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Autore: Emera96    17/02/2014    2 recensioni
Notte di San Valentino.
L'ospedale è avvolto da un silenzio pesante, Izzie è sola nella sua camera.
Aspetta qualcosa che non sa nemmeno cosa sia, qualcosa che riguarda Alex.
E Alex, innamorato come mai, saprà stupirla, ancora una volta.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Izzie Stevens
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Sesta stagione
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I will try to fix you.

 

L’ospedale non emette un suono quando cala il sole.                                                             

Come se la notte portasse con sé uno strano sortilegio secondo cui, quando l’ultimo centimetro quadrato di cielo si scurisce, nessun tipo di rumore è più ammesso. Né la voce di un bambino che chiede alla madre di leggergli una fiaba per sopportare il carico di farmaci, né il rantolo di un vecchio che sta per esalare l’ultimo respiro su un letto sfatto.              

Sento un brivido di freddo percorrermi la schiena, sudata e appiccicaticcia.                           

Il pigiama sembra essersi incollato al mio corpo ormai smunto, sento la stoffa troppo leggera aderire al seno e cerco, con un tocco leggero per non sprecare troppe forze, di staccare il tutto, invano. Mi rendo conto di non saper fare nemmeno una cosa così piccola.         

Avrei potuto essere morta.                                            

Solo qualche giorno fa, Alex sentiva il mio cuore smettere di battere tra le sue braccia, consapevole che non avrebbe potuto fare niente per portarmi indietro da lui. Poi.

Poi sono tornata, la vita spenta di George che, come un alito di vento, mi ha ridato fiato. Da quel momento il tempo non ha mai smesso di correre: le medicine che sembravano moltiplicarsi, il matrimonio durato pochi secondi, il tempo di dire «Lo voglio».

Nemmeno il tempo di aprire e chiudere gli occhi che è tutto finito. Ma oggi non è il giorno adatto a rimuginare, non è il momento giusto per pensare a cose che non torneranno più.

È San Valentino, la festa dell’amore zuccheroso, di quel tipo d’amore che sta dentro cuoricini di carta ritagliata da un foglio di brutta del quaderno, della festa per gli innamorati timidi che finalmente si dichiarano, il giorno più stomachevole dell’anno.

Per quanto possa sembrare stupido, ora come ora vorrei solo festeggiare la festa più dolce e patetica dell’anno, perché quando la preoccupazione più grande che puoi avere è farti bella per la persona che ami allora non hai certo grossi tormenti che ti assillano.

Oggi, il 14 Febbraio, sono in una stanza d’ospedale asettica e troppa silenziosa. Non un gesto, nemmeno un accenno a questo giorno. Niente di niente. Solo silenzio che entra nelle ossa e ti trafora il cervello, e ancora silenzio che rende più vivida la voce di Alex nella mia testa. Una presenza costante dal giorno del nostro matrimonio.

Si dice che basta un attimo per perdere una persona. Penso che sia vero. Soprattutto, credo che in quell’attimo, che può durare un secondo come un’ora, ti rendi conto di averla persa. Un momento prima di sentirmi cedere tra le braccia di Alex, l’ho visto andar via.

Sbattere una porta in faccia a tutti gli sforzi che avevamo fatti insieme, al matrimonio celebrato in fretta e furia per farmi reggere il vestito che mi strizzava il fiato in gola, una porta sbattuta a tutta la fatica provata per tenere i pezzi insieme.

E in questo giorno da fiaba, vorrei solo sapere che qualche pezzo ha ancora voglia di trovarmi, senza paura di guardarmi negli occhi, senza il terrore di spezzarmi.

Chiudo gli occhi per concedermi un po’ di relax, per riappropriarmi di un corpo non più mio. Una mano leggera mi sveglia, sfiorandomi la fronte con un tocco troppo delicato per essere di Alex. Le sue mani hanno il potere di farmi sentire gracile.

«Meredith? Ma che ci fai qui? Non dovresti essere a casa?» chiedo incuriosita.

Meredith mi regala uno dei suoi sorrisi materni, quei sorrisi larghi in cui, stringendomi, posso entrare anche io, rintanandomi in un angolo, cullandomi sulle punte.

Quando una persona ha sofferto così tanto, com’è successo a Meredith, i sorrisi contano il doppio di qualsiasi altra persona. Solo chi ha sofferto capisce l’importanza di un sorriso.

Io lo so bene.

«Sì, dovrei. Ma Alex non sembra essere d’accordo.»

«Sono quasi sicura di non dovermi sposare oggi, quindi a che serve tutta quella roba?»

«Tu fatti vestire, per il resto non posso dirti altro.» aggiunge lei, sussurrando.

Mi aiuta a sedermi sul bordo del letto, poggiando una delle sue mani sulla mia schiena scarna e priva di forza, e appoggia sulle mie gambe un vestito verde, di stoffa leggera.

Accarezzo quella stoffa vaporosa, simile in modo quasi inquietante al tessuto della mia vestaglia in ospedale, lo tocco con la punta della dita per paura di sgualcirlo.

Meredith con la mano libera tira fuori dalla borsa la parrucca che preferisco e inizia a spazzolarla energicamente, senza aver paura di strappare capelli o fare male. Decido che fare domande sarà inutile, e mi godo la sorpresa di Alex in silenzio, come una bambina impaziente che, ad occhi chiusi, aspetta il regalo dei genitori.

Il sole continua la sua inesorabile discesa, fino a cedere il posto alla luna che, opalescente e brillante in una notte così fredda e scura, rischiara l’atmosfera vagamente triste.

Comoda nel mio abito nuovo, stretto in vita quanto basta per non mettere troppo in risalto il peso che ho perso per la chemio, corto al ginocchio e di un verde intenso che fa sembrare i miei occhi stanchi più vividi, aspetto Alex, le lancette dell’orologio che scorrono lente.

Sono passati pochi minuti quando arriva: bello nel vestito del matrimonio, l’unico abito elegante che è possibile trovare nel suo armadio, disastrato almeno quanto lui.

Il suo sguardo malizioso mi fa infuocare le guance, dimentico per un attimo di essere tuttora distesa nel letto d’ospedale, quel letto freddo che mi ha visto cedere troppe volte.

Si avvicina a me con passo solenne, mi prende la mano con una delicatezza che non gli riconosco, la stringe e la poggia vicino al cuore, come a farmi sentire la sua impazienza, il battito accelerato di chi non vuole più aspettare un secondo. Mi alzo, e lo seguo.

Zitta e felice, leggera come il mio vestito.

Giriamo l’intera ala dell’ospedale senza emettere un suono, seguo Alex come se questi corridoi fossero estranei, i miei piedi lo seguono senza opporsi al suo percorso. Lo sento sogghignare, soddisfatto da tutto questo mistero che sa farmi impazzire di desiderio.

«Eccoci qua. Buon San Valentino, Izzie.» rivela lui, mostrandomi la destinazione.

Una camera d’ospedale del tutto identica alla mia, se non fosse per il tavolo posto dove dovrebbe esserci il lettino, per le luci soffuse al posto delle solite luci abbaglianti bianche, e se non fosse per un mazzo di fiori enorme, in equilibrio su una sedia che presumo essere la mia.

«Ma che hai fatto?» chiedo, a metà tra il meravigliato e lo stupito.

«Be’, se tu non puoi uscire per San Valentino, allora San Valentino entra qua dentro, no?»

Il modo in cui lo dice, la gentilezza con cui mi fa sedere a tavola, spostando il voluminoso mazzo di fiori e appoggiandolo momentaneamente in terra, arrivano quasi ad irritarmi, nella loro perfezione maniacale. Come se dovesse scusarsi per qualcosa che ha fatto.

«Sei veramente bellissima, stasera.» si lascia sfuggire Alex, felice come un bambino.

Mi squadra, ma senza giudicarmi, esaminando ogni centimetro del mio corpo come solo lui è capace di fare. Mi sento avvampare, come le prime volte che passavamo del tempo insieme. Detto da lui, anche il complimento più banale sembra valere un po’ di più.

«È tutto molto carino, non sembra neanche di stare in ospedale.» ammetto.

«Se lo dici tu, che tuttora ci stai, allora posso solo crederci. Un po’ d’acqua?»

La sua voce è pacata, a momenti scherzosa, e con mano gentile mi versa un po’ d’acqua nell’elegante calice di vetro, trovato chissà dove, sbeccato da una parte dove Alex sperava non avrei guardato. Difettoso, ma ancora in piedi come noi due.

«Sei silenziosa. Che hai? Ti senti male? Vuoi stenderti un attimo?» chiede Alex a raffica, senza neppure riprendere fiato tra una domanda e l’altra, alzandosi improvvisamente dalla sedia con un cigolio, avvicinandosi a me in poche falcate per controllarmi da vicino.

«Sto bene, Alex. Non sto morendo.» ribatto sarcastica, infastidita dalla sua aria zelante.

Alex torna a posto, allentandosi appena il nodo della cravatta che sembra costringerlo in una veste che non gli appartiene. La sua solita aria accigliata gli riempie il viso che, da disteso e riposato, si trasforma in corrucciato, ansioso, pronto a scurirsi dalla rabbia.

Per i minuti successivi l’unico rumore che è possibile sentire è un’alternanza di forchette e coltelli che tagliano, di bocche che masticano nervosamente, di pazienti troppi vicini che, presi dalla stanchezza, iniziano a russare energicamente, rovinando l’atmosfera. Anche la candela profumata alla lavanda, che Alex sa essere il mio fiore preferito, è ridotta ad un ammasso di cera informe, di un viola pallido con delle striature più scure e bruciacchiate.

«Non dovresti scherzare su una cosa del genere, Izzie.» sento dire ad Alex, a denti stretti.

«Invece devo, Alex. Non puoi pensare che io stia tutto il giorno sul letto a deprimermi, fissando il soffitto in attesa di una metastasi che mi uccida. Io ho il diritto di scherzarci.»

«Non adesso. È troppo presto ancora, io non sono ancora pronto…»

«Tu non sei pronto? Ah, scusa, la prossima volta che muoio te lo scrivo in agenda.»

«Lo sai che non era questo che intendevo, Izzie.» cerca di chiarire lui, allungando la mano destra in cerca della mia che, scaltra e veloce, si allontana come se avessi messo tutte le cinque dita nella presa di corrente. Alex mi implora con lo sguardo, cerca di riprendermi.

Ma io sono stufa di essere trattata come se potessi rompermi da un momento all’altro.

Sono stanca dei suoi gesti troppo premurosi, dei suoi occhi che mi pregano di non lasciarlo.

«Il dolce era buonissimo, davvero. Scusa» dico, con gli occhi bassi sul piatto candido, prima di andarmene. Non mi volto indietro, percorro ogni corridoio senza pensare alle altre persone, senza neanche immaginare cosa si siano chiesti i pazienti vicini a noi.

Sento i passi pesanti di Alex avvicinarsi a me quando accelero il passo, non faccio neanche più caso al reparto in cui sono entrata. Giro a vuoto l’ospedale, ripercorro ogni stanza e sento il cuore scoppiarmi in petto. Mi dico che non devo piangere, che è la solita lite.

Ma, se scavo a fondo, so che qualcosa si sta rompendo.

Che quel filo, già sfilacciato, che mi lega a lui, è sul punto di tranciarsi in due.

Ogni stanza che mi lascio alle spalle è un ricordo che se ne va, un ricordo in cui decido di omettere il sorriso di Alex inevitabilmente rivolto a me, il suo modo di fare brusco che, in fondo, è sempre stato dolce e spaventato da una vita partita subito in salita, senza aiuti.

Non trovando più la mia stanza e lasciandomi dietro una schiera di camere già occupate, decido di sedermi per terra. Sento il pavimento di linoleum sporcarmi il vestito nuovo, ma non ne faccio un problema. La parrucca inizia a prudermi, ma la tengo sulla testa, leggermente calata da una parte. Non devo più essere bella per nessuno, ora come ora.

Appoggio la fronte sulle ginocchia, inumidendole con le mie lacrime trattenute fin troppo.

La schiena trema per i singulti troppo forti, decido di stringermi un po’ di più.

Una mano, inconfondibile, mi accarezza la schiena in tutta la sua lunghezza, quasi massaggiando con tocco leggero ma deciso le mie spalle tremanti, incapaci di reggermi.

«Vattene, Alex.» dico sicura, senza alzare la testa dalle gambe.

«Non vado proprio da nessuna parte. E questo te lo devi mettere in testa una volta per tutte, Izzie! Siamo sposati, adesso. Probabilmente non dovrei preoccuparmi così, e sono sicuro di non essere mai stato così con nessuna. Ma io ti amo e se ti perdo non sono nulla. E io mi sono sentito un nulla per tutta la mia vita, prima che arrivassi tu.»

Ha lo sguardo basso, Alex. Lui, che ha sempre guardato la vita in faccia, adesso si vergogna, si fa piccolo piccolo come un bambino che ha paura di parlare alla madre.

«Sono io la malata! Sono io che sono quasi morta, non tu! Non tu!» grido io, con tutta la forza che la spossatezza della chemio riesce a causarmi. Con la forza che mi rimane, contando anche quella che i singulti mi portano via, mi strappo la parrucca dalla testa ormai calva e la lancio addosso ad Alex che non prova nemmeno a scansarsi.

La zazzera bionda lo colpisce in pieno viso, lo fa ridere di gusto, tanto da piegarsi in due.

«E adesso perché ridi, si può sapere?» chiedo, avvicinandomi ad Alex che, nel frattempo, si è seduto per terra con me, fregandosene delle macchie sul vestito. Poggio la testa sulla sua spalla, il naso gocciolante che provoca l’ennesima macchia su quel vestito da lavare.

«Non ci crederai, ma io proprio non te la potevo vedere quella parrucca. Tieni.»

Aprendo la mano con lentezza, quasi a voler creare quel poco di atmosfera che abbiamo già perso con le nostra urla, Alex scopre il contenuto misterioso della sua mano. A mano a mano che un dito si schiude, vedo dei colori sgargianti risaltare sulla sua carnagione scura.

Ed è solo quando la sua mano si apre completamente che vedo il foulard.

Il disegno floreale alterna colori freddi sullo sfondo, un blu cobalto che risalta sulla mia carnagione candida, e colori vivaci che animano fiori stilizzati, che mettono allegria.

«Voltalo.» mi intima Alex, con malinconia.

Giro il foulard tra le mie mani, affondando le dita in quella morbidezza colorata che non può non farmi felice. Con la punta delle dita, avverto un ricamo sottile, ma percettibile.

Gli occhi si appannano istantaneamente quando leggo cosa c’è scritto.

«Leggilo ad alta voce, Izzie.» mi chiede con garbo Alex, stringendomi le mani.

Prendo un bel respiro, sento il cuore accelerare per lo sforzo.

Quel cuore che solo dopo un litigio capisce quanto non voglia più star solo, quanto non potrebbe più sopportare una rottura o una ferita aperta. Un cuore nuovo, attivo.

Un cuore che, rileggendo la frase del nostro matrimonio, sa solo sorridere.

«Oggi, Izzie Stevens, inizia la nostra vita insieme e ad essere sincero non vedo l’ora.»        

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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