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Autore: _juliet    05/03/2014    7 recensioni
«Perché mio padre non mi ama, Boromir?»
La prima volta che gli aveva rivolto quella domanda, Faramir aveva sei anni.

{pre!La Compagnia dell'Anello | Boromir/Faramir brotherhood}
Seconda classificata al Frasette Ganze Contest indetto da Princess L sul forum di EFP.
Genere: Angst, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Boromir, Denethor, Faramir
Note: Missing Moments, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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Frase: "La legge è uguale per tutti. Con le dovute eccezioni, s'intende"  |  il contest qui.


 

The most loving parents commit murder with smiles on their faces


 

And you, my father, there on the sad height,
Curse, bless me now with your fierce tears, I pray.
Dylan Thomas

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Boromir gettò la testa all'indietro, godendosi il vento freddo che gli scompigliava i capelli e faceva ondeggiare il suo mantello. Come ogni mattina aveva terminato la ronda nei Cerchi ed ora percorreva le strade ripide che l'avrebbero portato, dopo una lunga salita, alla Cittadella.
Nella sua giovane vita non aveva avuto occasione di visitare molte altre città, ma era certo che nessuna fosse come Minas Tirith: la sua città, il suo orgoglio. La fortezza era stata edificata alle pendici del monte Mindolluin, su sette diversi livelli, simili a sporgenze modellate nella roccia viva; ognuno di essi era circondato da bianche mura, chiuse da sette cancelli non allineati. Al centro della struttura, come fosse una chiglia di nave, una enorme sporgenza di pietra spaccava in due la città.
Il giovane rallentò l'andatura e osservò l'architettura della città, ammirando l'ampiezza degli archi e le articolate decorazioni che ricoprivano gli edifici. Quella struttura possente era stata concepita e costruita con l'unico scopo della difesa; eppure era tanto fine e bella. Boromir sfiorò il muro di pietra bianca, indugiando con la mano sulle lastre, come se potesse assorbirne l'energia e la memoria; parlavano di festa e di canti, di sangue e di onore. Parlavano della forza di una città e del suo popolo che, coinvolti in innumerevoli battaglie, non erano mai stati piegati.
Dopo una breve sosta al Quinto Cerchio, per rendere omaggio alle tombe degli antichi re di Gondor, il giovane iniziò la salita verso la Cittadella. Al suo passaggio i cittadini interrompevano le loro occupazioni e si affacciavano all'uscio di case e botteghe, per salutarlo e offrirgli lodi e doni. Lui ricambiava, ogni volta, con un cenno della testa e un sorriso. Era molto amato dal popolo di Minas Tirith. E non poteva essere altrimenti, si disse, con un moto di orgoglio: era il figlio primogenito di Denethor II, ventiseiesimo sovrintendente e, in quanto tale, era il Capitano della Torre Bianca. Aveva la responsabilità di difendere la città e aveva già avuto modo di onorarla e di dimostrare il suo valore in diverse battaglie.
Qualcosa stava cambiando, al di là del fiume. L'Ombra stava riacquistando forza e audacia, osava attraversare i confini delle terre desolate in cui era stata confinata, arrivando a spingersi fino a Osgiliath. Boromir avvertì una feroce collera nascere in lui, insieme alla consapevolezza che quella città, un tempo capitale del regno, era caduta nelle mani di miserabili creature. Il male che si stava destando ad est lo preoccupava e lo riempiva di orrore, come il pensiero che nessuno accorresse in aiuto di Gondor. Da troppo tempo Minas Tirith si ergeva, possente e bellissima, ma completamente sola, di fronte all'oscurità di Mordor.
Ma quel giorno non era per lui o per i suoi timori, pensò, mentre risaliva verso l'Alta Corte. Quel giorno gli occhi di tutti dovevano guardare qualcun altro. 
Il suo primo ricordo, il primo che era sicuro fosse reale e non indotto dai racconti di altri, riguardava la nascita di suo fratello. Boromir allora aveva cinque anni e non possedeva le capacità per comprendere la situazione, ma aveva intuito che la madre era affaticata, aveva bisogno di riposare; il padre era rimasto con lei, nella Bianca Torre, finché non si era addormentata. Lui era stato accompagnato nella sua stanza e aveva giocato a lungo con una piccola spada di legno e altri giocattoli ma, alla fine, la curiosità aveva prevalso, ed era andato in cerca della nutrice.
L'aveva trovata intenta a cullare fra le braccia quello che sembrava solo un fagotto di stoffa. Era stato invitato ad avvicinarsi e, con grande sorpresa, aveva scoperto che in quei drappi era avvolta la creatura più piccola che avesse mai visto, con la pelle arrossata e grinzosa, e grandi occhi di un grigio pallido. Gli era stato spiegato che quello era suo fratello e il nome che era stato scelto per lui era Faramir.
Era così piccolo, così indifeso. Boromir aveva ripetuto più volte quel nome nella mente e aveva trascorso l'intera giornata con il neonato, incantato dai suoi sbadigli, dagli occhi attenti, da quelle mani minuscole che, ogni tanto, stringevano le sue dita. Avere un fratello minore l'aveva fatto sentire grande e, in quel frangente, aveva giurato a se stesso che sarebbe sempre stato al suo fianco, l'avrebbe sempre sostenuto e protetto. Certo, allora non avrebbe mai immaginato da chi avrebbe dovuto proteggerlo di più.
Denethor non era più stato lo stesso da quando Finduilas era morta. Avevano molti anni di differenza, ma lui l'aveva amata, a modo suo, più di chiunque altro. La sua morte, cinque anni dopo la nascita di Faramir, l'aveva gettato in una profonda disperazione da cui non si era mai liberato. Era divenuto cupo e silenzioso; aveva iniziato a rinchiudersi all'interno della Torre, ignorando quasi completamente l'amministrazione della città. Era in quello stesso periodo, rifletté Boromir, che il trattamento che riservava ai due figli era cambiato.
Il sovrintendente aveva iniziato a favorirlo spiccatamente, lodando ogni suo successo fino all'esagerazione e affidandogli incarichi sempre più gratificanti. Faramir, al contrario, era costantemente paragonato al fratello maggiore e messo alla prova; veniva ignorato in caso di riuscita o umiliato in caso di fallimento; ogni suo errore era ingigantito e gli veniva continuamente rinfacciato.
Boromir non comprendeva quel comportamento: erano tanto diversi che paragonarli gli sembrava impossibile e stupido. Lui era un guerriero più esperto e audace; gli piaceva allenare i propri muscoli fino allo stremo e preferiva ad ogni cosa la soddisfazione di atterrare un avversario, sia che fosse un nemico, sia che fosse un compagno d'allenamento. Faramir era più riflessivo; anche se si interessava più alle grandi storie che ai combattimenti, aveva dato prova del suo valore in molte battaglie. Spesso era stato il suo consiglio a salvarli entrambi da morte certa. La sua natura gentile veniva interpretata da molti come debolezza, ma Boromir pensava che fosse una forza diversa. Era convinto che in tutta Gondor non esistesse un combattente più valoroso del suo fratellino. E quel giorno, finalmente, anche Denethor avrebbe dovuto riconoscerlo.
Il giovane Capitano raggiunse il Settimo Cerchio e si fece largo tra la folla che si era radunata; voleva essere in prima fila a godersi lo spettacolo. Era il ventesimo compleanno di Faramir e, come stabilito dalla legge, avrebbe dovuto provare le sue capacità di fronte al sovrintendente e alla nobiltà, per poi entrare a far parte dei Raminghi dell'Ithilien. In quanto discendente degli antichi númenóreani, quel titolo gli spettava di diritto; la cerimonia non sarebbe stata altro che una formalità. Il padre sarebbe stato obbligato a mostrargli approvazione e questa, anche se non spontanea, era ciò che Faramir meritava.
Boromir sorrise vedendo il fratello fasciato nell'uniforme nera, con l'Albero Bianco ricamato sul petto. La prova era già iniziata: in primo luogo avrebbe dimostrato la sua bravura nell'uso di arco e frecce. Venti bersagli erano stati posizionati per lui, ciascuno gradualmente a una distanza maggiore dal precedente. Faramir si ergeva immobile nel vento freddo, brandendo l'arma che aveva costruito da solo per l'occasione. L'aveva ricavata da un unico listello di tasso, lungo all'incirca quanto l'apertura delle sue braccia; aveva poi lavorato e levigato il legno fino ad ottenere i bracci e, dopo aver rinforzato i puntali in corno, aveva costruito la corda, intrecciando tre fili di canapa e budello di pecora. 
La sua mano sinistra stringeva l'impugnatura, mentre la destra tendeva, senza fretta, e scoccava. Nonostante le folate impetuose, pochi dardi si conficcarono lontani dal centro di ogni bersaglio.
Gli occhi di Denethor erano puntati sul suo secondogenito, ma sembravano assenti, come se la scena che si stava svolgendo di fronte a lui non meritasse del tutto la sua attenzione. La nobiltà, invece, seguiva la prova di Faramir con discreto interesse; ad ogni freccia scagliata, la folla esplodeva in rumorose grida di incitamento e Boromir esultava con loro. In quel momento il suo comportamento poco si confaceva al Capitano della Bianca Torre, ma non gli importava. 
Una volta centrati tutti i bersagli, Faramir avrebbe dovuto affrontare alcuni avversari nel combattimento con spada. I suoi contendenti erano tutti membri della guardia cittadina, uomini che lo conoscevano e lo stimavano, alcuni erano addirittura suoi coetanei ed erano cresciuti con lui; ma non vi sarebbe stato alcun trattamento di favore. 
Tre di loro avanzarono verso di lui, uno al centro, gli altri due dai lati. Faramir si arrestò e li attese, prendendo un respiro profondo mentre valutava la situazione. Il primo avversario aveva una spada lunga da cavaliere, gli altri dei gladi corti e robusti, adatti al combattimento corpo a corpo.
L'uomo con la spada tentò di distrarlo per permettere ai compagni di avvicinarsi, ma Faramir lo aspettava; lo fronteggiò, spostando il peso del corpo all'indietro e molleggiando sulle gambe. Quando l'uomo tentò un affondo, il giovane lo evitò, girando su se stesso, e lo colpì di piatto sulla schiena. Fece un passo e si lasciò cadere sulle ginocchia, mentre nella sua mano sinistra compariva un pugnale dalla lama larga; brandendo due armi, Faramir falciò le gambe dell'avversario più vicino, facendolo stramazzare al suolo con un grugnito.
Il giovane avvertì la presenza di qualcuno dietro di sé. Ebbe appena il tempo di lasciar cadere il pugnale, quando una lama calò su di lui, scontrandosi contro la sua spada, senza riuscire a colpirlo. Mantenendosi in posizione di guardia, raccolse le energie, resistendo all'attacco del terzo soldato. L'uomo era forte, ma Faramir era più giovane e agile; inspirò profondamente e allontanò l'avversario con uno spintone, sbilanciandolo. In un secondo, gli fu addosso e lo calciò all'altezza dell'addome. 
Quando anche l'ultimo contendente fu atterrato, tra le grida di giubilo della folla, il giovane lo aiutò ad alzarsi da terra ed entrambi scoppiarono a ridere, scambiandosi pacche sulle spalle.
Boromir non riuscì a resistere al clima di eccitazione generale e li raggiunse di corsa, abbracciando il fratello e scompigliandogli i capelli. «Sei stato bravo, fratellino!» esclamò, al colmo della felicità.
Faramir ricambiò il sorriso, ma la sua espressione si fece seria quando voltò il viso verso il sovrintendente. Con un movimento nervoso, ripulì la sua uniforme dalla polvere e raddrizzò le spalle, in attesa del giudizio di suo padre.
Denethor tamburellò con le dita sul bracciolo della sua sedia di pietra nera e disadorna, con l'aria di qualcuno che avrebbe preferito trovarsi ovunque, piuttosto che in quel luogo. I suoi occhi scrutarono a lungo la folla, prima di fissarsi su Boromir, che stava ancora abbracciando il fratello.
Il maggiore sorrise, sperando di incoraggiare il padre a dare il sospirato annuncio, perché lui e Faramir potessero rinchiudersi in una taverna a festeggiare con un boccale di birra scura.
«Hai agito bene fin qui. Il tuo ultimo avversario sarà il Capitano della Bianca Torre» comandò il sovrintendente. Aveva parlato con un tono secco e terrificante. Le sue parole risuonarono nella Cittadella e la folla si agitò, percorsa da un brusio di sgomento.
«Padre!» protestò Boromir, sbalordito. Cercò con lo sguardo il fratello, che lo ricambiò con altrettanto stupore.
Denethor si accasciò contro lo schienale della sedia nera, espirando profondamente. «Vi ho ordinato di confrontarvi» ripeté, come se pronunciare quelle parole costituisse per lui uno sforzo non ignorabile. «E lo farete.» 
Il maggiore era deciso ad opporsi: Faramir aveva ampiamente dato prova della sua bravura e delle sue capacità; inoltre fare parte dei Raminghi dell'Ithilien gli spettava di diritto, in quanto erede di Númenor. Non aveva bisogno di dimostrare nient'altro. Vederli duellare era un capriccio di Denethor e, con tutta probabilità, solo un nuovo espediente per ferire ed umiliare il suo secondogenito. Boromir stava per voltare le spalle alla folla, quando si rese conto che Faramir aveva estratto la spada dal fodero, palesando la sua volontà di battersi.
Boromir sentì la collera nascere dentro di sé. Suo fratello era perfettamente consapevole che non avrebbe mai potuto avere ragione di lui in uno scontro corpo a corpo; sicuramente sapeva anche che il padre non aspettava altro che un'occasione per criticarlo. Nonostante questo, era così desideroso di ottenere un riconoscimento, un minimo segno di approvazione, che sembrava non gli importasse quante volte sarebbe stato mortificato e sminuito. Amava il padre di un amore viscerale e disperato; avrebbe fatto qualunque cosa perché gli sorridesse e lo chiamasse "figlio". Boromir lo sapeva e ne era terrorizzato: temeva che, a lungo andare, Denethor avrebbe finito per distruggere Faramir, gli avrebbe ghermito il cuore e l'avrebbe fatto morire. Sentiva il bisogno di salvare il fratello minore dalla legge che il padre rappresentava e dettava; una legge che, a volte, pareva bestiale. Ma non aveva alcun potere di aiutarlo, se era lui stesso a non voler essere aiutato.
In un primo momento aveva pensato di combattere svogliatamente, ma sapeva di non poter ingannare nessuno. Senza contare che, se l'avesse fatto, il fratello non gliel'avrebbe mai perdonato. Inoltre lui era Boromir, primogenito del ventiseiesimo sovrintendente di Gondor e Capitano della Bianca Torre; non avrebbe mai rifiutato una sfida a duello.
Estrasse a sua volta la spada e, usando il tono di voce severo che adottava nel comando, dichiarò: «Se non mi attacchi tu, lo farò io.»
Faramir tentò un affondo di spada, ma fendette solo l'aria. Boromir allontanò la lama, colpendola con la piastra che ricopriva il suo avambraccio, e sbalzò il fratello all'indietro con una gomitata. Farmir si spazientì in fretta e si lanciò contro di lui, brandendo la spada a due mani; ma tanto bastò a Boromir per intravedere un'apertura nelle sue difese e colpirlo di piatto sul lato del ginocchio. Dopo il colpo, inspirò profondamente e si abbassò di scatto, evitando il fendente a lui destinato. Faramir si era sbilanciato troppo ed era instabile; Boromir ne approfittò, spingendolo violentemente, e lo fece cadere a terra. 
Il minore non poteva vincere. Era stanco e meno esperto; inoltre era fin troppo consapevole di essere osservato dalla folla e giudicato da suo padre. Anche lui doveva averlo capito, infatti non tentò di rialzarsi; si limitò ad asciugare il rivolo di sangue che gli sporcava il mento, fissando ostinatamente la pavimentazione di pietra chiara. Le sue spalle, ingobbite, sembravano eccessivamente fragili; i pugni, tanto stretti che le nocche erano sbiancate, tremavano, rivelando il suo tumulto interiore.
Boromir avvertì distintamente l'adrenalina abbandonarlo e lasciare posto al senso di colpa: come aveva potuto? Perché non si era opposto con più convinzione alla volontà del padre?
«Faramir-» cominciò, ma non era sicuro di sapere cosa dire. Si chiese come avesse potuto accettare di battersi con il proprio fratello. E nel giorno del suo ventesimo compleanno, per di più. Quello giornata doveva essere dedicata a Faramir, alla sua bravura e al suo coraggio. Invece era lui, Boromir, a essere applaudito per la sua prova.
Il giovane Capitano ebbe un moto di nausea verso se stesso: era stato strumento attivo dell'umiliazione di suo fratello. «Faramir, io-» 
«Disarmalo» intervenne Denethor, freddamente, gli occhi grigi e penetranti puntati sul figlio inginocchiato.
Le spalle del giovane sussultarono sotto quello sguardo.
«Padre» scongiurò Boromir. «Ti prego.» 
«Disarmalo, figlio mio» ripeté il sovrintendente, enfatizzando le parole, come se la progenie che i Valar gli avevano donato constasse di un unico individuo.
Il Capitano della Bianca Torre si erse in tutta la sua statura e rinfoderò la spada, con un gesto deciso. «Prima che ci comandassi di combattere, Faramir ha centrato tutti i bersagli e ha sconfitto tutti gli avversari. Oggi ho vinto io, ma non sarei qui se lui non mi avesse salvato la vita. Tu lo sai bene» disse, costringendo il fratello ad alzarsi in piedi e sorreggendolo di fronte alla folla. «Sono vent'anni che ti dà prova del suo coraggio e della sua lealtà. La legge-» 
«La legge è uguale per tutti» lo interruppe il sovrintendente, con aria annoiata. I suoi occhi si posarono sul secondogenito, scrutandolo a lungo. Infine, Denethor distolse lo sguardo, come se ciò che vedeva fosse qualcosa di inopportuno, sbagliato. «Con le dovute eccezioni, si intende.»
Si alzò dallo scranno, l'ampia veste scura che svolazzava nel vento. «Non sei pronto e non lo sarai mai. Non sarai mai all'altezza di tuo fratello.» 
Non l'aveva chiamato per nome, ma chiunque era in grado di capire a chi si stesse rivolgendo. Senza degnare il mondo di una seconda occhiata, il sovrintendente voltò loro le spalle e si avviò verso la Torre.
«Padre!» esclamò Boromir, con rabbia. Il suo braccio fu più rapido del suo buon senso, ed estrasse la spada dal fodero. «Non ti permetterò di trattarlo così!»
La mano di Faramir si posò sulla sua in modo gentile, ma fermo. «No, fratello» disse, evitando di incrociare il suo sguardo. «Nostro padre ha ragione.»
Il maggiore guardò il portone della Bianca Torre chiudersi. La sua gola era tanto gonfia di indignazione da fargli male. «No, non ha ragione! E non avrebbe dovuto parlarti così» ringhiò. Lanciò la spada, che scivolò sulle lastre di pietra, producendo uno stridore metallico da dare i brividi. Cercò di calmarsi respirando profondamente, mentre si domandava con chi fosse tanto arrabbiato; se con il padre o con se stesso.
«Stai bene?» chiese, ma non ottenne risposta. Quando si voltò verso il fratello, scoprì che si stava allontanando a grandi passi. Si era slacciato il cinturone e aveva lasciato cadere a terra le sue armi, per poi fare lo stesso con il mantello dell'uniforme, i guanti e l'anello di famiglia.
Boromir si affrettò a raccogliere quanto poteva e lo seguì. «Faramir!» chiamò, ma il minore lo ignorò ed entrò nell'Alta Corte. 
Lo raggiunse nel lungo corridoio su cui si affacciava la sala del trono. Sedeva compostamente su una panca di pietra, le mani in grembo e lo sguardo perso nel vuoto. I suoi capelli erano scompigliati ed attaccati alla fronte dal sudore, l'uniforme portava le tracce dei duelli cui aveva partecipato. Boromir si avvicinò lentamente, desiderando di poter capire dal linguaggio del corpo quale fosse il suo umore; ma Faramir, al contrario di lui, era sempre stato molto bravo a nascondere ciò che provava.
Quando lo udì arrivare, voltò il viso verso di lui e gli sorrise, senza dire nulla. 
«Stai bene?» chiese il maggiore, cauto.
Il sorriso di Faramir non vacillò, neanche quando iniziò a scuotere la testa e i suoi occhi si riempirono di lacrime. Boromir riuscì a percepire il senso di colpa trafiggergli il cuore, mentre il suo cervello gli riproponeva ricordi vividi di tutte le volte che aveva difeso il fratello dal padre; quando aveva impedito che lo picchiasse, quando si era preso la responsabilità di qualcosa al suo posto, quando era stato solo lui ad augurare un buon compleanno. Tutto sembrava passare in secondo piano, di fronte a ciò che aveva fatto quel giorno: era stato uno strumento dell'umiliazione di Faramir nelle mani del loro padre. «È stata colpa mia, mi dispiace» mormorò. 
Il minore scosse la testa e lo guardò, in silenzio. Sembrava riflettere su qualcosa, come se non fosse sicuro se parlargli o meno. Inclinò la testa all'indietro, guardando il soffitto, e sorrise. Infine, riportò gli occhi sul suo interlocutore e, mentre scrollava le spalle, come se fosse la cosa più ovvia al mondo, chiese: «Perché mio padre non mi ama, Boromir?»
La prima volta che gli aveva rivolto quella domanda, Faramir aveva sei anni. Quella notte c'era stato un forte temporale, e lui si era rifugiato in camera del fratello maggiore, in cerca di affetto e sicurezza. Boromir l'aveva accolto nel suo letto e egli aveva sussurrato parole di conforto. La mattina dopo, Denethor si era fatto spiegare il problema, aveva trascinato Faramir in cima alla Bianca Torre, l'aveva sollevato e aveva lasciato che i suoi piedi penzolassero nel vuoto. L'aveva fatto per insegnargli cosa fosse la vera paura.
Il petto di Boromir si gonfiò di dolore, quando si rese conto che il tono di voce del fratello era lo stesso di molti anni prima: triste, spezzato, certo di quanto stava affermando. Sospirò, alla ricerca di parole di conforto che non avesse già usato. 
«Lui ti vuole bene, fratellino. È solo che-» ma si interruppe. In tutti quegli anni, si era fatto un'idea del motivo per cui Denethor distoglieva lo sguardo ogni volta che i suoi occhi si posavano sul secondogenito. 
Quando era morta, Faramir era molto piccolo; probabilmente non aveva memoria di lei. Boromir, invece, ricordava benissimo. E, ogni giorno, rivedeva lei in suo fratello. Avevano lo stesso modo di inclinare la testa di lato mentre ascoltavano qualcuno parlare; avevano la stessa risata fievole e controllata; avevano quel grigio negli occhi, che sembravano malati della stessa infelicità; una malattia che li rendeva belli in modo tragico, inarrivabili. Entrambi davano l'impressione di non essere del tutto parte di quel mondo; potevano essere guardati da lontano, ma non si potevano toccare.
Boromir sospirò, chiedendosi se fosse il caso di dar voce a quelle illazioni, o se dovesse tenerle per sé. Prese posto accanto a Faramir e rifletté a lungo. 
«Ti vuole bene» dichiarò infine. 
Faramir inarcò un sopracciglio, ma non commentò.
«E te ne vuole più di quanto lui stesso creda» aggiunse il maggiore, dandogli una pacca sulla spalla. «È un uomo grezzo e rigido e il suo cuore si è indurito da quando nostra madre è morta... ma ti vuole bene. Fa solo fatica a dimostrarlo. Deve imparare di nuovo ad amare. Ci vorrà tempo e anche molta pazienza... ma vedrai, con il tempo migliorerà.»
"Nel frattempo ti proteggerò io, fratellino", giurò a se stesso, "ad ogni costo."


 

***



Faramir sussultò, riemergendo dalle sue memorie. Per qualche momento si era concesso di sfuggire alla realtà e di lasciarsi cullare dal quel ricordo di suo fratello, così lontano e prezioso.
«Cosa vuoi che faccia?» chiese, senza guardare il padre.
«Osgiliath va riconquistata.»
«Mio signore, Osgiliath è persa-» cominciò.
«Molto deve essere rischiato in guerra» ribatté Denethor, in un sibilo. Si guardò intorno, scrutando la sala vuota con occhi annoiati, per poi tornare a fissare la sua attenzione su Faramir. «C'è un capitano che abbia ancora il coraggio di eseguire la volontà del suo signore?» chiese, regalandogli un sorriso canzonatorio.
Il disprezzo nella sua voce non lo ferì; dopo tutto, i ricordi che aveva di suo padre sembravano ridursi unicamente a quello spregio che non perdeva occasione di dimostrargli. Perché lui non era Boromir; non importava quanto potesse diventare forte, quanti trionfi riportasse in battaglia, o se obbedisse o meno al suo signore. Non sarebbe mai stato all'altezza.
Faramir sorrise fra sé e sé, domandandosi se la sua morte avrebbe finalmente regalato a Denethor la felicità che sembrava aver perduto da tempo.
«Vorresti che i nostri posti fossero stati scambiati, mio signore?» chiese, cercando di mantenere un'espressione neutra. Nel profondo del suo cuore, sapeva di conoscere già la risposta a quella domanda, ma voleva che glielo dicesse; voleva sentirlo pronunciare quelle parole ad alta voce. «Vorresti che io fossi morto e che Boromir vivesse?»
Gli occhi di suo padre erano puntati su di lui, ma lo attraversavano, guardandolo come se non fosse visibile, come se non fosse abbastanza consistente per essere percepito. Negli ultimi giorni, quegli occhi erano sempre imbambolati e inespressivi ma, in quel momento, una scintilla li illuminò. La prima volta che Denethor mostrava nei suoi confronti qualcosa di diverso dal disprezzo, si trattava di rimorso; rimorso per aver mandato Boromir a Gran Burrone, condannandolo a morte. La voce del sovrintendente era stanca, ma ferma, quando rispose: «Sì, vorrei questo.»
Faramir non reagì, ignorando i sentimenti violenti che stavano implodendo in lui. Il torrente delle sue emozioni scorreva velocissimo; ovattava i suoi pensieri e si raccoglieva nel petto, annodando strettamente le sue viscere, impedendogli di respirare. Tentò di inspirare, per raccogliere aria, ma i polmoni non collaborarono. Gli piaceva pensare di essere diventato insensibile al comportamento del sovrintendente, ma ciò che desiderava in quel momento era sparire, perdersi in modo che nessuno potesse trovarlo.
Lui per primo avrebbe dato qualunque cosa, perché Boromir fosse ancora vivo; aveva trascorso lunghe notti insonni a pregare i Valar di reclamare la sua vita in cambio di quella del fratello. Avrebbe voluto ricordare al padre chi aveva insistito perché fosse il primogenito a partire, avrebbe voluto vederlo strisciare. Ma sapeva che, proprio come lui, Denethor era sconvolto dal dolore della perdita che aveva subito.
Faramir amava suo padre e vederlo così, in pezzi, come l'ombra dell'uomo che era stato, gli risultava insopportabile. Se davvero morire era l'unica cosa che potesse fare, gli avrebbe offerto la sua vita. Ingoiò le lacrime e, chinando leggermente il capo, disse: «Sei stato derubato di Boromir. Io farò quello che posso in sua vece.» 
Voltò le spalle alla sedia di pietra nera e disadorna, avviandosi verso l'enorme porta della sala del trono. Ma, sulla soglia, tornò a rivolgere lo sguardo a Denethor, aggiungendo: «Se dovessi tornare, abbi una migliore opinione di me, padre.»
Aprì la porta ed uscì, ma non abbastanza in fretta da evitare di udire la risposta del sovrintendente: «Questo dipenderà dal modo in cui tornerai.»
Senza osare fermarsi, il giovane misurò il pavimento a grandi passi, i pugni tanto stretti che sentiva le unghie conficcarsi nella carne del palmo. Quando ritenne di essersi sufficientemente calmato, sedette su una delle panche di pietra, osservando il riverbero delle torce riflettersi nelle pareti di marmo bianco.
In quello stesso corridoio, Boromir l'aveva rincorso, il giorno del suo ventesimo compleanno, e l'aveva consolato per l'umiliazione subita. Faramir ricordava che, il giorno dopo, il padre l'aveva convocato e gli aveva concesso di diventare Ramingo dell'Ithilien. Ne era stato felice, anche se sospettava che l'avesse fatto solo per allontanarlo dalla propria vista.
Con un profondo sospiro, inclinò la testa all'indietro e appoggiò la nuca alla parete. Chiuse gli occhi, abbandonandosi alla sterile speranza che lo spirito di suo fratello potesse giungere in suo aiuto anche in quel momento; che gli assicurasse che il sovrintendente non era impazzito; che gli dicesse che suo padre non desiderava davvero che lui morisse, che si trattava solo di una mancanza di tatto, dell'incapacità di dimostrare il proprio affetto. 
Per la seconda volta in pochi minuti, Faramir si ritrovò a sorridere amaramente. Le parole di Boromir si disgregarono, di fronte alla banalità della verità.
«No, fratello mio» sussurrò al corridoio deserto. «È solo che io non sono te. Io non sono te


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NdA: Erano secoli che desideravo scrivere qualcosa su questa famiglia così complicata. Finalmente, la ganzissima frase di Princess L mi ha dato la botta di ispirazione per farlo C:
Alcune considerazioni:
1. Le informazioni sulla vita dei personaggi sono state reperite nelle meravigliose Appendici, anche se è abbastanza chiaro che mi sono inventata di sana pianta più o meno tutto. Se qualcuno non l'avesse capito, la parte finale della storia si ispira invece a una scena del film “Il Ritorno del Re”;
2. Il verso all'inizio della storia appartiene alla poesia “Do not go gentle into that good night”;
3. Il titolo invece è estrapolato da un'intervista a Jim Morrison. Se qualcuno fosse interessato a leggere l'intervista, la può trovare qui.

  
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