertita. Quasi rilassata.

Benedict si sente irrazionalmente felice di quella piccola vittoria. 

 

*

 

«Non mi starai mica giudicando in base alle mie scelte letterarie?», domanda Benedict dalla cucina, il tono di voce divertito.

«Forse», replica lei con un sorriso, anche se lui non può vederlo perché gli dà le spalle. Ma qualcosa deve averla tradita, si dice, perché quando si volta discretamente a dare uno sguardo a Benedict, lo vede intento a preparare il tè con un sorriso sulle labbra. 

«Non essere troppo severa», le dice.

Lei lancia un’occhiata curiosa all’appartamento - non in ordine, ma nemmeno caotico - e torna ad osservare i libri, passando un dito sulle coste e fermandosi ad estrarne uno, ogni tanto. In uno degli ultimi scaffali, incastrato tra due copie polverose di commedie di Shakespeare, trova “Persuasione” di Jane Austen. Esita, prima di prenderlo e aprirlo al frontespizio.

«Ah», mormora.

 

Riconosce la sua calligrafia di quattordicenne, rotonda e grande, e legge la frase che aveva scritto anni prima, come dedica quando aveva regalato quel libro a Benedict.

“A volte non comprendi il valore di un momento finché non diventa un ricordo.”

«Trovato qualcosa d’interessante?»

La voce di Benedict la fa sussultare e lascia quasi cadere il libro. Lo sente ridere della sua sorpresa - vicino, da qualche parte alle sue spalle - e una delle sue braccia si allunga al di sopra della sua spalla, sottraendole il libro. Lei non osa muoversi, anche se vorrebbe solo riprendersi “Persuasione” e tornare a nasconderlo nel suo angolo polveroso.

«Vediamo cos’hai trovato», dice invece Benedict senza accennare ad allontanarsi. «Jane Austen, eh? Non ricordavo nemmeno di-…ah.»

Lei chiude gli occhi per un attimo. 

«Ora ricordo», continua lui con un tono quasi caldo. «Me lo hai regalato subito dopo aver scoperto che non avevo mai letto nulla di suo.»

«Ah, sì? Non ricordo», mente lei cercando di suonare credibile. «E’ stato così tanto tempo fa.»

Benedict non dice nulla per un istante, poi lei lo sente allontanarsi di qualche passo e finalmente le sembra possibile tornare a respirare in maniera normale. Si volta, cercando di sorridere. «Il tè è pronto?»

«Sì», replica lui trattenendo il libro con una mano e indicando con l’altra le tazze appoggiate sul tavolino del salotto. Aspetta che si sieda, prima di riprendere a parlare. «Dimmi, cosa hai fatto dopo il liceo?»

Lei prende una delle tazze e cerca di riassumere vent’anni di vita nel numero minore di parole. «Ho studiato storia dell’arte. Dopo la laurea, ho lavorato per un po’ in giro per l’Europa e poi ho trovato un posto qui a Londra, in una galleria privata.»

Benedict si passa una mano tra i capelli e prende un sorso di tè. 

Lei lo guarda forse per un attimo di troppo, le gambe allungate in una posa rilassata, le maniche della maglia arrotolate sugli avambracci, la carnagione pallida, le lentiggini. Quando si riscuote, si rende conto che lui la sta fissando.

«Di cosa si tratta?», le domanda di punto in bianco.

«A cosa ti riferisci?»

«Questo. Tu. Anni fa, cos’è successo? Ad un certo punto sei sparita. Sono venuto a cercarti a casa tua un sacco di volte, ma non c’eri o non ti sentivi bene o non potevi mai venire alla porta. Quindi, cos’è successo?»

Il tono di voce che Benedict ha appena usato - una nota quasi irritata - la infastidisce terribilmente. Come se avesse qualche diritto a sentirsi così. Appoggia la tazza di tè sul tavolino e scuote appena le spalle. «Non è successo niente», risponde asciutta. «Non potevo essere sempre lì per te, del resto.»

«Pensavo che eravamo amici», replica lui altrettanto asciutto.

«Lo pensavo anch’io», ribatte lei prima di avere tempo di fermarsi. 

Benedict sembra sorpreso. «Cosa vuoi dire?»

«Niente», risponde lei quasi stancamente. «E’ una stupidaggine successa tanto tempo fa.»

«Sarà come dici tu, ma apparentemente ti ha impedito di parlare con me per tutta la serata.»

Lei arrossisce e si sente terribilmente infantile. Lo aveva saputo fin dall’inizio che accettare l’invito di Benedict non avrebbe portato nulla di buono.

«Ti va di parlarne?»

Lei alza lo sguardo su di lui, la fronte appena accigliata. «Perché? In fondo che differenza fa?»

«Vorrei sapere», risponde Benedict pacato.

Lei sospira. «E’…è una stupidaggine. Davvero. Niente di importante.» Esita e apprezza come lui non si intrometta, lasciandole il tempo di trovare le parole. «Ti ricordi di Evie, la mia migliore amica?»

Benedict accenna un sì e lei riprende a parlare. «Verso la fine dell’ultima estate che abbiamo passato tutti insieme, lei si mise con ragazzo. Sapevo che ti piaceva, sapevo che ti era sempre piaciuta, quindi non mi sono sorpresa di vederti arrivare quel giorno per parlare di quello che era successo. Il giorno dopo sono andata a cercarti per vedere se stavi meglio. Ti ho trovato in compagnia di alcuni tuoi amici e ti ho sentito dire delle…cose.» Esita di nuovo. «Stavi dicendo che l’unica ragione per cui passavi il tempo con me era perché ero la migliore amica di Evie, e speravi in quel modo di avvicinarti di più a lei.»

Benedict rimane in silenzio per qualche istante e lei non osa alzare gli occhi. Si sente le guance in fiamme, divisa tra l’inaspettato sollievo di averglielo finalmente confessato e ridicola umiliazione di averglielo davvero confessato.

«Ho davvero detto così?»

La domanda di Benedict, quasi sussurrata, la spinge ad alzare il viso. Accenna un sì, ma lui non lo può vedere perché non la sta guardando. «Sì.»

Benedict non parla per qualche attimo di più. «Che stronzo», dice poi, riferendosi a se stesso. «Da quello che mi ricordo, i miei amici mi prendevano continuamente in giro per il fatto che tu ed io passavamo sempre molto tempo insieme. Quando la tua amica si mise con quel ragazzo, ricordo solo che iniziarono tutti a dire che avrei comunque potuto ripiegare su di te e altre stupidaggini.» Alza finalmente lo sguardo su di lei. «Mi dispiace. Mi dispiace terribilmente. Ero un adolescente idiota. Devo essermi sentito in imbarazzo e devo aver detto la prima stronzata che mi è passata per la testa.»

Lei arrossisce, in parte per l’onestà del tono di voce di Benedict, in parte per il fastidio di quanto lui ha appena detto. «Non eri certo imbarazzato dal fatto che ti piacesse Evie.»

«Evie piaceva a tutti», risponde lui capendo che ha scelto le parole sbagliate e cercando di difendersi. «Non era possibile prendere in giro solo uno di noi, perché altrimenti avremmo dovuto prendere in giro tutti.»

Lei rimane in silenzio fissando lo sguardo sulla tazza di tè, ma non è così sciocca da non poter ammettere che da qualche parte dentro di lei si sente un po’ meglio. Almeno un po’.

 

*

 

Benedict quasi rovescia il tè quando lei si alza di scatto. 

Dice che le dispiace. Dice che deve andare. Dice che il tè è delizioso. Dice grazie. Dice che non vuole apparire del tutto sciocca. Dice che non si era aspettata di incontrarlo quella sera e che la sorpresa le ha portato alla mente cose che aveva messo da parte già da tempo. Dice, dice, dice. 

E’ già quasi all’ingresso quando Benedict riesce finalmente a fermarla, afferrandola per un polso. «Cosa stai facendo?»

Lei si chiude nel cappotto. «Vado a casa.»

Lui sospira. «Senti, se vuoi rimanere un altro po’, a me fa piacere.»

Lei scuote la testa.

«Allora lascia che ti accompagni.»

«Grazie, ma non abito troppo lontano da qui. Vado a piedi.»

«Non essere ridicola», dice Benedict afferrando la sua giacca e le chiavi della macchina. Riflette un attimo. «Quanto lontano?»

«Mezz’ora. Più o meno.»

Benedict sa che sta mentendo. Gli viene naturale rispondere alla bugia come aveva sempre fatto con lei, da adolescenti. Le dà un colpetto sulla testa. Lascia le chiavi e prende un ombrello. «Camminiamo, allora. Come ai vecchi tempi.»

Lei inizia a scendere le scale e lui le è subito dietro. I capelli le oscillano al ritmo del passo e la sua schiena sembra assurdamente piccola. 

Quando escono per strada non piove più, quindi Benedict si accontenta di lasciare l’ombrello chiuso. 

Parlano e lui ogni tanto riesce a farla ridere. Le loro braccia a volte si sfiorano - lei non sembra farci caso, ma lui sì - e ogni volta che attraversano la luce di uno dei lampioni lungo la strada, lui ne approfitta per rubare uno sguardo. Le guance arrossate dal freddo. Un’espressione del viso che ricorda identica nella lei quattordicenne. Un sorriso che non vedeva da una vita. Un movimento delle mani, mentre cerca di spiegare qualcosa. Come arriccia il naso, ogni tanto, e si morde il labbro inferiore.

E c’è tutto un altro modo, intorno a lei, che Benedict non conosce ma che a quel punto non si stupisce di pensare che vorrebbe conoscere. Da qualche parte, in uno degli appartamenti lungo la strada, qualcuno sta ascoltando una canzone e la melodia s’insinua appena udibile  nel silenzio di quella notte. E’ qualcosa di familiare, ma che Benedict non riconosce del tutto. Esattamente come lei, si trova a pensare.

 

«Ancora mi domando come sei riuscita a sopportarmi per così tanto tempo da adolescente», commenta lui quasi sottovoce.

Lei ride. «Non eri poi così male. Sei sempre stato divertente. E interessante. C’era sempre qualcosa di cui parlare con te ed eri anche bravo ad ascoltare, la maggior parte delle volte. Poi sapevi anche essere più strano di me, che è tutto dire. Potevi anche essere un completo idiota, di tanto in tanto, ma mi piaceva anche quello di te.»

Benedict si ferma sul marciapiede, ma lei continua a camminare. «Scusa, come?»

Lei gli lancia un’occhiata al di sopra della spalla con l’aria di chi finge di non capire. Come se il fatto che sia arrossita non la tradisca comunque. «Che?»

Lui torna a camminare, affretta il passo, le è di nuovo accanto. «Cosa hai appena detto?»

Un’espressione buffa - qualcosa a metà strada tra incredulità e sospetto - passa sul suo viso. «Guarda che non devi mica far finta di non averlo mai saputo.»

«E’ la prima volta che ti sento dire che ti piacevo.»

Di nuovo la stessa espressione di pochi attimi prima torna sul suo volto. «Si assumeva che tu lo sapessi.»

«Chi lo assumeva?»

«Tutti?»

«Tutti chi?»

«Tutti!», esclama lei ridendo. «Era piuttosto ovvio, o così mi hanno sempre detto.»

Benedict non replica. Fruga tra i suoi ricordi di allora alla ricerca di qualcosa, qualsiasi cosa che avrebbe dovuto fargli capire i sentimenti di lei. E lentamente emergono piccole cose, frammenti fragili, dettagli che lui non aveva mai colto nella luce giusta, ma che ora -  con occhi da adulto - comprende. 

«Mi dispiace», s’introduce la voce di lei nella sua riflessione. «Non avrei dovuto dirtelo, mi è scappato. Spero di non averti messo a disagio.»

«Assolutamente no», replica Benedict velocemente. «Stavo solo pensando. Mi sento un’idiota.»

Le sfugge una risata. «Comunque sia, non fa più molta differenza, oramai.» Si ferma davanti ad un portone e gli sorride. «Sono arrivata.»

Troppi pensieri passano per la testa di Benedict - “camminiamo un altro po’”, “parliamo un altro po’”, “rivediamoci”, “ti posso chiamare”, “esci con me” - ma si incastrano tutti da qualche parte e non ne esce nulla.

E lei fa un passo indietro. Alza una mano. Esita un attimo prima di ringraziarlo. Gli augura una buona notte. Non si avvicina.

Benedict vorrebbe reagire - fare qualcosa, per l’amor del cielo - e invece la lascia fare. La saluta dal marciapiede, come ha fatto lei, con una mano alzata. Come se nemmeno si conoscessero.

La guarda sparire dietro il portone e rimane lì un attimo, fermo, prima di decidere di muoversi, tornare indietro, verso casa, senza fretta e con le spalle un po’ piegate.

Ed è perché sta pensando a lei che non sente i passi né il tocco sulla spalla. Quello che sente, però, è lei che lo chiama per nome. Si volta - sorpreso - e la trova lì, di fronte a lui, scalza, le scarpe rosse in mano. Ha il respiro corto che si condensa in piccole nuvolette bianche.

«E’ stato bello rivederti», gli dice con un sorriso.

Ed è come se quel momento rimanga in sospeso per un istante.

Poi Benedict le sorride e fa l’unica cosa che sa che deve fare. L’abbraccia, tenendola stretta anche quando lei ride e stringendola un po’ di più quando lei ricambia l’abbraccio. E forse, se fosse solo un po’ più disinvolto o solo un po’ meno inglese, la bacerebbe in quel istante. 

Ma in fondo va bene così, si dice. Ci sarà tempo per quello. 

Perché quel momento - con il freddo, la pioggia che ha ripreso a cadere e lei a piedi scalzi - è perfetto così com’è.

 

 

2 little who's

(he and she)

under are this

wonderful tree

 

smiling stand

(all realms of where

and when beyond)

now and here

 

(far from a grown

-up i&you

ful world of known)

who and who

 

(2 little ams

and over them this

aflame with dreams

incredible is)

 

e.e. cummings

  
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