I
will
try to fix you.
L’ospedale non emette un suono quando cala il sole.
Come se la notte portasse con sé uno strano sortilegio secondo cui, quando l’ultimo centimetro quadrato di cielo si scurisce, nessun tipo di rumore è più ammesso. Né la voce di un bambino che chiede alla madre di leggergli una fiaba per sopportare il carico di farmaci, né il rantolo di un vecchio che sta per esalare l’ultimo respiro su un letto sfatto.
Sento un brivido di freddo percorrermi la schiena, sudata e appiccicaticcia.
Il
pigiama sembra
essersi incollato al mio corpo ormai smunto, sento la stoffa troppo
leggera
aderire al seno e cerco, con un tocco leggero per non sprecare troppe
forze, di
staccare il tutto, invano. Mi rendo conto di non saper fare nemmeno una
cosa
così piccola.
Avrei
potuto essere morta.
Solo
qualche giorno fa, Alex sentiva il mio cuore smettere
di battere tra le sue braccia, consapevole che non avrebbe potuto fare
niente
per portarmi indietro da lui. Poi.
Poi
sono tornata, la vita spenta di George che, come un
alito di vento, mi ha ridato fiato. Da quel momento il tempo non ha mai
smesso
di correre: le medicine che sembravano moltiplicarsi, il matrimonio
durato
pochi secondi, il tempo di dire «Lo voglio».
Nemmeno
il tempo di aprire e chiudere gli occhi che è tutto
finito. Ma oggi non è il giorno adatto a rimuginare, non
è il momento giusto
per pensare a cose che non torneranno più.
È
San Valentino, la festa dell’amore zuccheroso, di quel
tipo d’amore che sta dentro cuoricini di carta ritagliata da
un foglio di
brutta del quaderno, della festa per gli innamorati timidi che
finalmente si
dichiarano, il giorno più stomachevole dell’anno.
Per
quanto possa sembrare stupido, ora come ora vorrei solo
festeggiare la festa più dolce e patetica
dell’anno, perché quando la
preoccupazione più grande che puoi avere è farti
bella per la persona che ami
allora non hai certo grossi tormenti che ti assillano.
Oggi,
il 14 Febbraio, sono in una stanza d’ospedale asettica
e troppa silenziosa. Non un gesto, nemmeno un accenno a questo giorno.
Niente
di niente. Solo silenzio che entra nelle ossa e ti trafora il cervello,
e
ancora silenzio che rende più vivida la voce di Alex nella
mia testa. Una
presenza costante dal giorno del nostro matrimonio.
Si
dice che basta un attimo per perdere una persona. Penso
che sia vero. Soprattutto, credo che in quell’attimo, che
può durare un secondo
come un’ora, ti rendi conto di averla persa. Un momento prima
di sentirmi
cedere tra le braccia di Alex, l’ho visto andar via.
Sbattere
una porta in faccia a tutti gli sforzi che avevamo
fatti insieme, al matrimonio celebrato in fretta e furia per farmi
reggere il
vestito che mi strizzava il fiato in gola, una porta sbattuta a tutta
la fatica
provata per tenere i pezzi insieme.
E
in questo giorno da fiaba, vorrei solo sapere che qualche
pezzo ha ancora voglia di trovarmi, senza paura di guardarmi negli
occhi, senza
il terrore di spezzarmi.
Chiudo
gli occhi per concedermi un po’ di relax, per
riappropriarmi di un corpo non più mio. Una mano leggera mi
sveglia,
sfiorandomi la fronte con un tocco troppo delicato per essere di Alex.
Le sue
mani hanno il potere di farmi sentire gracile.
«Meredith?
Ma che ci fai qui? Non dovresti essere a casa?»
chiedo incuriosita.
Meredith
mi regala uno dei suoi sorrisi materni, quei
sorrisi larghi in cui, stringendomi, posso entrare anche io,
rintanandomi in un
angolo, cullandomi sulle punte.
Quando
una persona ha sofferto così tanto,
com’è successo a
Meredith, i sorrisi contano il doppio di qualsiasi altra persona. Solo
chi ha
sofferto capisce l’importanza di un sorriso.
Io
lo so bene.
«Sì,
dovrei. Ma Alex non sembra essere d’accordo.»
«Sono
quasi sicura di non dovermi sposare oggi, quindi a che
serve tutta quella roba?»
«Tu
fatti vestire, per il resto non posso dirti altro.»
aggiunge lei, sussurrando.
Mi
aiuta a sedermi sul bordo del letto, poggiando una delle
sue mani sulla mia schiena scarna e priva di forza, e appoggia sulle
mie gambe
un vestito verde, di stoffa leggera.
Accarezzo
quella stoffa vaporosa, simile in modo quasi
inquietante al tessuto della mia vestaglia in ospedale, lo tocco con la
punta
della dita per paura di sgualcirlo.
Meredith
con la mano libera tira fuori dalla borsa la
parrucca che preferisco e inizia a spazzolarla energicamente, senza
aver paura
di strappare capelli o fare male. Decido che fare domande
sarà inutile, e mi
godo la sorpresa di Alex in silenzio, come una bambina impaziente che,
ad occhi
chiusi, aspetta il regalo dei genitori.
Il
sole continua la sua inesorabile discesa, fino a cedere
il posto alla luna che, opalescente e brillante in una notte
così fredda e
scura, rischiara l’atmosfera vagamente triste.
Comoda
nel mio abito nuovo, stretto in vita quanto basta per
non mettere troppo in risalto il peso che ho perso per la chemio, corto
al
ginocchio e di un verde intenso che fa sembrare i miei occhi stanchi
più
vividi, aspetto Alex, le lancette dell’orologio che scorrono
lente.
Sono
passati pochi minuti quando arriva: bello nel vestito
del matrimonio, l’unico abito elegante che è
possibile trovare nel suo armadio,
disastrato almeno quanto lui.
Il
suo sguardo malizioso mi fa infuocare le guance,
dimentico per un attimo di essere tuttora distesa nel letto
d’ospedale, quel
letto freddo che mi ha visto cedere troppe volte.
Si
avvicina a me con passo solenne, mi prende la mano con
una delicatezza che non gli riconosco, la stringe e la poggia vicino al
cuore,
come a farmi sentire la sua impazienza, il battito accelerato di chi
non vuole
più aspettare un secondo. Mi alzo, e lo seguo.
Zitta
e felice, leggera come il mio vestito.
Giriamo
l’intera ala dell’ospedale senza emettere un suono,
seguo Alex come se questi corridoi fossero estranei, i miei piedi lo
seguono
senza opporsi al suo percorso. Lo sento sogghignare, soddisfatto da
tutto
questo mistero che sa farmi impazzire di desiderio.
«Eccoci
qua. Buon San Valentino, Izzie.» rivela lui,
mostrandomi la destinazione.
Una
camera d’ospedale del tutto identica alla mia, se non fosse
per il tavolo posto dove dovrebbe esserci il lettino, per le luci
soffuse al
posto delle solite luci abbaglianti bianche, e se non fosse per un
mazzo di
fiori enorme, in equilibrio su una sedia che presumo essere la mia.
«Ma
che hai fatto?» chiedo, a metà tra il meravigliato
e lo
stupito.
«Be’,
se tu non puoi uscire per San Valentino, allora San
Valentino entra qua dentro, no?»
Il
modo in cui lo dice, la gentilezza con cui mi fa sedere a
tavola, spostando il voluminoso mazzo di fiori e appoggiandolo
momentaneamente
in terra, arrivano quasi ad irritarmi, nella loro perfezione maniacale.
Come se
dovesse scusarsi per qualcosa che ha fatto.
«Sei
veramente bellissima, stasera.» si lascia sfuggire
Alex, felice come un bambino.
Mi
squadra, ma senza giudicarmi, esaminando ogni centimetro
del mio corpo come solo lui è capace di fare. Mi sento
avvampare, come le prime
volte che passavamo del tempo insieme. Detto da lui, anche il
complimento più
banale sembra valere un po’ di più.
«È
tutto molto carino, non sembra neanche di stare in
ospedale.» ammetto.
«Se
lo dici tu, che tuttora ci stai, allora posso solo
crederci. Un po’ d’acqua?»
La
sua voce è pacata, a momenti scherzosa, e con mano
gentile mi versa un po’ d’acqua
nell’elegante calice di vetro, trovato chissà
dove, sbeccato da una parte dove Alex sperava non avrei guardato.
Difettoso, ma
ancora in piedi come noi due.
«Sei
silenziosa. Che hai? Ti senti male? Vuoi stenderti un
attimo?» chiede Alex a raffica, senza neppure riprendere
fiato tra una domanda
e l’altra, alzandosi improvvisamente dalla sedia con un
cigolio, avvicinandosi
a me in poche falcate per controllarmi da vicino.
«Sto
bene, Alex. Non sto morendo.» ribatto sarcastica,
infastidita dalla sua aria zelante.
Alex
torna a posto, allentandosi appena il nodo della
cravatta che sembra costringerlo in una veste che non gli appartiene.
La sua
solita aria accigliata gli riempie il viso che, da disteso e riposato,
si
trasforma in corrucciato, ansioso, pronto a scurirsi dalla rabbia.
Per
i minuti successivi l’unico rumore che è possibile
sentire è un’alternanza di forchette e coltelli
che tagliano, di bocche che
masticano nervosamente, di pazienti troppi vicini che, presi dalla
stanchezza,
iniziano a russare energicamente, rovinando l’atmosfera.
Anche la candela
profumata alla lavanda, che Alex sa essere il mio fiore preferito,
è ridotta ad
un ammasso di cera informe, di un viola pallido con delle striature
più scure e
bruciacchiate.
«Non
dovresti scherzare su una cosa del genere, Izzie.»
sento dire ad Alex, a denti stretti.
«Invece
devo, Alex. Non puoi pensare che io stia tutto il
giorno sul letto a deprimermi, fissando il soffitto in attesa di una
metastasi
che mi uccida. Io ho il diritto di scherzarci.»
«Non
adesso. È troppo presto ancora, io non sono ancora
pronto…»
«Tu
non sei pronto? Ah, scusa, la prossima volta che muoio
te lo scrivo in agenda.»
«Lo
sai che non era questo che intendevo, Izzie.» cerca di
chiarire lui, allungando la mano destra in cerca della mia che, scaltra
e
veloce, si allontana come se avessi messo tutte le cinque dita nella
presa di
corrente. Alex mi implora con lo sguardo, cerca di riprendermi.
Ma
io sono stufa di essere trattata come se potessi rompermi
da un momento all’altro.
Sono
stanca dei suoi gesti troppo premurosi, dei suoi occhi
che mi pregano di non lasciarlo.
«Il
dolce era buonissimo, davvero. Scusa» dico, con gli
occhi bassi sul piatto candido, prima di andarmene. Non mi volto
indietro,
percorro ogni corridoio senza pensare alle altre persone, senza neanche
immaginare cosa si siano chiesti i pazienti vicini a noi.
Sento
i passi pesanti di Alex avvicinarsi a me quando
accelero il passo, non faccio neanche più caso al reparto in
cui sono entrata.
Giro a vuoto l’ospedale, ripercorro ogni stanza e sento il
cuore scoppiarmi in
petto. Mi dico che non devo piangere, che è la solita lite.
Ma,
se scavo a fondo, so che qualcosa si sta rompendo.
Che
quel filo, già sfilacciato, che mi lega a lui, è
sul
punto di tranciarsi in due.
Ogni
stanza che mi lascio alle spalle è un ricordo che se ne
va, un ricordo in cui decido di omettere il sorriso di Alex
inevitabilmente
rivolto a me, il suo modo di fare brusco che, in fondo, è
sempre stato dolce e
spaventato da una vita partita subito in salita, senza aiuti.
Non
trovando più la mia stanza e lasciandomi dietro una
schiera di camere già occupate, decido di sedermi per terra.
Sento il pavimento
di linoleum sporcarmi il vestito nuovo, ma non ne faccio un problema.
La
parrucca inizia a prudermi, ma la tengo sulla testa, leggermente calata
da una
parte. Non devo più essere bella per nessuno, ora come ora.
Appoggio
la fronte sulle ginocchia, inumidendole con le mie
lacrime trattenute fin troppo.
La
schiena trema per i singulti troppo forti, decido di
stringermi un po’ di più.
Una
mano, inconfondibile, mi accarezza la schiena in tutta
la sua lunghezza, quasi massaggiando con tocco leggero ma deciso le mie
spalle
tremanti, incapaci di reggermi.
«Vattene,
Alex.» dico sicura, senza alzare la testa dalle
gambe.
«Non
vado proprio da nessuna parte. E questo te lo devi
mettere in testa una volta per tutte, Izzie! Siamo sposati, adesso.
Probabilmente non dovrei preoccuparmi così, e sono sicuro di
non essere mai
stato così con nessuna. Ma io ti amo e se ti perdo non sono
nulla. E io mi sono
sentito un nulla per tutta la mia vita, prima che arrivassi
tu.»
Ha
lo sguardo basso, Alex. Lui, che ha sempre guardato la
vita in faccia, adesso si vergogna, si fa piccolo piccolo come un
bambino che
ha paura di parlare alla madre.
«Sono
io la malata! Sono io che sono quasi morta, non tu!
Non tu!» grido io, con tutta la forza che la spossatezza
della chemio riesce a
causarmi. Con la forza che mi rimane, contando anche quella che i
singulti mi
portano via, mi strappo la parrucca dalla testa ormai calva e la lancio
addosso
ad Alex che non prova nemmeno a scansarsi.
La
zazzera bionda lo colpisce in pieno viso, lo fa ridere di
gusto, tanto da piegarsi in due.
«E
adesso perché ridi, si può sapere?»
chiedo, avvicinandomi
ad Alex che, nel frattempo, si è seduto per terra con me,
fregandosene delle
macchie sul vestito. Poggio la testa sulla sua spalla, il naso
gocciolante che
provoca l’ennesima macchia su quel vestito da lavare.
«Non
ci crederai, ma io proprio non te la potevo vedere
quella parrucca. Tieni.»
Aprendo
la mano con lentezza, quasi a voler creare quel poco
di atmosfera che abbiamo già perso con le nostra urla, Alex
scopre il contenuto
misterioso della sua mano. A mano a mano che un dito si schiude, vedo
dei
colori sgargianti risaltare sulla sua carnagione scura.
Ed
è solo quando la sua mano si apre completamente che vedo
il foulard.
Il
disegno floreale alterna colori freddi sullo sfondo, un
blu cobalto che risalta sulla mia carnagione candida, e colori vivaci
che animano
fiori stilizzati, che mettono allegria.
«Voltalo.»
mi intima Alex, con malinconia.
Giro
il foulard tra le mie mani, affondando le dita in
quella morbidezza colorata che non può non farmi felice. Con
la punta delle
dita, avverto un ricamo sottile, ma percettibile.
Gli
occhi si appannano istantaneamente quando leggo cosa
c’è
scritto.
«Leggilo
ad alta voce, Izzie.» mi chiede con garbo Alex,
stringendomi le mani.
Prendo
un bel respiro, sento il cuore accelerare per lo
sforzo.
Quel
cuore che solo dopo un litigio capisce quanto non
voglia più star solo, quanto non potrebbe più
sopportare una rottura o una
ferita aperta. Un cuore nuovo, attivo.
Un
cuore che, rileggendo la frase del nostro matrimonio, sa
solo sorridere.
«Oggi,
Izzie Stevens, inizia la nostra vita insieme e ad essere sincero non
vedo
l’ora.»