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Autore: 1984    05/03/2014    1 recensioni
Dal testo:
''Avvertì un orribile formicolio dietro la nuca, si voltò e si accorse con orrore che Andrea non era più accanto a lei. Il cielo era sempre più scuro e le onde che prima erano basse e calme si stavano pian piano alzando. Il vento soffiava, le onde crescevano e Edith tremava. Non riusciva ad alzarsi e gli scogli erano ormai diventati scivolosi a causa dell’infrangersi delle onde: urlò, ma non c’era nessuno disposta ad ascoltarla. Cielo e mare si unirono in un orribile colore blu notte, non c’erano stelle, non c’era luna. C’era solo lei che tremava avvolta nell’asciugamano. Le rocce vennero inghiottite dall’oscurità e, quando si accorse che quell’oscurità non era naturale e che la parte di scoglio inghiottito era scomparsa, era ormai troppo tardi''
Genere: Drammatico, Sentimentale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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10. 
 


Bee-Beep. 
Bee-Beep. 
Bee-Beep.
Che cosa è successo?, pensò Edith socchiudendo gli occhi.
Bee-Beep 
E cos'è questo rumore?, spalancò gli occhi. Era sdraiata supina e tutto quel che potè vedere fu una parete bianca. Richiuse gli occhi. C’era odore di disinfettante, era un luogo abbastanza silenzioso.  E’ un Ospedale, pensò. Ma certo, sono in ospedale. Ma perché, poi? Ho... ho solo lasciato l'università. Un attimo! La moto, il ragazzo con i capelli rossi... ha avuto un incidente. Ha sterzato con la moto per non investirmi. Appunto, lui. Non io. E poi zia Alicia sorrideva... cosa c'entra ora zia Alicia? 
Riaprì gli occhi ancora una volta.
«Edith!».
Qualcuno con una voce familiare aveva appena urlato il suo nome. Spostò la testa verso la fonte da dove era arrivata la voce e trovò sua madre seduta su una poltrona bianca, il viso bianco quasi quanto la poltrona, le mani giunte e gli occhi inondati di lacrime. «Mamma... mamma ma stai piangendo?», le chiese. Faceva fatica a parlare, la bocca era stranamente impastata e un forte mal di testa stava sopraggiungendo.
«Oh, Edith», disse sua madre scoppiando ora a ridere e ora a piangere dalla felicità. Edith la trovò quasi buffa con tutte quelle lacrime e il sorriso sulle labbra. «ieri, dopo che sei svenuta, non riuscivi a ricordarti nulla... dicono che hai avuto un crollo nervoso... ma ora... ti ricordi chi sono... devo subito chiamare il dottore! Tu resta qui, mi raccomando», e sparì chiudendo la porta.
Edith ruotò gli occhi, ricordandosi delle fastidiose flebo attaccate al braccio, poi sorrise.
 
Il sorriso le morì sulle labbra appena vide entrare un dottore sulla cinquantina, dall'aria calma ma profondamente assorta. Sua madre aveva le guance arrossate.
Edith rispose ad alcune domande, venne visitata e alla fine il dottore le disse che si era quasi del tutto ristabilita e che entro la fine del giorno seguente sarebbe potuta andare a casa, salvo complicazioni.
Si rivolse allora a quello: «Dottor Ghige, mi scusi, ma sa per caso darmi notizie di quel ragazzo…», non sapeva nemmeno il suo nome e arrossì leggermente «che ieri ha avuto un incidente in moto?».
Il medico la fissò con le sopracciglia aggrottate. «Christian Jekkey? Sì, me ne sono occupato personalmente. Ha avuto una commozione celebrare e si è rotto un braccio, ma è ancora vivo. Se vuoi andare a visitarlo dovrai aspettare domani, ora è molto tardi».
Edith guardò l'orologio bianco affisso alla parete: segnava le 11.30.
Lo ringraziò è quello si dileguò quasi subito.
Nella stanza Edith ovviamente non era da sola, c'erano altre due persone profondamente addormentate, e non riusciva a distinguerne bene i contorni al buio. Sua madre si sedette sulla poltrona e la guardò con curiosità.
«Sono veramente contenta di sentire che ti sei finalmente ripresa. Come va col mal di testa?», le chiese.
«E' orribile, mi sento scoppiare la testa e pulsare le orecchie. Meglio non pensarci. Allora, come sta zia Alicia?», si arrischiò a domandare. Dubitava che la madre non sapesse ancora nulla della gravidanza della sorella, ma magari non ne era stata informata.
«Alicia è venuta oggi a trovarti con Marcus e... beh, mi ha detto... che aspettano un bambino», sorrise.
«Sono così contenta per loro», disse Edith. E fra sorrisi e chiacchiere la ragazza si addormentò e la madre andò a casa per riposarsi.
 
Quella notte Edith fece una serie infinita di incubi. Ma questa volta Andrea non era in nessuno. La cosa che più la terrorizzava era il fuoco, e in quei sogni il fuoco l'avvolgeva e la uccideva soffocandola, bruciandole i capelli, le tempie che le pulsavano. Sognò di trovarsi davanti a quel ragazzo dai capelli rossicci e si accorse con orrore di avere in mano una pistola dalla quale uscivano lingue di fuoco. Per non bruciarsi cercava di staccarsela dalle dita, senza successo. Allora il ragazzo scompariva e lei si trovava nel mare aperto, sconfinato e poi tutto si rifaceva confuso e ricominciava da capo.
Si svegliò nel cuore della notte e si accorse che uno dei due pazienti ricoverati stava tossendo in modo strano. Chiamò un'infermiera e il paziente scomparve trasportato su una barella.
Odiava gli ospedali. C'era stata una decina di volte da ragazzina per quei simili crolli nervosi di cui soffriva, anche se non era mai riuscita perdere la memoria per così tanto tempo. E poi c'era l'anoressia, male contro il quale stava ancora combattendo. In quella notte silenziosa eppure così carica di tensione e di vita non poté fare a meno di pensare a tutto quel gran pasticcio che era la sua, di vita, e come d'altra parte era complicata per tutti.
Si sentiva sbagliata. Le ragazze della sua età non erano sole, uscivano la sera con le persone, con gli amici, con i fidanzati, sapevano godersi la vita anche se lavoravano o studiavano sodo. Lei no. Lei non aveva un lavoro, non aveva più amici, non studiava più, e, ultimo dei suoi problemi, non aveva un ragazzo. Aveva solo un gran dolore e una famiglia a metà. Ed era quel tipo di dolore che tentava di uscire fuori come la tosse di quel paziente ma, dato che non riusciva uscire, la inghiottiva come il fuoco dei suoi sogni.
 
Non sono né una parente, né ho mai visto quel ragazzo prima dell'incidente. E poi ha avuto una commozione celebrare! Probabilmente non ha nemmeno ancora ripreso conoscenza...
Le stava scoppiando la testa. Tanto valeva andarsene senza neanche tentare di vedere quel ragazzo.
Ma sapeva che non ce l'avrebbe fatta.
Edith era stata rimessa la mattina dopo e ora era con l'infermiera che la stava conducendo nella stanza dal ragazzo dai capelli rossi.
Dal vetro lo vide, sdraiato supino, la testa fasciata e il braccio ingessato. Edith non poté fare a meno di pensare che quello stesso ragazzo sarebbe potuto morire. Poi si accorse che, beh quello stesso ragazzo avrebbe potuto ucciderla- Sembra così giovane, disse a se stessa. L'infermiera la informò di non superare i quindici minuti di visita, che aveva ripreso conoscenza ma di non svegliarlo assolutamente e poi aprì la porta per lasciarla passare. Edith entrò con passo incerto e, con passo altrettanto incerto si andò a sedere sulla poltrona bianca lì a fianco.
«Ehi», disse e alzò una mano in segno saluto verso il viso addormentato del ragazzo. Stupida, stupida, stupida...! Pensi che ti possa sentire?
Il ragazzo respirava con regolarità, il viso era tirato e verdognolo, un ciuffo di capelli rossi che spuntava dalle bende attirò l’attenzione di Edith.
Si sentiva a disagio; di lui sapeva solo il nome e ormai voleva solo andarsene di lì. Stava per alzarsi, quando, posando gli occhi sui fiori, pupazzetti e persino un cellulare appoggiati lì dagli amici o parenti del ragazzo, ne rimase come affascinata.
Non le era mai successo che qualcuno le avesse portato così tanti pensieri, né da ragazzina, né tanto meno adesso. Sua zia e sua madre preferivano parlarle direttamente subito dopo la riabilitazione, abbracciandola, piangendo o arrabbiandosi con lei.
Si alzò e si avvicinò ai regali. Alcuni erano buffi, altri consistevano in belle dediche di pronta guarigione.
«Ehi», disse una profonda voce maschile. Edith si ricordò allora dov'era e cosa stava facendo.
Christian si tirò su a fatica e la guardò. Poi abbassò gli occhi.
I suoi occhi, pensò Edith, sono così...vivi.
«Perdonami, ma tu... chi saresti?», le domandò, fissandola con occhi leggermente appannati, ma scattanti e vigili al tempo stesso.
«Ehm, Edith... cioè, la ragazza che hai quasi investito...», rispose lei farfugliando.
«Ah, ora capisco. Tranquilla, comunque la colpa è mia e me la prendo, ero fuori di me. Ti prego di scusarmi. Ora sono ridotto come un rottame, ma mi sentirei peggio se ci fossi tu al posto mio», disse e poi distolse lo sguardo. Si portò una mano alla fronte per metà fasciata «Mi sta scoppiando la testa, non so nemmeno cosa sto dicendo, scusami anche per questo», sorrise debolmente.
«Oh, non ti devi preoccupare, cioè, non ti devi preoccupare per me», disse la ragazza con le guance in fiamme. «Dovresti pensare solo a riposarti, ora», si sedette sulla poltrona e sorrise debolmente. «Non ho portato nulla per te... nemmeno un pensiero, così ho pensato di lasciarti il... mio numero. Non so perché.. ma penso che sia l'unico modo per sdebitarti quando ti sarai ripreso, se hai bisogno di parlare», disse arrossendo e sentendosi una completa stupida.
«Sei una psicologa?».
«No, no. Tranquillo», il rossore le si affievolì e posò il biglietto sul comodino pieno di oggetti.
Poi guadò l'orologio appeso alla parete.
«Ora devo andare».
«I fatidici quindici minuti», disse il ragazzo sorridendo e socchiudendo gli occhi. «Grazie, per essermi venuta a trovare, Edith».
Whole Lotta Love, pensò Edith mentre si chiudeva la porta alle spalle.
 
«Mamma, sono a casa», disse Edith spalancando il portone di casa. Nessuna risposta. Se lo aspettava, sua madre era ancora al bar.
«Pensi di riuscire a stare da sola?», le chiese con apprensione sua zia.
Non essendo ancora del tutto in forze e dato che sua madre lavorava, era stata portata a casa da Alicia che per tutto il viaggio non aveva fatto altro che ripeterle quanto stupido fosse stato quel ragazzo con la sua stupida moto.
«Credo di sì. Ora vado un po' a stendermi sul letto. Poi cucino qualcosa di leggero», disse. Preferiva non ammettere di non saper cucinare altro che minestrina, latte e uova bollite.
Sua zia annuì con decisione: «Allora io vado. Se hai bisogno di qualcosa, chiama».
«D'accordo. Grazie ancora per il passaggio, ciao», l’abbracciò  .
Appena la zia chiuse la porta Edith si lasciò cadere pesantemente su una sedia e appoggiò i gomiti al tavolo di legno massiccio della cucina, poi chiuse lentamente gli occhi.
 
 

   
 
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