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Autore: Gageta    28/02/2014    2 recensioni
John frequenta il liceo Barts: è al suo ultimo anno e tutto sommato le cose vanno bene. Ci sono gli ultimi mesi di duro studio, l'imminente scelta per il proprio futuro, c'è la squadra di rugby e tante ultime feste a cui partecipare, ragazze al suo seguito che uscirebbero volentieri con lui e una in particolare, Mary, con la quale farebbe di tutto pur di avere un appuntamento.
John ha sempre avuto le idee chiare: gli uomini si invaghiscono delle donne, chiedono loro un appuntamento, si innamorano e le sposano. Una cosa elementare, naturale.
John è sempre stato certo di questo, ma poi incontra Sherlock Holmes, e tutto ad un tratto non è più sicuro di nulla.
[teen!lock, Johnlock!AU]
Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Orgoglio e Pregiudizio

Capitolo 5

 

A

lmeno quel pomeriggio John tornò a casa prima del previsto.

Durante l’ultima ora di lezione, nel suo caso quella di ginnastica, aveva avuto la bella idea di scivolare sulla pista di atletica che la scuola usava per l’allenamento degli studenti in vista delle gare di corsa della regione, sfregandosi buon parte della gamba coperta solo dai pantaloncini. Era stato in infermeria per mezzora, aspettando che la giovane infermiera di turno gli disinfettasse la pelle sfregiata quel poco che bastava, e poi, dolorante e giù di corda, aveva preso l’autobus per tornare a casa.

Aveva ben tre ore di anticipo rispetto al solito e per quello si aspettava di sorprendere Harriet, ma di certo non in quel modo, men che meno in compagnia di Clara.

Entrò in casa a testa bassa, mormorando un “ciao” a mezza voce mentre chiudeva la porta, per poi bloccarsi a metà del gesto con le chiavi a mezz’aria e gli occhi spalancati per lo stupore: sua sorella era in piedi davanti a lui, con gli abiti spiegazzati, i capelli in disordine e il volto accaldato mentre una delle sue compagne di scuola era sdraiata sul suo divano, lo sguardo che correva per la stanza senza sapere dove soffermarsi.

«Tornato presto oggi… eh?»

In un attimo Harriet era passata dallo spavento iniziale alla sua solita strafottenza e John, se non fosse stato troppo impegnato a ricordarsi come chiudere la bocca e sbattere le palpebre, probabilmente si sarebbe chiesto come facesse. Fece vagare lo sguardo per la stanza, collegando pian piano i pezzi, e quando realizzò si ritrovò inconsciamente a fare qualche passo indietro, verso la porta che aveva appena varcato.

In un attimo Harriet si lanciò verso di essa e prima che John potesse anche solo cercare di capire le sue intenzioni si era già frapposta tra lui e l’uscita, sfidandolo quasi con gli occhi a fare un altro passo. Il sorriso scomparve dalle sue labbra e si fece improvvisamente seria.

Nel frattempo Clara, dopo essersi sistemata vestiti e capelli, si era seduta e fissava i due giovani Watson non sapendo bene come comportarsi.

«Temo sia giunto il momento di dirti una cosa…» mormorò la ragazza più grande, sorridendo incerta al fratello. Fece un gesto con il braccio ad indicare il divano, come per invitarlo a sedersi, ma John non si mosse dal suo posto. «Che cosa vuol dire?» chiese invece, la voce spaventosamente ferma.

Harriet distolse lo sguardo e fece qualche passo nella stanza verso l’altra ragazza. «Che razza di domanda è?» disse poi con un tono di voce vagamente divertito.

John trovò la forza di spostare un braccio e lo mosse davanti a lui, principalmente con l’intenzione di indicare Clara. «Questo. Che cosa vuol dire?» la voce gli uscì dalle labbra quasi come un lamento.

«Veramente, fratellino, ti facevo più intelligente.»

Il colorito del ragazzo si fece ad un tratto terreo mentre deglutiva un paio di volte a vuoto. Alla fine parlò. «Voi siete…»

«Lesbiche?»

«…due ragazze…»

Harriet chiuse la bocca di scatto e deglutì a sua volta. «Sì.»

Ma John aveva già avuto la risposta che voleva e ad un tratto si sentì girare la testa, tanto che dovette appoggiarsi con le mani al muro e chiudere gli occhi, respirando piano.

«John, forse è meglio che ti siedi, hai una brutta cera…»

«Stai zitta!» sbottò l’altro, aprendo nuovamente gli occhi e lasciando Harriet di stucco. «Stai zitta, ok? Non è divertente. Questo… non è…» prese un paio di respiri profondi. «Non è divertente.»

«Nessuno ha detto che lo è.» Questa volta era stata Clara a parlare e i due fratelli Watson ne furono entrambi talmente sorpresi che si girarono a guardarla.

«Clara non…» tentò di fermarla la ragazza.

«Perché?» la ragazza fece vagare lo sguardo da uno all’altra. «Perché tutto questo teatrino?»

John la squadrò dall’alto in basso con cipiglio critico, ma Clara non demorse, facendo un passo verso di lui e osservandolo con gli occhi socchiusi. «Hai forse qualche problema?»

«Clara, lascia stare per favore. Lasciami…»

Le due ragazze si osservarono l’un l’altra.

«È mio fratello.»

«Evidentemente però non ha capito che…»

Harriet non la lasciò finire di parlare e la trasse a sé, baciandola con forza e zittendola.

John osservò quell’improvviso slancio di affetto e si ritrovò ad indietreggiare di qualche passo, inorridito.

«Lascia che sia io a parlarci, ok?» disse Harriet, ad un soffio dal suo volto.

L’altra si passò la lingua sulle labbra per poi annuire velocemente. Raccattò da terra il proprio zaino, s’infilò la felpa che aveva abbandonato sul divano e con un ultimo sguardo di rimprovero alla giovane Watson passò davanti al ragazzo a testa alta e uscì dalla porta a passo deciso.

«Si può sapere cosa ti prende?» sbottò Harriet non appena udì i passi della sua ragazza affievolirsi sulle scale.

«Come sarebbe a dire che cosa mi è preso? TU PIUTTOSTO!» John si ritrovava improvvisamente senza fiato e il cuore che gli batteva a mille nel petto. Non riusciva a credere a ciò che aveva appena visto, non riusciva e non poteva veramente credere che Harriet fosse quello che si era appena dimostrata. Gli era totalmente inconcepibile una cosa del genere, soprattutto non dopo tutto quel tempo: come aveva fatto a nasconderlo? Il dubbio gli passò per la mente e non poté fare a meno di chiederglielo.

Si appoggiò al muro e prese un respiro profondo. «Che cosa… da quanto?»

Harriet si passò la lingua sulle labbra, pensierosa, poi si lasciò cadere sul divano, dove fino a cinque minuti c’era Clara, e si sdraiò comodamente su di esso, distendendo le gambe e stiracchiandosi. «Da un po’…»

«E si può sapere PERCHÉ?»

Harriet alzò lo sguardo stupita. «Che cosa vorrebbe dire perché?»

John si passò una mano sulla fronte e si trascinò fino ad afferrare una sedia e a lasciarsi cadere sopra. Aprì un paio di volte la bocca per dire qualcosa, qualsiasi cosa, ma non gli venne in mente niente. Avrebbe voluto chiederle perché non glielo aveva detto prima, perché era stato così cieco da non notarlo, come aveva fatto a nasconderglielo ma soprattutto… perché. Non sapeva neanche lui che cosa volesse veramente dire con quella domanda, solo sentiva qualcosa in fondo allo stomaco, come una stretta, e non riusciva a capacitarsi di quello che stava succedendo, non ad Harriet.

«Penso sia da… uhm… circa tre anni.»

John alzò lo sguardo sulla sorella. «E quando avevi intenzione di dirmelo?» C’era rabbia nella sua voce e non fece nulla per nasconderlo.

«Magari quando avresti reagito in un altro modo…»

«E come avrei dovuto reagire?» John la osservò con gli occhi spalancati per lo stupore.

«Magari, dopo aver passato settimane a stare dietro ad un ragazzo visibilmente gay, avresti anche potuto capirmi.»

Il ragazzo rimase qualche secondo immobile soppesando le parole che aveva appena pronunciato. «Che cosa?»

Harriet sbuffò e portò le mani ad intrecciarsi dietro la nuca, chiudendo gli occhi. «Clara mi ha detto tutto. Quel ragazzo… She-sherkl»

«Sherlock.»

«Sì, lui. È il tipo con cui ti sei scontrato alla festa di Clara la scorsa volta, vero?»

«Che cosa c’entra lui, ora?» mormorò John a denti stretti.

«Oh andiamo, fratellino… Clara mi ha detto tutto. È da settimane che passi i tuoi pomeriggi in sua compagnia. Non dirmi che non ti sei accorto della sua om-»

«Non è gay.» La voce di John uscì sicura e pungente. «E continuo a non capire cosa questo possa c’entrare con la tua situazione, ora.»

Harriet sbadigliò. «Come vuoi… ma sappi che so riconoscere chi è come me, e Sherlock è uno di quelli.»

John emise un profondo respiro irritato. «Ci ho parlato e fidati che non è così. Gli piacciono le ragazze…» O almeno credo… si ritrovò a pensare. In effetti non aveva ancora ben inteso che cosa Sherlock provasse e nei confronti di chi. Insomma, gli aveva sempre parlato di ragazze e lui non aveva mai detto niente su di sé; probabilmente non era neanche interessato ai rapporti umani, per quel che ne sapeva. Eppure era convinto che non fosse gay: ricordava bene il discorso avuto con lui riguardo la poesia di Prévert, la sua domanda sul se fosse bello avere una ragazza. Perché avrebbe dovuto chiederglielo altrimenti?

«Si può sapere dove sia veramente il problema?»

John alzò lo sguardo sulla sorella, che lo stava fissando intensamente. «Non…» si bloccò, ancora incapace di esprimere a parole quello che sentiva dentro. La verità era che non lo sapeva neanche lui come si sentiva. Sicuramente era sorpreso, molto, e forse anche un po’ deluso. Ma deluso da cosa poi?

Sapeva che, in fondo, non c’era niente di male in quello che Harriet aveva e stava facendo: o almeno questo era quello che aveva sempre pensato riguardo all’omosessualità. Lui stesso aveva difeso Sherlock da quell’accusa e lo avrebbe rifatto anche per altri, perfino sconosciuti. Solo… solo che Harriet era sua sorella, ecco cosa c’era che non andava. La stretta allo stomaco si fece più forte nel realizzare ciò. Sua sorella era, senza troppi giri di parole, lesbica.

«Non…» deglutì. «Non lo so…» ammise poi, più a se stesso che ad altri.

«Beh… non c’è bisogno che tu lo sappia, non ora. Prenditi tutto il tempo che vuoi, solo lascia stare Clara ed evita di dirlo alla mamma. Non so quanto possa essere d’accordo.»

John annuì lentamente e si rifugiò in bagno per farsi una doccia, lasciando che la tensione lo abbandonasse sotto il getto d’acqua calda.

~*~

Sherlock aspettò nel laboratorio per tutto il pomeriggio, invano. Quel giorno John non arrivò.

All’inizio il ragazzo aveva pensato ad un possibile ritardo dell’amico, dovuto a qualche professore o compagno che lo aveva fermato dopo la fine delle lezioni, o forse alla sua sbadataggine; poteva aver dimenticato qualcosa in qualche classe e la stava cercando, o poteva anche essere andato in bagno.

Sherlock aveva pensato a tutto e di più e aveva aspettato pazientemente, cominciando anche a studiare da solo. Quando poi, un’ora più tardi, aveva controllato l’orologio alla parete, si era arreso.

Non sapeva neanche lui perché, ma quando aveva realizzato che John non sarebbe andato al loro ritrovo pomeridiano aveva avvertito una strana fitta allo stomaco e si era sentito improvvisamente triste. Aveva appoggiato la testa ad una mano e aveva cominciato a sfogliare distrattamente le pagine del suo libro di filosofia, perso nei suoi pensieri.

La prima cosa cui aveva pensato, forse perché John non faceva altro che parlarne, era stata un’eventuale ragazza: possibile che l’amico avesse finalmente trovato una nuova persona con cui passare il proprio tempo? Qualcuno che lo aveva attratto a tal punto da dimenticarsi di lui?

Vagò tra il pensiero di un richiamo improvviso della madre che lo voleva a casa ad un allenamento di rugby a sorpresa, da una possibile punizione inflitta da qualche professore a una vera e propria dimenticanza di John che quel giorno poteva aver avuto altri pensieri per la testa per stare a pensare ad uno del terzo anno come lui. Valutò le più disparate possibilità, ma nessuna gli sembrò più plausibile di una possibile nuova “Sarah”, se non lei stessa, ovviamente.

Doveva essere andata per forza in quel modo. Erano settimane che John si lamentava di non avere una ragazza da portare fuori al cinema e con la quale studiare, con cui passare il proprio tempo libero e con cui parlare, discutere e sentirsi, con parole sue, a casa.

Sherlock non aveva badato molto ai suoi discorsi, concentrandosi di più sulle cose che gli interessavano, aiutandolo perfino quando non gli tornava qualche risultato di matematica o fisica. John era sempre sorpreso quando prendeva in mano la situazione e cominciava a spiegargli i giusti procedimenti: il moro credeva che non si sarebbe mai stancato di sentire le parole di approvazione nei suoi confronti uscire dalle labbra del suo amico.

Quel pomeriggio, immancabilmente, gli mancò tutto quello. Passò tutto il tempo a studiare da solo, chino sui libri, cercando di focalizzare la sua attenzione sulle parole scritte in inchiostro nero piuttosto che su quelle appartenenti ai suoi ricordi, su quelle parole pronunciate con tono morbido da John, da quelle sue labbra che molte volte si stendevano in un sorriso cordiale.

Quando alzò lo sguardo dal libro di scienze vide che al di fuori della finestra cominciava a farsi buio.

Con un sospiro raccolse le sue cose e uscì dal Barts, l’aria truce e il morale a terra. Si sentiva uno stupido, ma non riusciva a fare a meno di pensare alla nuova ragazza di John, a come poteva essere, a chi poteva essere. Che cosa sarebbe successo a quel punto? Se John aveva veramente trovato qualcun altro con cui passare il proprio tempo, che cosa ne sarebbe stato di lui?

Beh, sarebbe tornato alla sua solita solitudine. Non era certo una novità per lui e forse non gli dispiaceva neanche più di tanto. In fondo a che cosa gli serviva un amico? Aveva passato buona parte della sua breve vita senza altra compagnia se non se stesso, o suo fratello, o il suo cane. Quest’ultimo in particolare era forse stato uno dei suoi migliori amici quando era più piccolo, ma era pur sempre un animale, un essere senza il dono della parola, e oltre a dargli affetto non aveva fatto altro. Sherlock dopotutto non aveva bisogno di parlare con qualcuno: poteva benissimo prendere il suo teschio antico – regalatogli da suo padre qualche anno prima – e illustrare a lui i suoi problemi. Non aveva bisogno di qualcuno che gli rispondesse, ma solo di qualcuno o qualcosa che lo ascoltasse: parlare ad alta voce era molto utile per schiarirsi le idee e a volte anche lui aveva bisogno di mettere ordine fra i suoi pensieri.

Però era piacevole la compagnia di John, qualcuno di vero e reale, tangibile, vivo; qualcuno che poteva ascoltarlo e dargli corda, incoraggiarlo e lusingarlo con complimenti.

Il ragazzo scacciò via a forza quei pensieri, rinchiudendoli in una nuova camera del suo palazzo mentale nel tentativo di isolarli. Non c’era motivo di preoccuparsi tanto per John: lui non aveva bisogno di nessuno se non di se stesso, e gli andava bene.

Varcò l’uscita dell’istituto e si diresse verso la fermata della Tube più vicina ma, non appena svoltò l’angolo, una berlina nera gli si avvicinò silenziosamente.

Inizialmente Sherlock fece finta di niente, continuando a camminare con gli occhi puntati dritti di fronte a sé, ma, quando tentò di attraversare la strada per raggiungere il marciapiede opposto, la vettura gli si parò davanti e, sconfitto, non poté fare altro che aprire la portiera e salire a bordo.

L’auto si avviò veloce lungo le vie della città, passando attraverso il traffico con assoluta semplicità, quasi come se le altre si spostassero volutamente per farla passare. Sherlock non aprì bocca, sedendo pensieroso con lo sguardo rivolto verso l’esterno, perso tra le luci della città che entrava nel pieno della sua vita notturna.

Dopo una decina di minuti giunsero finalmente a Baker Street, fermandosi con naturalezza davanti al 221B. Sherlock, che aveva imparato a memoria l’intera pianta della città, aveva già capito alla prima svolta del percorso dove si stavano dirigendo e per quello non ne fu particolarmente sorpreso.

Scese dalla macchina con una mezza idea di correre via e andare direttamente alla fermata della Tube ma poi guardò il battente del 221B e, spinto dalla curiosità, entrò nella casa. Salì i diciassette scalini che portavano al piano superiore con passo felpato e varcò l’ingresso dell’appartamento di suo fratello, entrando poi nel salotto.

Mycroft era seduto comodamente sulla sua poltrona nera con un giornale tra le mani, vestito di tutto punto come suo solito, e quando il fratello minore fece il suo ingresso non lo degnò di uno sguardo.

Sherlock non se ne curò, appoggiando invece lo zaino a terra e avvicinandosi alla poltrona rossa di fronte a quella dove sedeva il fratello. Si rannicchiò su di essa, cercando una delle posizioni in cui si sentiva comodo, e quando la trovò si rilassò, chiudendo gli occhi e lasciandosi cullare da quel calore immateriale.

«Com’è andata a scuola oggi?»

Sherlock fece una smorfia, tenendo sempre gli occhi chiusi, e rispose con un’altra domanda. «Perché sei a Baker Street?» Poté quasi immaginarsi il fratello che, alla sua uscita, portava gli occhi al cielo e si tratteneva dallo sbuffare solo per non dargli soddisfazione.

«Guardati. Se non ti avessi fatto portare qui non saresti neanche salito.»

Sherlock lasciò che un sorrisino beffardo andasse a increspargli le labbra e rimase in silenzio mentre l’altro chiudeva il giornale, lo ripiegava attentamente e lo poggiava sul tavolino tra loro. «The?» disse, prendendo in mano la sua tazza e portandola all’altezza delle labbra.

Sherlock aprì gli occhi e guardò il soffitto sopra di lui, scuotendo piano la testa. «Che cosa volevi dirmi?» Non riuscì a nascondere una nota di curiosità nella sua voce e a Mycroft non sfuggì la fugace occhiata speranzosa che il giovane gli scoccò.

Con un sospiro fissò il liquido ambrato nella tazzina e scosse la testa. «Mi piacerebbe tanto sapere cosa ti attrae di questa catapecchia…»

Il più giovane degli Holmes fece un’espressione offesa. «Non è una catapecchia… ed è-»

«…isolata dal resto della nostra famiglia, sì lo so Sherlock.» Mycroft rimase a osservare il fratello minore per qualche minuto, scandagliandolo dalla testa ai piedi alla ricerca di indizi che non faticò a trovare. «Come è andata oggi?» chiese di nuovo.

«Devi smetterla di torturare Lestrade…» fece l’altro in risposta.

Il maggiore questa volta portò veramente gli occhi al cielo e non si preoccupò neanche di nasconderlo. «Va bene, arriverò al punto. Chi è John Watson?»

«Gavin non te l’ha detto?»

«Greg…»

«Sì, lui.»

«Non mi ha saputo dire niente a riguardo.»

Sherlock sbuffò e diede le spalle all’altro, girandosi sulla poltrona e rannicchiandosi ancora di più su di essa come a cercare protezione. «È un amico.»

Mycroft dovette trattenersi dallo spalancare la bocca per lo stupore. «Che genere di amico?»

Ancora silenzio.

«Sherlock, rispondimi per favore. L’autista non può aspettare tutto il giorno.»

«Non ho nessuna fretta di tornare a casa.»

«Che genere di amico?» ripeté, calcando le parole a una a una.

Il moro aprì la bocca per parlare ma la voce gli morì in gola. Avrebbe voluto dire a Mycroft di lasciarlo in pace, che quella volta andava tutto bene e che se la poteva cavare benissimo da solo. Avrebbe voluto dirgli che John era l’unico che lo aveva apprezzato veramente in quella scuola, l’unico che aveva considerato un vero amico e l’unico che gi aveva fatto compagnia durante i suoi altrimenti solitari pomeriggi; ma non riuscì a dire niente di tutto quello, mentre tra le palpebre socchiuse gli balenò l’immagine di John in un qualche angolo nascosto della scuola a baciare una ragazza mentre lui lo aspettava al laboratorio. Una strana morsa gli strinse la bocca dello stomaco e al posto di qualche frase scocciata gli uscì solo un grugnito di disapprovazione. «Uno come gli altri. Ordinario.» disse infine.

Mycroft osservò attentamente il fratello, cogliendo il tono afflitto del ragazzo e collegandolo all’espressione triste con cui era entrato in casa – era ancora troppo piccolo per saperla nascondere alla perfezione – e inevitabilmente capì, o perlomeno gli parve di capire: per una volta non era per niente certo delle conclusioni a cui era arrivato. Possibile che Sherlock fosse veramente triste per l’aver solo nominato il nome di quel ragazzo? Possibile che, per una volta, potesse essere infelice e non scocciato e irritato? E possibile che la causa di tutto ciò fosse semplicemente un amico?

«Devo dedurne che oggi non è stata una bella giornata?»

Un altro grugnito provenne dalla poltrona e Mycroft non poté far altro che sospirare. «Lo conosci appena da un mese, hai passato con lui tutti i pomeriggi dal quel momento e ora sei infelice per qualcosa che è successo tra voi. Devo aspettarmi una qualche dichiarazione improvvisa non appena farete pace?»

Finalmente Sherlock si girò a guardarlo con aria truce. «Ora che hai dedotto tutto, cosa vuoi?»

Mycroft rimase un attimo in silenzio, all’apparenza del tutto tranquillo, in realtà piuttosto stupito. Poi si passò una mano sul volto con aria stanca e sospirò. «Dare ascolto ai propri sentimenti non è un vantaggio, Sherlock.»

Il ragazzo sbuffò e rivolse lo sguardo al soffitto. «Non me ne importa niente dei sentimenti.»

«Ti stai contraddicendo da solo.»

«Lasciami in pace.» mormorò Sherlock infine, chiudendo gli occhi e cercando di scacciare quell’improvvisa voglia di prenderlo a pugni.

Mycroft sbuffò per l’ennesima volta e con un movimento fluido si alzò dalla poltrona. «Ti ho avvisato in passato e oggi te l’ho ripetuto: se ti lascerai prendere soffrirai, inevitabilmente. È meglio che ti lasci tutto alle spalle al più presto.»

In risposta ebbe solo un grugnito infastidito.

«Non costringermi a fare una bella chiacchierata con il giovane Watson…»

Sherlock questa volta dovette stringere i pugni per trattenersi, non senza difficoltà, dal balzargli veramente addosso. Se all’inizio era entrato in casa quasi per curiosità, ora desiderava non averci mai messo piede. «Ti ho detto di lasciarmi in pace.» ringhiò.

Mycroft osservò dall’alto in basso il proprio fratello minore con una punta di tenerezza. Sapeva di non essere una tra le maggiori simpatie di Sherlock, ma proprio non gli riusciva di fargli capire che tutte le sue attenzioni erano solo dovute al fatto che si preoccupava sempre per lui, costantemente.

In passato lui e i sui genitori si erano affidati troppo al suo buonsenso e le cose erano inevitabilmente precipitate con l’avvento dell’adolescenza. Se Mycroft aveva pensato che suo fratello sarebbe stato troppo intelligente per compiere atti del genere, si era sbagliato: il giovane Holmes non era stato in grado di prendersi cura di se stesso, non aveva saputo proteggersi dal mondo esterno e aveva rischiato grosso. Era caduto una volta e, proprio quando sembrava essersi rialzato, era crollato nuovamente.

Sherlock aveva bisogno di qualcuno che si preoccupasse per lui, regolarmente, e Mycroft si era deliberatamente offerto per quell’incarico.

«Ti ricordi dell’ultima volta, vero? Non voglio ricaderci ancora…»

«Ho imparato la lezione.» sibilò a denti stretti l’altro.

Il più grande annuì e preso l’ombrello si incamminò verso l’uscita. «Ti concedo di rimanere un po’ qui, ma mamma ti vuole a casa per cena. Chiaro?»

Sherlock si rilassò sulla poltrona e assentì con uno sbuffo annoiato. Poco prima che il fratello uscisse definitivamente dall’appartamento, tuttavia, gli pose una domanda, giusto per ripagarlo della sua insistenza. «Quando hai intenzione di comunicarle che l’appartamento che ti ha regalato non ti piace? Non apprezzerà l’idea che tu te ne sia comprato un altro in pieno centro.»

Mycroft si bloccò con una mano sulla maniglia, sospirando pesantemente. Pensò a qualcosa di sensato per rispondergli, poi portò gli occhi al cielo e uscì dalla stanza senza proferire parola.

Dalla sua poltrona Sherlock sorrise divertito: era sempre un piacere stuzzicare il fratello.

~*~

«Sherlock!»

Il ragazzo interpellato si girò di scatto, riuscendo a trattenere a stento un sorriso. «John…»

Il biondo lo raggiunse con pochi passi e si appoggiò all’armadietto di fianco a quello del moro, stringendo al petto i libri della prima ora appena recuperati dal suo.

Sherlock realizzò di essere rimasto immobile per qualche secondo a fissarlo intensamente, così distolse lo sguardo, continuando ad armeggiare per cercare i libri di chimica tra quelli impilati ordinatamente all’interno del piccolo spazio. Il sorriso si affievolì sul suo volto fino a lasciare il posto a una smorfia annoiata al pensiero di ciò che era successo il giorno prima.

«Scusami per ieri, se non sono venuto. Ho… avuto alcuni problemi.»

Il moro sentì lo stomaco fargli una capriola mentre i pensieri s’ingarbugliavano l’uno sull’altro. Si girò con estrema lentezza verso di lui e lo osservò attentamente. «Che genere di problemi?»

Il ragazzo arrossì lievemente e portò una mano a grattarsi la nuca. «Ecco io… sono caduto durante l’ora di ginnastica.»

Sherlock si ritrovò a sorridere divertito all’espressione imbarazzata dell’altro, come se cadere durante una corsa fosse un errore di cui vergognarsi, e sentì il peso che aveva nel petto alleggerirsi: John non aveva avuto altri impegni, non aveva nessuna ragazza da cui andare. Si era fatto tanti problemi per nulla, non era successo niente di nuovo e il ragazzo sarebbe rimasto ancora con lui, come sempre da un po’ di tempo a quella parte.

«Quindi non hai intenz-» disse, ma non fece in tempo a finire la frase che una ragazza gli si parò di fianco.

«Penso che tu abbia sbagliato a comportarti in quel modo con Harriet.»

John si girò di scatto, sorpreso dall’improvvisa interruzione. Squadrò Clara da capo a piedi, poi aprì la bocca per rispondere ma rimase bloccato, fissando lo sguardo fiero della ragazza davanti a sé.

«Pensi che sia facile vivere in questo modo? Pensi che sia facile accettarlo?»

Sherlock chiuse l’armadietto e si accigliò, spostando lo sguardo da lei all’amico a intervalli regolari con curiosità.

John strinse le mani a pugno e si costrinse a parlare. «Possiamo… parlarne in un altro momento?» mormorò, la voce così bassa che fece fatica lui stesso a sentirsi.

«Per quale motivo?» gli occhi della ragazza si posarono sul moro al suo fianco e piegò le labbra, divertita. «Almeno ho il sostegno di qualcuno che vive nella mia stessa situazione.»

John fece un respiro profondo. «Non è perché c’è Sherlock - e tanto per la cronaca non è gay – ma perché siamo nel bel mezzo di un corridoio con tanto di studenti che ci gironzolano attorno!» esclamò.

Sherlock inarcò un sopracciglio all’affermazione del compagno e ricevette un occhiolino divertito da parte di Clara.

«Harriet è la mia ragazza e non ti permetterò di mandarla in depressione solo perché non ti va bene che lei sia lesbica.» disse poi la ragazza, abbassando il tono di voce in modo che solo i due di fronte a lei potessero sentirla.

John spalancò gli occhi. «Io non ho detto ch-»

«Ma guarda chi c’è qui

Al suono di quella voce Clara s’irrigidì, assottigliò le labbra e tenne lo sguardo fisso in quello di John. Il ragazzo, invece, portò gli occhi al cielo. «Cosa vuoi Smith?» sbuffò, tradendo tuttavia una certa agitazione.

«Il verginello e l’indecisa. Ti stai costruendo un bel gruppetto attorno a te, eh John? Cosa fate, organizzate un gay club tutti insieme?»

John sentì le mani prudergli per la voglia di prendere il compagno a cazzotti, ma prese un respiro profondo e si costrinse a pensare che era solo in cerca di attenzioni. Quando si guardò intorno il suo pensiero venne subito confermato nel vedere la piccola folla che alla provocazione di Smith si stava radunando incuriosita attorno a loro. Inoltre vide una buona parte dei suoi compagni di squadra in piedi accanto al tallonatore con un ghigno divertito sul volto, Anderson e il Rosso compresi.

«Sai… non credo che tua sorella possa entrare a farne parte. È un vero peccato, ma lei non fa più il liceo, vero?»

John si passò la lingua sulle labbra, cercando le parole più adatte per mandarlo a quel paese e andarsene di lì prima che la situazione degenerasse. «Grazie Smith, terrò a mente il tuo consiglio.»

Il sorriso del tallonatore non fece che allargarsi. Allargò le braccia e si guardò intorno con aria trionfante. «Che vi dicevo? Il nostro Johnny Boy è passato dall’altra parte!»

Il diretto interessato sentì la rabbia montargli dentro e fu solo con un enorme sforzo che riuscì a trattenersi dall’arrossire.

Intanto Clara fissava con insistenza il laccio delle proprie scarpe e Sherlock si era premuto contro l’armadietto con fare noncurante, facendo finta di leggere una pagina del suo libro e sperando con tutto se stesso che il suo amico riuscisse a tenere testa ai suoi compagni di squadra solo con le parole, evitando di sfociare in una zuffa a pochi minuti dall’inizio delle lezioni. Ma non aveva fatto conto con l’orgoglio di John, e con quanto esso poco resistesse alle provocazioni degli altri.

«E dimmi… comincerai anche tu a ubriacarti come tua sorella ora? È questo che comporta il diventare gay, forse?»

John mosse un passo in avanti di scatto, fermandosi poi poco dopo a poca distanza dall’altro. «Smettila.» soffiò tra i denti, le unghie delle dita che quasi affondavano nei palmi.

«Oppure?» ghignò l’altro in risposta.

E John non resistette più. In un attimo lo prese per il colletto della felpa e con uno slancio lo schiacciò contro la fila di armadietti di fronte.

«John!» Clara allungò una mano verso il ragazzo, terrorizzata. «John, lascia perdere

Sherlock, invece, rimase fermo sul posto con il cuore in gola.

Harry intanto rideva di gusto. «È tutto qui quello che sai fare?»

John strinse la presa sulla stoffa e lo guardò in cagnesco, sibilando tra i denti: «Finiscila ora e mi fermo, ok?»

Il sorriso sul volto del ragazzo si spense di colpo. «E chi ha detto che tu ti debba fermare?»

Tempo di neanche un secondo e Smith gli era addosso, tirando pugni alla cieca e spintonando John che, colto alla sprovvista, si ritrovò ad indietreggiare, non riuscendo a fare altro se non proteggersi come meglio poteva dai colpi dell’altro.

«John!» Clara li guardava con il terrore dipinto in volto, avvicinandosi e cercando inutilmente di richiamarli all’ordine.

Sherlock osservava la scena come da molto lontano, il cuore che gli batteva forte nel petto per la paura che John si potesse fare del male e i denti che torturavano il labbro inferiore per l’indecisione: doveva intervenire anche lui o lasciare che gli eventi facessero il loro corso? Avrebbe potuto benissimo correre via per evitare che prendessero di mira anche lui, o buttarsi nella zuffa per aiutare John. Un altro pensiero che gli passò per la mente fu quello di andare a cercare un professore che con la sua autorità avrebbe potuto calmare le acque, ma aveva anche paura che John venisse punito per la sua uscita e non voleva peggiorare la situazione. Così rimase fermo sul posto, sperando che la cosa finisse al più presto.

Clara riuscì finalmente ad afferrare John per il cappuccio della sua felpa e lo tirò indietro, rischiando di soffocarlo per lo strattone. Smith però non sembrava dell’idea di lasciarlo andare così facilmente e lo trattenne per gli orli della stessa felpa, rischiando così di lacerarla.

Intanto gli studenti che si erano riuniti intorno alla scena incitavano i due duellanti, chi stava dalla parte del tallonatore e chi da quella del mediano. Nessuno pareva dell’idea di fermarli, a parte Clara.

Non trascorsero neanche un paio di minuti che, tuttavia, giunse sul luogo il professore di letteratura inglese che, nonostante non fosse di grande corporatura, incuteva sempre un gran timore per la sua aurea di grave compostezza. Bastò un’occhiata al suo volto infuriato per far diradare la maggior parte degli spettatori e un suo “basta!” urlato a pieni polmoni per farsi sentire oltre il persistente brusio e far smettere i due ragazzi nel giro di un secondo.

John spinse via il compagno di squadra e rimase sul posto, ansimante, un livido che si stava allargando lentamente sulla sua guancia e gli abiti spiegazzati.

Sherlock tirò un sospiro di sollievo insieme con Clara che, però, approfittò dell’improvvisa calma per dileguarsi dal corridoio.

«Si può sapere che cosa diamine vi è preso?» tuonò l’insegnante. «Vi voglio entrambi nell’ufficio del preside. SUBITO.» esclamò, per poi girarsi e cominciare a camminare a passo sostenuto lungo il corridoio.

John scoccò un’occhiata a Sherlock, il quale si sentì gelare per la rabbia contenuto in esso, per poi avviarsi sulla scia del professore, sistemandosi nel frattempo i vestiti addosso con l’intento di darsi una sistemata prima di farsi vedere dal preside in persona.

Il trillo insistente della campanella coprì il chiacchiericcio degli studenti che, finito lo spettacolo, si avviarono a lezione, mentre Sherlock incrociava quasi per caso lo sguardo con quello di Mary Morstan, in piedi poco lontano da lui e con un lieve sorriso sulle labbra.

~*~

«Ed eccomi qui.»

Sherlock si girò di scatto, sorpreso, squadrando l’amico dalla testa ai piedi: un livido gli deturpava il volto, allungandosi sulla sua guancia destra e il suo sguardo era afflitto. «Cosa ci fai qui? Non hai gli allenamenti oggi?» chiese.

John sospirò e scosse la testa. «Punizione.»

Sherlock esalò un debole “oh” e annuì, pensieroso, mentre chiudeva l’armadietto dietro di sé. «Quindi vieni su al laboratorio?» chiese titubante, senza poter tuttavia fare a meno di nascondere una nota di speranza nella voce.

Il giovane Watson annuì tristemente. «Da oggi per una settimana non avrò altro da fare il martedì e il venerdì pomeriggio, quindi credo che dovrò romperti le scatole due giorni in più… a quanto pare difendere tua sorella da un attacco contro i suoi diritti omosessuali equivale ad essere allontanato dalla squadra di rugby per gli allenamenti settimanali. Frequentiamo proprio una bella scuola…» sospirò.

«Senza contare che tra gli studenti si aggira indisturbato un assassino e nessuno a parte noi e il professore di filosofia lo sa.»

John avvertì una strana morsa alla bocca dello stomaco nell’udire quelle parole. «Ci pensi ancora? A Powers?»

Sherlock portò gli occhi al cielo. «Ovvio, John. Non si abbandona nel nulla un caso se non è risolto.»

L’altro sorrise. «Beh… ma se non ci sono abbastanza prove per incolpare qualcuno come si può concluderlo? Non sappiamo nemmeno chi è… potrebbe essere chiunque.»

Sherlock arricciò il naso. «Prima o poi tornerà allo scoperto. Un genio del genere non se ne va semplicemente così, di punto in bianco.»

«Genio?» mormorò John stupito.

Tuttavia Sherlock aveva cominciato a camminare borbottando tra sé e sé e non lo ascoltò. Stringendosi nelle spalle il ragazzo lo seguì, diretto verso il laboratorio.

«E poi non riesco ancora a capire quale possa essere stato il movente. Perché avrebbe dovuto uccidere Powers? Sicuramente per qualche ragione di suo interesse personale. Che Carl avesse scoperto qualcosa su di lui? Sarebbe il modo migliore per farlo tacere: ucciderlo.»

Girarono l’angolo.

John sembrava leggermente scosso dalla totale indifferenza dell’amico mentre parlava. «Ma… voglio dire, siamo… siamo solo ragazzi. Credi veramente che qualcuno di noi potrebbe fare qualcosa del genere?»

«Beh, o noi o un professor-» Sherlock si bloccò di colpo in mezzo al corridoio. «Noi siamo sempre al laboratorio di pomeriggio!» esclamò.

John si accigliò, fermandosi anche lui dietro all’amico. «Sì…?»

Le labbra del moro si stesero lentamente in un sorriso, mentre il volto si apriva in un ghigno consapevole. «E quando usciamo non passiamo mai dal mio armadietto…»

John aprì la bocca per parlare ma in quel momento Mary comparve dall’angolo opposto e, vedendolo, gli sorrise raggiante, così che John si dimenticò di quello che voleva dire. La ragazza avanzò lungo il corridoio nella loro direzione.

«Dio, che stupido!» Sherlock portò gli occhi al cielo e si batté una mano sulla fronte. «Stupido, stupido, stupido!» esclamò tra sé e sé, girando su se stesso e tornando sui propri passi.

«Ciao John!»

«Mary…» Il ragazzo sorrise alla biondina che in pochi passi lo aveva raggiunto. «Come… come mai da queste parti?» Girò di poco la testa in direzione di Sherlock per vedere cosa stava facendo ma, vedendolo allontanarsi, decise di abbandonarlo un attimo e dedicò la propria attenzione alla ragazza che sembrava sul punto di dire qualcosa.

Solo per qualche secondo.

«Mi stavo chiedendo…» iniziò, guadagnandosi l’assoluta attenzione dell’altro.

Sherlock intanto si avvicinò al muro d’angolo, affacciandosi lentamente sul corridoio dove si trovava il suo armadietto.

«Se… ecco, insomma…» La ragazza sembrava leggermente imbarazzata e dovette distogliere lo sguardo per puntarlo sulla punta delle sue scarpe. «…se ti andasse di uscire, un giorno di questi.»

John riuscì a trattenersi dal spalancare le labbra per lo stupore. Un leggero colorito rossastro andò ad imporporargli le guance mentre, all’improvviso dimentico di qualunque cosa al di fuori di Mary, annuiva velocemente, anche se non aveva ancora del tutto elaborato l’informazione.

Sherlock si staccò dall’angolo e camminò deliberatamente nel corridoio, diretto verso il punto da cui era partito neanche cinque minuti prima.

Lì per terra, esattamente sotto il suo armadietto, impiastricciato per l’ennesima volta in un solo mese, giaceva abbandonata una bomboletta spray di colore giallo acceso.

«Eccoti qui…» mormorò sottovoce, e chinatosi, afferrò delicatamente l’oggetto. «…ti ho trovato.»

 

 

 

 

Note: (o forse è meglio chiamarle curiosità?)

Non so se l’avete notato ma in questo capitolo John continua a ripetere che Sherlock non è gay. Mi sono divertita a rigirare la famosa frase “I’m not gay xD

Per quanto riguarda l’incontro tra i due fratelli Holmes a Baker Street, invece, ho voluto far accomodare il nostro Sherlock nella poltrona di John perché mi sembrava carino associarla a John stesso: Sherlock si rifugia nella poltrona rossa, nel suo “caldo abbraccio”.

Mi scuso per l’eventuale OOC, ma insomma… non sono propriamente i John e Sherlock che conosciamo. Ricordiamoci che hanno una ventina di anni in meno ;)

   
 
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