Orgoglio e Pregiudizio
Capitolo 5
A |
lmeno quel pomeriggio John tornò a casa prima
del previsto.
Durante l’ultima ora di lezione, nel suo caso
quella di ginnastica, aveva avuto la bella idea di scivolare sulla pista di atletica
che la scuola usava per l’allenamento degli studenti in vista delle gare di corsa
della regione, sfregandosi buon parte della gamba coperta
solo dai pantaloncini. Era stato in infermeria per mezzora, aspettando che la giovane
infermiera di turno gli disinfettasse la pelle sfregiata quel poco che bastava,
e poi, dolorante e giù di corda, aveva preso l’autobus per tornare a casa.
Aveva ben tre ore di anticipo rispetto al solito
e per quello si aspettava di sorprendere Harriet, ma di certo non in quel modo, men che meno in compagnia di Clara.
Entrò in casa a testa bassa, mormorando un
“ciao” a mezza voce mentre chiudeva la porta, per poi bloccarsi a metà del gesto
con le chiavi a mezz’aria e gli occhi spalancati per lo stupore: sua sorella era
in piedi davanti a lui, con gli abiti spiegazzati, i capelli in disordine e il volto
accaldato mentre una delle sue compagne di scuola era sdraiata sul suo divano, lo
sguardo che correva per la stanza senza sapere dove soffermarsi.
«Tornato presto oggi… eh?»
In un attimo Harriet era passata dallo spavento
iniziale alla sua solita strafottenza e John, se non fosse stato troppo impegnato
a ricordarsi come chiudere la bocca e sbattere le palpebre, probabilmente si sarebbe
chiesto come facesse. Fece vagare lo sguardo per la stanza, collegando pian piano
i pezzi, e quando realizzò si ritrovò inconsciamente
a fare qualche passo indietro, verso la porta che aveva appena varcato.
In un attimo Harriet si lanciò verso di essa
e prima che John potesse anche solo cercare di capire le sue intenzioni si era già
frapposta tra lui e l’uscita, sfidandolo quasi con gli occhi a fare un altro passo. Il sorriso scomparve dalle sue labbra e si fece improvvisamente
seria.
Nel frattempo Clara, dopo essersi sistemata
vestiti e capelli, si era seduta e fissava i due giovani Watson non sapendo bene
come comportarsi.
«Temo sia giunto il momento di dirti una cosa…»
mormorò la ragazza più grande, sorridendo incerta al fratello. Fece un gesto con
il braccio ad indicare il divano, come
per invitarlo a sedersi, ma John non si mosse dal suo posto. «Che cosa vuol dire?»
chiese invece, la voce spaventosamente ferma.
Harriet distolse lo sguardo e fece qualche
passo nella stanza verso l’altra ragazza. «Che razza di domanda è?» disse poi con
un tono di voce vagamente divertito.
John trovò la forza di spostare un braccio
e lo mosse davanti a lui, principalmente con l’intenzione di indicare Clara. «Questo. Che cosa vuol dire?» la voce gli uscì dalle labbra quasi come un
lamento.
«Veramente, fratellino, ti facevo più intelligente.»
Il colorito del ragazzo si fece ad un tratto terreo mentre deglutiva un paio di
volte a vuoto. Alla fine parlò. «Voi siete…»
«Lesbiche?»
«…due ragazze…»
Harriet chiuse la bocca di scatto e deglutì
a sua volta. «Sì.»
Ma John aveva già avuto la risposta che voleva
e ad un tratto si sentì girare
la testa, tanto che dovette appoggiarsi con le mani al muro e chiudere gli occhi,
respirando piano.
«John, forse è meglio che ti siedi, hai una
brutta cera…»
«Stai zitta!» sbottò l’altro, aprendo nuovamente
gli occhi e lasciando Harriet di stucco. «Stai zitta,
ok? Non è divertente. Questo… non è…» prese un paio di respiri profondi. «Non è divertente.»
«Nessuno ha detto che lo è.» Questa volta era
stata Clara a parlare e i due fratelli Watson ne furono entrambi talmente sorpresi
che si girarono a guardarla.
«Clara non…» tentò di fermarla la ragazza.
«Perché?» la ragazza fece vagare lo sguardo
da uno all’altra. «Perché tutto questo teatrino?»
John la squadrò dall’alto in basso con cipiglio
critico, ma Clara non demorse, facendo un passo verso di lui e osservandolo con
gli occhi socchiusi. «Hai forse qualche problema?»
«Clara, lascia stare per favore. Lasciami…»
Le due ragazze si osservarono l’un l’altra.
«È mio fratello.»
«Evidentemente però non ha capito che…»
Harriet non la lasciò finire di parlare e la
trasse a sé, baciandola con forza e zittendola.
John osservò quell’improvviso slancio di affetto
e si ritrovò ad indietreggiare di qualche
passo, inorridito.
«Lascia che sia io a parlarci, ok?» disse Harriet, ad un soffio dal suo volto.
L’altra si passò la lingua sulle labbra per poi annuire velocemente. Raccattò da terra il proprio zaino, s’infilò
la felpa che aveva abbandonato sul divano e con un ultimo sguardo di rimprovero
alla giovane Watson passò davanti al ragazzo a testa alta e uscì dalla porta a passo
deciso.
«Si può sapere cosa ti prende?» sbottò Harriet
non appena udì i passi della sua ragazza affievolirsi sulle scale.
«Come sarebbe a dire che cosa mi è preso? TU PIUTTOSTO!» John si ritrovava improvvisamente
senza fiato e il cuore che gli batteva a mille nel petto. Non riusciva a credere
a ciò che aveva appena visto, non riusciva e non poteva veramente credere che Harriet fosse quello che si era
appena dimostrata. Gli era totalmente inconcepibile
una cosa del genere, soprattutto non dopo tutto quel tempo: come aveva fatto a nasconderlo?
Il dubbio gli passò per la mente e non poté fare a meno di chiederglielo.
Si appoggiò al muro e prese un respiro profondo.
«Che cosa… da quanto?»
Harriet si passò la lingua sulle labbra, pensierosa,
poi si lasciò cadere sul divano, dove fino a cinque minuti c’era
Clara, e si sdraiò comodamente su di esso, distendendo le gambe e stiracchiandosi.
«Da un po’…»
«E si può sapere PERCHÉ?»
Harriet alzò lo sguardo stupita. «Che cosa vorrebbe dire perché?»
John si passò una mano sulla fronte e si trascinò
fino ad afferrare una sedia e a lasciarsi cadere sopra. Aprì un paio di volte la
bocca per dire qualcosa, qualsiasi cosa, ma non gli venne in mente niente. Avrebbe
voluto chiederle perché non glielo aveva detto prima, perché era stato così cieco
da non notarlo, come aveva fatto a nasconderglielo ma soprattutto… perché. Non sapeva neanche lui che cosa volesse
veramente dire con quella domanda, solo sentiva qualcosa in fondo allo stomaco,
come una stretta, e non riusciva a capacitarsi di quello che stava succedendo, non ad Harriet.
«Penso sia da… uhm… circa tre anni.»
John alzò lo sguardo sulla sorella. «E quando
avevi intenzione di dirmelo?» C’era rabbia nella sua voce e non fece nulla per nasconderlo.
«Magari quando avresti reagito in un altro
modo…»
«E come avrei dovuto reagire?» John la osservò
con gli occhi spalancati per lo stupore.
«Magari, dopo aver passato settimane a stare
dietro ad un ragazzo visibilmente gay, avresti anche potuto capirmi.»
Il ragazzo rimase qualche secondo immobile
soppesando le parole che aveva appena pronunciato. «Che
cosa?»
Harriet sbuffò e portò le mani ad intrecciarsi dietro la nuca, chiudendo gli
occhi. «Clara mi ha detto tutto.
Quel ragazzo… She-sherkl…»
«Sherlock.»
«Sì, lui. È il tipo con cui ti sei scontrato
alla festa di Clara la scorsa volta, vero?»
«Che cosa c’entra lui, ora?» mormorò John a
denti stretti.
«Oh andiamo, fratellino… Clara mi ha detto tutto. È da settimane che passi i
tuoi pomeriggi in sua compagnia. Non dirmi che non ti sei accorto della sua om-»
«Non è gay.» La voce di John uscì sicura
e pungente. «E continuo a non capire cosa questo possa c’entrare con la tua situazione,
ora.»
Harriet sbadigliò. «Come vuoi… ma sappi che
so riconoscere chi è come me, e Sherlock è uno di quelli.»
John emise un profondo respiro irritato. «Ci ho parlato e fidati che non è così. Gli piacciono le
ragazze…» O almeno credo… si ritrovò a pensare. In effetti non aveva ancora ben inteso
che cosa Sherlock provasse e nei confronti di chi. Insomma, gli aveva sempre parlato
di ragazze e lui non aveva mai detto niente su di sé; probabilmente non era neanche
interessato ai rapporti umani, per quel che ne sapeva. Eppure era convinto che non
fosse gay: ricordava bene il discorso
avuto con lui riguardo la poesia di Prévert, la sua domanda sul se fosse
bello avere una ragazza. Perché avrebbe dovuto chiederglielo altrimenti?
«Si può sapere
dove sia veramente il problema?»
John alzò lo sguardo sulla sorella, che lo
stava fissando intensamente. «Non…» si bloccò, ancora incapace di esprimere a parole
quello che sentiva dentro. La verità era che non lo sapeva neanche lui come si sentiva.
Sicuramente era sorpreso, molto, e forse anche un po’ deluso. Ma deluso da cosa poi?
Sapeva che, in fondo, non c’era niente di male
in quello che Harriet aveva e stava facendo: o almeno questo era quello che aveva
sempre pensato riguardo all’omosessualità. Lui stesso aveva difeso Sherlock da quell’accusa
e lo avrebbe rifatto anche per altri, perfino sconosciuti. Solo… solo che Harriet era sua sorella, ecco cosa c’era
che non andava. La stretta allo stomaco si fece più forte nel realizzare ciò. Sua
sorella era, senza troppi giri di parole, lesbica.
«Non…» deglutì. «Non lo so…» ammise poi, più
a se stesso che ad altri.
«Beh… non c’è bisogno che tu lo sappia, non ora. Prenditi tutto il tempo che
vuoi, solo lascia stare Clara ed evita di dirlo alla mamma. Non so quanto possa
essere d’accordo.»
John annuì lentamente e si rifugiò in bagno per farsi una doccia, lasciando
che la tensione lo abbandonasse sotto il getto d’acqua calda.
~*~
Sherlock aspettò nel laboratorio per tutto
il pomeriggio, invano. Quel giorno John non arrivò.
All’inizio il ragazzo aveva pensato ad un possibile ritardo dell’amico, dovuto a qualche
professore o compagno che lo aveva fermato dopo la fine delle lezioni, o forse alla
sua sbadataggine; poteva aver dimenticato qualcosa in qualche classe e la stava
cercando, o poteva anche essere andato in bagno.
Sherlock aveva pensato a tutto e di più e aveva
aspettato pazientemente, cominciando anche a studiare da solo. Quando poi, un’ora
più tardi, aveva controllato l’orologio alla parete, si era arreso.
Non sapeva neanche lui perché, ma quando aveva realizzato che John non sarebbe andato al loro ritrovo
pomeridiano aveva avvertito una strana fitta allo stomaco e si era sentito improvvisamente
triste. Aveva appoggiato la testa ad
una mano e aveva cominciato a sfogliare distrattamente le pagine del suo libro
di filosofia, perso nei suoi pensieri.
La prima cosa cui aveva pensato, forse perché
John non faceva altro che parlarne, era stata un’eventuale ragazza: possibile che
l’amico avesse finalmente trovato una nuova persona con cui passare il proprio tempo?
Qualcuno che lo aveva attratto a tal punto da dimenticarsi di lui?
Vagò tra il pensiero di un richiamo improvviso
della madre che lo voleva a casa ad
un allenamento di rugby a sorpresa, da una possibile punizione inflitta da qualche
professore a una vera e propria dimenticanza di John che quel giorno poteva aver
avuto altri pensieri per la testa per stare a pensare ad uno del terzo anno come
lui. Valutò le più disparate possibilità, ma nessuna gli sembrò più plausibile di
una possibile nuova “Sarah”, se non lei stessa, ovviamente.
Doveva essere andata per forza in quel modo.
Erano settimane che John si lamentava di non avere una ragazza da portare fuori
al cinema e con la quale studiare, con cui passare il proprio tempo libero e con
cui parlare, discutere e sentirsi, con parole sue, a casa.
Sherlock non aveva badato molto ai suoi discorsi,
concentrandosi di più sulle cose che gli interessavano, aiutandolo perfino quando
non gli tornava qualche risultato di matematica o fisica. John era sempre sorpreso
quando prendeva in mano la situazione e cominciava a spiegargli i giusti procedimenti:
il moro credeva che non si sarebbe mai stancato di sentire le parole di approvazione
nei suoi confronti uscire dalle labbra del suo amico.
Quel pomeriggio, immancabilmente, gli mancò
tutto quello. Passò tutto il tempo a studiare da solo, chino sui libri, cercando
di focalizzare la sua attenzione sulle parole scritte in inchiostro nero piuttosto
che su quelle appartenenti ai suoi ricordi, su quelle parole pronunciate con tono
morbido da John, da quelle sue labbra che molte volte si stendevano in un sorriso
cordiale.
Quando alzò lo sguardo dal libro di scienze vide che al di fuori della finestra cominciava
a farsi buio.
Con un sospiro raccolse le sue cose e uscì
dal Barts, l’aria truce e il morale a terra. Si sentiva uno stupido, ma non riusciva
a fare a meno di pensare alla nuova ragazza di John, a come poteva essere, a chi poteva essere. Che cosa sarebbe
successo a quel punto? Se John aveva veramente trovato qualcun altro con cui passare
il proprio tempo, che cosa ne sarebbe stato di lui?
Beh, sarebbe tornato alla sua solita solitudine.
Non era certo una novità per lui e forse non gli dispiaceva neanche più di tanto.
In fondo a che cosa gli serviva un amico? Aveva passato buona parte della sua breve
vita senza altra compagnia se non se stesso, o suo fratello, o il suo cane. Quest’ultimo
in particolare era forse stato uno dei suoi migliori amici quando era più piccolo,
ma era pur sempre un animale, un essere senza il dono della parola, e oltre a dargli
affetto non aveva fatto altro. Sherlock dopotutto non aveva bisogno di parlare con
qualcuno: poteva benissimo prendere il suo teschio antico – regalatogli da suo padre
qualche anno prima – e illustrare a lui i suoi problemi. Non aveva bisogno di qualcuno
che gli rispondesse, ma solo di qualcuno o qualcosa che lo ascoltasse: parlare ad
alta voce era molto utile per schiarirsi le idee e a volte anche lui aveva bisogno
di mettere ordine fra i suoi pensieri.
Però era piacevole la compagnia di John, qualcuno
di vero e reale, tangibile, vivo; qualcuno che poteva ascoltarlo e dargli corda,
incoraggiarlo e lusingarlo con complimenti.
Il ragazzo scacciò via a forza quei pensieri,
rinchiudendoli in una nuova camera del suo palazzo mentale nel tentativo di isolarli.
Non c’era motivo di preoccuparsi tanto per John: lui non aveva bisogno di nessuno
se non di se stesso, e gli andava bene.
Varcò l’uscita dell’istituto e si diresse verso
la fermata della Tube più vicina ma, non appena svoltò l’angolo, una berlina nera
gli si avvicinò silenziosamente.
Inizialmente Sherlock fece finta di niente,
continuando a camminare con gli occhi puntati dritti di fronte a sé, ma, quando
tentò di attraversare la strada per raggiungere il marciapiede opposto, la vettura
gli si parò davanti e, sconfitto, non poté fare altro che aprire la portiera e salire
a bordo.
L’auto si avviò veloce lungo le vie della città,
passando attraverso il traffico con assoluta semplicità, quasi come se le altre
si spostassero volutamente per farla passare. Sherlock non aprì bocca, sedendo pensieroso
con lo sguardo rivolto verso l’esterno, perso tra
le luci della città che entrava nel pieno della sua vita notturna.
Dopo una decina di minuti giunsero finalmente
a Baker Street, fermandosi con naturalezza
davanti al 221B. Sherlock, che aveva imparato a memoria l’intera pianta della città,
aveva già capito alla prima svolta del percorso dove si stavano dirigendo e per
quello non ne fu particolarmente sorpreso.
Scese dalla macchina con una mezza idea di
correre via e andare direttamente alla fermata della Tube ma poi guardò il battente
del 221B e, spinto dalla curiosità, entrò nella casa. Salì i diciassette
scalini che portavano al piano superiore con passo felpato e varcò l’ingresso dell’appartamento
di suo fratello, entrando poi nel salotto.
Mycroft era seduto comodamente sulla sua poltrona
nera con un giornale tra le mani, vestito di tutto punto come suo solito, e quando
il fratello minore fece il suo ingresso non lo degnò di uno sguardo.
Sherlock non se ne curò, appoggiando invece
lo zaino a terra e avvicinandosi alla poltrona rossa di fronte a quella dove sedeva
il fratello. Si rannicchiò su di essa, cercando una delle posizioni in cui si sentiva
comodo, e quando la trovò si rilassò, chiudendo gli
occhi e lasciandosi cullare da quel calore immateriale.
«Com’è andata a scuola oggi?»
Sherlock fece una smorfia, tenendo sempre gli
occhi chiusi, e rispose con un’altra domanda. «Perché sei a Baker Street?» Poté quasi immaginarsi il fratello che,
alla sua uscita, portava gli occhi al cielo e si tratteneva dallo sbuffare solo
per non dargli soddisfazione.
«Guardati. Se non ti avessi fatto portare qui
non saresti neanche salito.»
Sherlock lasciò che un sorrisino beffardo andasse
a increspargli le labbra e rimase in silenzio mentre l’altro chiudeva il giornale,
lo ripiegava attentamente e lo poggiava sul tavolino tra loro. «The?» disse, prendendo
in mano la sua tazza e portandola all’altezza delle labbra.
Sherlock aprì gli occhi e guardò il soffitto
sopra di lui, scuotendo piano la testa. «Che cosa volevi dirmi?» Non riuscì a nascondere
una nota di curiosità nella sua voce e a Mycroft non sfuggì la fugace occhiata speranzosa che il giovane gli
scoccò.
Con un sospiro fissò il liquido ambrato nella
tazzina e scosse la testa. «Mi piacerebbe tanto sapere cosa ti attrae di questa
catapecchia…»
Il più giovane degli Holmes fece un’espressione
offesa. «Non è una catapecchia… ed è-»
«…isolata dal resto della nostra famiglia,
sì lo so Sherlock.» Mycroft rimase a osservare il fratello minore per qualche minuto, scandagliandolo
dalla testa ai piedi alla ricerca di indizi che non faticò a trovare.
«Come è andata oggi?» chiese di nuovo.
«Devi smetterla di torturare Lestrade…» fece
l’altro in risposta.
Il maggiore questa volta portò veramente gli
occhi al cielo e non si preoccupò neanche di nasconderlo. «Va bene, arriverò al punto. Chi è John Watson?»
«Gavin non te l’ha detto?»
«Greg…»
«Sì, lui.»
«Non mi ha saputo dire niente a riguardo.»
Sherlock sbuffò e diede le spalle all’altro,
girandosi sulla poltrona e rannicchiandosi ancora di più su di essa come a cercare
protezione. «È un amico.»
Mycroft dovette trattenersi dallo spalancare
la bocca per lo stupore. «Che genere di amico?»
Ancora silenzio.
«Sherlock, rispondimi per favore. L’autista non può aspettare tutto il giorno.»
«Non ho nessuna fretta di tornare a casa.»
«Che genere di amico?» ripeté, calcando le
parole a una a una.
Il moro aprì la bocca per parlare ma la voce
gli morì in gola. Avrebbe voluto dire a Mycroft di lasciarlo in pace, che quella
volta andava tutto bene e che se la poteva cavare benissimo da solo. Avrebbe voluto
dirgli che John era l’unico che lo aveva apprezzato veramente in quella scuola, l’unico che aveva considerato un vero amico e l’unico che
gi aveva fatto compagnia durante i suoi altrimenti solitari pomeriggi; ma non riuscì
a dire niente di tutto quello, mentre tra le palpebre socchiuse gli balenò l’immagine
di John in un qualche angolo nascosto della scuola a baciare una ragazza mentre
lui lo aspettava al laboratorio. Una strana morsa gli strinse la bocca dello stomaco
e al posto di qualche frase scocciata gli uscì solo un grugnito di disapprovazione.
«Uno come gli altri. Ordinario.» disse infine.
Mycroft osservò attentamente il fratello, cogliendo
il tono afflitto del ragazzo e collegandolo all’espressione triste con cui era entrato
in casa – era ancora troppo piccolo per saperla
nascondere alla perfezione – e inevitabilmente capì, o perlomeno gli parve di
capire: per una volta non era per niente certo delle conclusioni a cui era arrivato.
Possibile che Sherlock fosse veramente triste per l’aver solo nominato il nome di
quel ragazzo? Possibile che, per una volta, potesse essere infelice e non scocciato
e irritato? E possibile che la causa di tutto ciò fosse semplicemente un amico?
«Devo dedurne che oggi non è stata una bella giornata?»
Un altro grugnito provenne dalla poltrona e
Mycroft non poté far altro che sospirare. «Lo conosci appena da un mese,
hai passato con lui tutti i pomeriggi dal quel momento e ora sei infelice per qualcosa
che è successo tra voi. Devo aspettarmi una qualche dichiarazione improvvisa non
appena farete pace?»
Finalmente Sherlock si girò a guardarlo con
aria truce. «Ora che hai dedotto tutto, cosa vuoi?»
Mycroft rimase un attimo in silenzio, all’apparenza
del tutto tranquillo, in realtà piuttosto stupito. Poi si passò una mano sul volto
con aria stanca e sospirò. «Dare ascolto ai propri sentimenti non è un vantaggio,
Sherlock.»
Il ragazzo sbuffò e rivolse lo sguardo al soffitto.
«Non me ne importa niente dei sentimenti.»
«Ti stai contraddicendo da solo.»
«Lasciami in pace.» mormorò Sherlock infine,
chiudendo gli occhi e cercando di scacciare quell’improvvisa voglia di prenderlo
a pugni.
Mycroft sbuffò per l’ennesima volta e con un
movimento fluido si alzò dalla poltrona. «Ti ho avvisato in passato
e oggi te l’ho ripetuto: se ti lascerai prendere soffrirai, inevitabilmente. È meglio
che ti lasci tutto alle spalle al più presto.»
In risposta ebbe solo un grugnito infastidito.
«Non costringermi a fare una bella chiacchierata
con il giovane Watson…»
Sherlock questa volta dovette stringere i pugni
per trattenersi, non senza difficoltà, dal balzargli veramente addosso. Se all’inizio
era entrato in casa quasi per curiosità, ora desiderava non averci mai messo piede.
«Ti ho detto di lasciarmi in pace.» ringhiò.
Mycroft osservò dall’alto in basso il proprio
fratello minore con una punta di tenerezza. Sapeva di non essere una tra le maggiori
simpatie di Sherlock, ma proprio non gli riusciva di
fargli capire che tutte le sue attenzioni erano solo dovute al fatto che si
preoccupava sempre per lui, costantemente.
In passato lui e i sui genitori si erano affidati troppo al suo buonsenso e le cose
erano inevitabilmente precipitate con l’avvento dell’adolescenza. Se Mycroft aveva
pensato che suo fratello sarebbe stato troppo intelligente per compiere atti del genere, si era sbagliato: il giovane
Holmes non era stato in grado di prendersi cura di se stesso, non aveva saputo proteggersi
dal mondo esterno e aveva rischiato grosso. Era caduto una volta e, proprio quando
sembrava essersi rialzato, era crollato nuovamente.
Sherlock aveva bisogno di qualcuno che si preoccupasse
per lui, regolarmente, e Mycroft si era deliberatamente offerto per quell’incarico.
«Ti ricordi dell’ultima volta, vero? Non voglio ricaderci ancora…»
«Ho imparato la lezione.» sibilò a denti stretti
l’altro.
Il più grande annuì e preso l’ombrello si incamminò verso l’uscita. «Ti concedo di rimanere un po’ qui, ma mamma ti vuole a
casa per cena. Chiaro?»
Sherlock si rilassò sulla poltrona e assentì
con uno sbuffo annoiato. Poco prima che il fratello uscisse definitivamente dall’appartamento,
tuttavia, gli pose una domanda, giusto per ripagarlo della sua insistenza. «Quando hai intenzione di comunicarle che l’appartamento
che ti ha regalato non ti piace? Non apprezzerà l’idea che tu te ne sia comprato
un altro in pieno centro.»
Mycroft si bloccò con una mano sulla maniglia,
sospirando pesantemente. Pensò a qualcosa di sensato per rispondergli, poi portò
gli occhi al cielo e uscì dalla stanza senza proferire parola.
Dalla sua poltrona Sherlock sorrise divertito: era sempre un piacere stuzzicare
il fratello.
~*~
«Sherlock!»
Il ragazzo interpellato si girò di scatto,
riuscendo a trattenere a stento un sorriso. «John…»
Il biondo lo raggiunse con pochi passi e si
appoggiò all’armadietto di fianco a quello del moro, stringendo al petto i libri
della prima ora appena recuperati dal suo.
Sherlock realizzò di essere rimasto immobile
per qualche secondo a fissarlo intensamente, così distolse lo sguardo, continuando
ad armeggiare per cercare i libri di chimica tra quelli impilati ordinatamente all’interno
del piccolo spazio. Il sorriso si affievolì sul suo volto fino a lasciare il posto
a una smorfia annoiata al pensiero di ciò che era successo il giorno prima.
«Scusami per ieri, se non sono venuto. Ho… avuto alcuni problemi.»
Il moro sentì lo stomaco fargli una capriola
mentre i pensieri s’ingarbugliavano l’uno sull’altro. Si girò con estrema lentezza
verso di lui e lo osservò attentamente. «Che genere di problemi?»
Il ragazzo arrossì lievemente e portò una mano
a grattarsi la nuca. «Ecco io… sono caduto durante l’ora di ginnastica.»
Sherlock si ritrovò a sorridere divertito all’espressione
imbarazzata dell’altro, come se cadere durante una corsa fosse un errore di cui
vergognarsi, e sentì il peso che aveva nel petto alleggerirsi: John non aveva avuto
altri impegni, non aveva nessuna ragazza da cui andare.
Si era fatto tanti problemi per
nulla, non era successo niente di nuovo e il ragazzo sarebbe rimasto ancora con
lui, come sempre da un po’ di tempo a quella parte.
«Quindi non hai intenz-» disse, ma non fece in tempo
a finire la frase che una ragazza gli si parò di fianco.
«Penso che tu abbia sbagliato a comportarti
in quel modo con Harriet.»
John si girò di scatto, sorpreso dall’improvvisa
interruzione. Squadrò Clara da capo a piedi, poi aprì la bocca per rispondere ma
rimase bloccato, fissando lo sguardo fiero della ragazza davanti a sé.
«Pensi che sia facile vivere in questo modo? Pensi che sia facile accettarlo?»
Sherlock chiuse l’armadietto e si accigliò,
spostando lo sguardo da lei all’amico a intervalli regolari con curiosità.
John strinse le mani a pugno e si costrinse
a parlare. «Possiamo… parlarne in un altro momento?» mormorò, la voce così bassa
che fece fatica lui stesso a sentirsi.
«Per quale motivo?» gli occhi della ragazza
si posarono sul moro al suo fianco e piegò le labbra, divertita. «Almeno ho il sostegno
di qualcuno che vive nella mia stessa situazione.»
John fece un respiro profondo. «Non è perché
c’è Sherlock - e tanto per la cronaca non è gay
– ma perché siamo nel bel mezzo di un corridoio con tanto di studenti che ci
gironzolano attorno!» esclamò.
Sherlock inarcò un sopracciglio all’affermazione
del compagno e ricevette un occhiolino divertito da parte di Clara.
«Harriet è la mia ragazza e non ti permetterò
di mandarla in depressione solo perché non ti va bene che lei sia lesbica.» disse
poi la ragazza, abbassando il tono di voce in modo che solo i due di fronte a lei
potessero sentirla.
John spalancò gli occhi. «Io non ho detto ch-»
«Ma guarda chi c’è qui!»
Al suono di quella voce Clara s’irrigidì, assottigliò
le labbra e tenne lo sguardo fisso in quello di John. Il ragazzo, invece, portò
gli occhi al cielo. «Cosa vuoi Smith?» sbuffò, tradendo tuttavia una certa agitazione.
«Il verginello e l’indecisa. Ti stai costruendo
un bel gruppetto attorno a te, eh John? Cosa fate, organizzate un gay club tutti insieme?»
John sentì le mani prudergli per la voglia
di prendere il compagno a cazzotti, ma prese un respiro profondo e si costrinse
a pensare che era solo in cerca di attenzioni. Quando
si guardò intorno il suo pensiero venne subito
confermato nel vedere la piccola folla che alla provocazione di Smith si stava radunando
incuriosita attorno a loro. Inoltre vide una buona parte dei suoi compagni di squadra
in piedi accanto al tallonatore con un ghigno divertito sul volto, Anderson e il
Rosso compresi.
«Sai… non credo che tua sorella possa entrare a farne parte. È un vero peccato,
ma lei non fa più il liceo, vero?»
John si passò la lingua sulle labbra, cercando
le parole più adatte per mandarlo a quel paese e andarsene di lì prima che la situazione
degenerasse. «Grazie Smith, terrò a mente il tuo consiglio.»
Il sorriso del tallonatore non fece che allargarsi.
Allargò le braccia e si guardò intorno con aria trionfante. «Che vi dicevo? Il nostro Johnny Boy è passato dall’altra
parte!»
Il diretto interessato sentì la rabbia montargli
dentro e fu solo con un enorme sforzo che riuscì a trattenersi dall’arrossire.
Intanto Clara fissava con insistenza il laccio
delle proprie scarpe e Sherlock si era premuto contro l’armadietto con fare noncurante, facendo finta di leggere una pagina del suo libro e
sperando con tutto se stesso che il suo amico riuscisse a tenere testa ai suoi compagni
di squadra solo con le parole, evitando di sfociare in una zuffa a pochi minuti
dall’inizio delle lezioni. Ma non aveva fatto conto con
l’orgoglio di John, e con quanto esso poco resistesse alle provocazioni degli altri.
«E dimmi… comincerai anche tu a ubriacarti come tua sorella ora? È questo che
comporta il diventare gay, forse?»
John mosse un passo in avanti di scatto, fermandosi
poi poco dopo a poca distanza dall’altro. «Smettila.» soffiò tra i denti, le unghie
delle dita che quasi affondavano nei palmi.
«Oppure?» ghignò l’altro in risposta.
E John non resistette più. In un attimo lo
prese per il colletto della felpa e con uno slancio lo schiacciò contro la fila
di armadietti di fronte.
«John!» Clara allungò una mano verso il ragazzo,
terrorizzata. «John, lascia perdere!»
Sherlock, invece, rimase fermo sul posto con
il cuore in gola.
Harry intanto rideva di gusto. «È tutto qui
quello che sai fare?»
John strinse la presa sulla stoffa e lo guardò
in cagnesco, sibilando tra i denti: «Finiscila ora e mi fermo, ok?»
Il sorriso sul volto del ragazzo si spense
di colpo. «E chi ha detto che tu ti debba fermare?»
Tempo di neanche un secondo e Smith gli era addosso, tirando pugni alla cieca e spintonando
John che, colto alla sprovvista, si ritrovò ad indietreggiare, non riuscendo a fare
altro se non proteggersi come meglio poteva dai colpi dell’altro.
«John!» Clara li guardava con il terrore dipinto
in volto, avvicinandosi e cercando inutilmente di richiamarli all’ordine.
Sherlock osservava la scena come da molto lontano,
il cuore che gli batteva forte nel petto per la paura che John si potesse fare del
male e i denti che torturavano il labbro inferiore per l’indecisione: doveva intervenire
anche lui o lasciare che gli eventi facessero il loro corso? Avrebbe potuto benissimo
correre via per evitare che prendessero di mira anche lui, o buttarsi nella zuffa
per aiutare John. Un altro pensiero che gli passò per la mente fu quello di andare a cercare un professore che con la sua
autorità avrebbe potuto calmare le acque, ma aveva anche paura che John venisse
punito per la sua uscita e non voleva peggiorare la situazione. Così rimase fermo
sul posto, sperando che la cosa finisse al più presto.
Clara riuscì finalmente ad afferrare John per
il cappuccio della sua felpa e lo tirò indietro, rischiando di soffocarlo per lo
strattone. Smith però non sembrava dell’idea di lasciarlo andare così facilmente
e lo trattenne per gli orli della stessa felpa, rischiando così di lacerarla.
Intanto gli studenti che si erano riuniti intorno
alla scena incitavano i due duellanti, chi stava
dalla parte del tallonatore e chi da quella del mediano. Nessuno pareva dell’idea
di fermarli, a parte Clara.
Non trascorsero neanche un paio di minuti che,
tuttavia, giunse sul luogo il professore di letteratura inglese che, nonostante
non fosse di grande corporatura, incuteva sempre un gran timore per la sua aurea di grave compostezza.
Bastò un’occhiata al suo volto infuriato per far diradare la maggior parte degli
spettatori e un suo “basta!” urlato a pieni polmoni per farsi sentire oltre il persistente
brusio e far smettere i due ragazzi nel giro di un secondo.
John spinse via il compagno di squadra e rimase
sul posto, ansimante, un livido che si stava allargando lentamente sulla sua guancia
e gli abiti spiegazzati.
Sherlock tirò un sospiro di sollievo insieme con Clara che, però, approfittò dell’improvvisa
calma per dileguarsi dal corridoio.
«Si può sapere che cosa diamine vi è preso?» tuonò l’insegnante. «Vi voglio entrambi nell’ufficio del preside. SUBITO.» esclamò, per poi girarsi
e cominciare a camminare a passo sostenuto lungo il corridoio.
John scoccò un’occhiata a Sherlock, il quale
si sentì gelare per la rabbia contenuto in esso, per poi avviarsi sulla scia del
professore, sistemandosi nel frattempo i vestiti addosso con l’intento di darsi
una sistemata prima di farsi vedere dal preside in persona.
Il trillo insistente della campanella coprì il chiacchiericcio degli studenti
che, finito lo spettacolo, si avviarono a lezione, mentre Sherlock incrociava quasi
per caso lo sguardo con quello di Mary Morstan, in piedi poco lontano da lui e con
un lieve sorriso sulle labbra.
~*~
«Ed eccomi qui.»
Sherlock si girò di scatto, sorpreso, squadrando
l’amico dalla testa ai piedi: un livido gli deturpava il volto, allungandosi sulla
sua guancia destra e il suo sguardo era afflitto. «Cosa ci fai qui? Non hai
gli allenamenti oggi?» chiese.
John sospirò e scosse la testa. «Punizione.»
Sherlock esalò un debole “oh…” e annuì, pensieroso, mentre chiudeva l’armadietto dietro di sé. «Quindi vieni
su al laboratorio?» chiese titubante, senza poter tuttavia fare
a meno di nascondere una nota di speranza nella voce.
Il giovane Watson annuì tristemente. «Da oggi
per una settimana non avrò altro da fare il martedì e il venerdì pomeriggio, quindi
credo che dovrò romperti le scatole due giorni in più… a quanto pare difendere tua
sorella da un attacco contro i suoi diritti omosessuali equivale ad essere allontanato dalla squadra di rugby per
gli allenamenti settimanali. Frequentiamo proprio una bella scuola…» sospirò.
«Senza contare che tra gli studenti si aggira
indisturbato un assassino e nessuno a parte noi e il professore di filosofia lo
sa.»
John avvertì una strana morsa alla bocca dello
stomaco nell’udire quelle parole. «Ci pensi ancora? A Powers?»
Sherlock portò gli occhi al cielo. «Ovvio, John. Non si abbandona nel nulla un caso se non
è risolto.»
L’altro sorrise. «Beh… ma se non ci sono abbastanza prove per incolpare qualcuno come si può concluderlo?
Non sappiamo nemmeno chi è… potrebbe essere chiunque.»
Sherlock arricciò il naso. «Prima o poi tornerà allo scoperto. Un
genio del genere non se ne va semplicemente così, di punto in bianco.»
«Genio?» mormorò John stupito.
Tuttavia Sherlock aveva cominciato a camminare
borbottando tra sé e sé e non lo ascoltò. Stringendosi nelle spalle il ragazzo lo
seguì, diretto verso il laboratorio.
«E poi non riesco ancora a capire quale possa essere stato il movente. Perché
avrebbe dovuto uccidere Powers? Sicuramente per qualche ragione di suo interesse personale. Che Carl avesse scoperto
qualcosa su di lui? Sarebbe il modo migliore per farlo tacere: ucciderlo.»
Girarono l’angolo.
John sembrava leggermente scosso dalla totale
indifferenza dell’amico mentre parlava. «Ma… voglio dire, siamo… siamo
solo ragazzi. Credi veramente che qualcuno di noi potrebbe fare qualcosa del genere?»
«Beh, o noi o un professor-» Sherlock si bloccò
di colpo in mezzo al corridoio. «Noi siamo sempre al laboratorio di pomeriggio!»
esclamò.
John si accigliò, fermandosi anche lui dietro
all’amico. «Sì…?»
Le labbra del moro si stesero lentamente in
un sorriso, mentre il volto si apriva in un ghigno consapevole. «E quando usciamo non passiamo mai dal mio armadietto…»
John aprì la bocca per parlare ma in quel momento
Mary comparve dall’angolo opposto e, vedendolo, gli
sorrise raggiante, così che John si dimenticò di quello che voleva dire. La
ragazza avanzò lungo il corridoio nella loro direzione.
«Dio, che stupido!» Sherlock portò gli occhi
al cielo e si batté una mano sulla fronte. «Stupido, stupido, stupido!» esclamò tra sé e sé, girando su
se stesso e tornando sui propri passi.
«Ciao John!»
«Mary…» Il ragazzo sorrise alla biondina che
in pochi passi lo aveva raggiunto. «Come… come mai da queste parti?» Girò di poco
la testa in direzione di Sherlock per vedere cosa stava facendo ma, vedendolo allontanarsi, decise di abbandonarlo un attimo
e dedicò la propria attenzione alla ragazza che sembrava sul punto di dire qualcosa.
Solo per qualche secondo.
«Mi stavo chiedendo…» iniziò, guadagnandosi
l’assoluta attenzione dell’altro.
Sherlock intanto si avvicinò al muro d’angolo,
affacciandosi lentamente sul corridoio dove si trovava il suo armadietto.
«Se… ecco, insomma…» La ragazza sembrava leggermente
imbarazzata e dovette distogliere lo sguardo per puntarlo sulla punta delle sue
scarpe. «…se ti andasse di uscire, un giorno di questi.»
John riuscì a trattenersi dal spalancare le
labbra per lo stupore. Un leggero colorito rossastro andò ad imporporargli le guance mentre, all’improvviso
dimentico di qualunque cosa al di fuori di Mary, annuiva velocemente, anche se non
aveva ancora del tutto elaborato l’informazione.
Sherlock si staccò dall’angolo e camminò deliberatamente
nel corridoio, diretto verso il punto da cui era partito neanche cinque minuti prima.
Lì per terra, esattamente sotto il suo armadietto,
impiastricciato per l’ennesima volta in un solo mese, giaceva abbandonata una bomboletta
spray di colore giallo acceso.
«Eccoti qui…» mormorò sottovoce, e chinatosi,
afferrò delicatamente l’oggetto. «…ti ho trovato.»
Note: (o forse è meglio chiamarle curiosità?)
Non so se l’avete notato ma in questo capitolo John continua a ripetere
che Sherlock non è gay. Mi sono divertita a rigirare la famosa frase “I’m not gay” xD
Per quanto riguarda l’incontro tra i due
fratelli Holmes a Baker Street, invece, ho voluto far
accomodare il nostro Sherlock nella poltrona di John perché mi sembrava carino associarla
a John stesso: Sherlock si rifugia nella poltrona rossa, nel suo “caldo abbraccio”.
Mi scuso per l’eventuale OOC, ma insomma…
non sono propriamente i John e Sherlock che conosciamo.
Ricordiamoci che hanno una ventina di anni in meno ;)