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Autore: iRy921    28/06/2008    0 recensioni
Immaginate di essere rapiti da uno dei vostri professori più analfabeti e di essere portati con la forza nel suo liceo privato in cui solo lui insegna (a parte qualche strana aggiunta). E immaginate anche che questa scuola sia nascosta nei più profondi recessi di una miniera. Infine immaginate di essere in classe con soltanto altre tre persone, con cui negli ultimi tempi ha cominciato a formarsi un inciucio da far girare la testa e con cui, però, si sparano tante cavolate... e questo è solo l'inizio.
Genere: Comico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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high school forgy

    È una bellissima giornata. Forse riusciremo a goderci un po’ di sole dopo questi due giorni di pioggia. È da quando siamo arrivati all’Isola d’Elba che non fa che piovere. E poi non si può dire che siano stati due giorni tutti risate e divertimento. Certo, ci siamo divertiti, ma ci siamo anche disperati un po’. Ora per fortuna la tensione si è allentata, tuttavia dopo la prima sera è stato davvero difficile stare in nostra compagnia. Lascerò perdere i dettagli e racconterò solo l’essenziale della storia che ha portato alla nascita del parallelogramma. È, diciamo, un po’ la causa delle nostre sfighe. Anzi, non un po’. Lo è, e basta.

    Ma cominciamo dal principio. Il 12 maggio 2008 la classe 2B dell’indirizzo linguistico del liceo Leonardo (BS) è partito insieme alla 1B e ad alcuni professori per una gita di tre giorni all’Isola d’Elba. E tutto bene fin qui. Ero felicissima di partire. Purtroppo però abbiamo trovato un tempo bruttissimo che non ci ha permesso di goderci il mare come avremmo voluto. Ad ogni modo non ci siamo persi d’animo e pregustavamo con impazienza il divertimento della prima sera, quella d’arrivo, quando il nostro super gruppo si sarebbe chiuso in una stanza a ballare, cantare, mangiare e bere. Quanto mai l’abbiamo fatto. Fortunatamente nessuno dei professori ci ha scoperti (cosa che hanno fatto la sera seguente, anche se non hanno trovato gli alcolici), ma a qualcuno (non ricordo chi) è venuto in mente di giocare prima a “Hai mai…” poi al “Gioco della bottiglia”. Con il primo ho ottenuto il risultato di ubriacarmi, col secondo (niente baci veri, solo a stampo) di dover baciare Elia. E qui direte: «Che c’è di male? Magari avrai baciato anche altri tuoi compagni di classe, che differenza fa uno in più?». Be’, certo. Se non fosse stato che il sopracitato Elia ha una cotta per me da qualche tempo. E qui direte: «Meglio per lui, no?». Eh no! Perché è mesi che sta male per il fatto che siamo molto legati come amici, soprattutto dopo che l’avevo, come dire, più o meno rifiutato. Era un po’ che cercavo di staccarmi, ma poi la nostra cara profe di italiano, la Cispy, ha pensato di farci diventare compagni di banco. E lui non faceva altro che stare male, e io che sono una deficiente cronica, mi sentivo in colpa. Andando avanti dopo ciò si è creata una sottospecie di tensione velata di disperazione. Anche per un altro motivo semplicissimo. Elia era geloso di Castel. Con quest’ultimo infatti avevo legato molto e Elia era convinto che io ci stessi provando e che Castel ne stesse approfittando. Cosa, ovviamente, non vera. Alla fine di quella gran bella serata sono finita a dormire in una stanza in sei persone su tre letti, ma ho dormito di sasso grazie all’alcol.

    Il giorno seguente sembrava che la faccenda potesse venire dimenticata (io, anche se avevo bevuto, ricordavo tutto alla perfezione escluso qualche particolare insignificante, tipo le circostanze del rientro nella mia stanza con altre cinque persone e qualche pettegolezzo). O almeno tutti speravano in una perdita di memoria collettiva. Eppure la tensione non accennava a diminuire. C’era qualcuno che scoppiava in lacrime ogni cinque minuti, anche per motivi che non centravano assolutamente nulla, e non facevano altro che aumentare il livello di tristezza. Fu in quel momento che si è compiuto il parallelogramma. Castel è venuto da me e mi ha voluto parlare. A Castel piace la Faby da qualche tempo. La Faby ha legato parecchio con Elia come io ho legato parecchio con Castel. E, indovinate un po’? Castel era geloso di Elia. Come potete notare due situazioni perfettamente simmetriche. Era una maledizione.

 

descrizione del parallelogramma: un parallelogramma. I quattro vertici denominati, partendo da in alto a sinistra e procedendo in senso orario, con: I (= Iry, io), F (=Faby), C (=Castel), E (=Elia). Le linee orizzontali rappresentano le amicizie indiscusse tra stesso sesso (I-F; C-E). Le linee verticali/oblique rappresentano chi piace a chi, partendo dal basso verso l’alto (E-I; C-F). Le diagonali rappresentano chi si sfoga con chi, considerabili anche a doppio senso (I-C; F-E). Ho sottolineato la frase sopra per mettere in risalto il fatto che io e la Faby non centriamo assolutamente nulla, ma siamo state trascinate in questa situazione da quelle due sottospecie di scimmie che non possiamo fare a meno di chiamare amici.

 

Così la situazione era insostenibile. Dovevo assolutamente chiarire con Elia perché non si poteva andare avanti in quel modo. Dopo aver chiarito (preferisco mantenere i dettagli della nostra conversazione privati) la tensione è scivolata via e tutto il nostro gruppetto si è tirato su di morale giocando a gavettoni sulla spiaggia e sotto la pioggia. Finalmente tutto era andato al giusto posto.

    E adesso siamo qui, pronti ad affrontare l’ultima visita, quella alle miniere di ferro a cielo aperto di Rio Marina. C’è il sole, e questo è confortante. È piacevole sentire il calore solare sul viso dopo due giorni di pioggia ininterrotta. Cammino sul sentiero sterrato, parlando e scherzando con Castel. Ovviamente, la Faby e Elia sono più indietro. Tutti gli altri nostri compagni sono intorno a noi e ci stiamo divertendo un mondo, anche se il sole comincia a scottare. Di certo sarà una bella giornata. Chiacchiero allegramente, senza ascoltare la guida, cercando di strappare a una delle profe l’informazione che tanto ci premeva: quanto è incazzato Forgione da uno a dieci? Perché il nostro caro professore di mate ci ha sgamato tutti fuori dalle stanze (e anche qualcosa di più grave, ma lasciamo perdere) e pareva abbastanza arrabbiato.

    «Magari ci lascia davvero qui, come dice sempre», suggerisco a Castel, senza esserne però convinta. Forgione, infatti, ha una certa mania di suggerire ai suoi studenti che non capiscono la matematica di andare a lavorare in miniera, che lì c’è sempre posto. Io vorrei dirgli di starsene zitto e di andare lui a lavorare in miniera, visto che non è capace a insegnare. Non si è mai chiesto come mai metà e più dei suoi studenti ha il debito in mate o comunque fanno fatica ad arrivare alla sufficienza? Certo che sì, ma la risposta ovviamente è: i deficienti sono loro. Non sia mai che io non sia capace a insegnare.

    Raccolgo un  minerale nero luccicante e lo metto nel sacchetto che ci hanno fornito. È divertente fare finta di interessarsi quando in realtà te ne frega meno di niente. La guida non l’ascolterei neppure se volessi, è fuori dal mio campo uditivo. Camminiamo ancora un po’ e la fatica si fa sempre più sentire, insieme al caldo. In fondo è il 14 maggio non il 20 febbraio. Mi sto divertendo un mondo, dopotutto, perché finalmente ho il cuore un po’ più leggero. Ad un tratto però, mentre mi sto guardando intorno e sto ridendo con i miei compagni, tutto svanisce. Cioè, le persone presenti spariscono nel nulla, in un attimo, come se fossero stati cancellati da una gomma gigante e noi facessimo parte di un cartone animato sul modello dei Looney Toones. C’è ancora Castel, con cui sono a braccetto, e nessun’altro. Siamo soli in mezzo a questa dannata miniera. Mi guardo intorno con la bocca aperta per l’incredulità e poi guardo Castel e lo trovo stupito tanto quanto me.

    «Che cavolo è successo?», chiedo quando finalmente ritrovo la voce.

    «E che ne so?», risponde Castel senza smettere di scrutarsi attorno con sguardo perso.

    Facciamo qualche passo indietro per vedere se con una mossa-rewind anche noi riusciamo a tornare indietro. Ma ovviamente non succede nulla.

    «Forse siamo passati attraverso una barriera magica installata appositamente dallo zio Forgy per abbandonarci qui in miniera», suggerisco ironica. Però non è un’idea da sottovalutare, secondo me.

    «Certo. Come no». Castel bolla subito come stupidamente assurdo il mio pensiero. «E magari poi viene qui anche lui, ci rapisce e ci porta a Pezzaze, che risponde meglio al suo prototipo di miniera. Sai, sotterranea, piena di cunicoli traballanti che potrebbero caderci in testa da un momento all’altro…».

    «Non prendermi per il culo!», protesto. Lo fa sempre.

    «Non ti sto prendendo per il culo. Sto soltanto arricchendo di particolari la tua meravigliosa e soprattutto verosimile supposizione».

    Sbuffo ed evito di rispondergli.

    «Be’, comunque cosa facciamo?», chiedo.

    «Non lo so. Dato che è più probabile che per il caldo abbiamo avuto un’allucinazione e abbiamo subito una distorsione dello spazio-tempo ci conviene tornare all’albergo e vedere se gli altri sono già tornati», propone Castel.

    «Anche la tua supposizione è molto verosimile, eh?».

    «Sicuramente più della tua».

    Gli faccio una linguaccia e poi ci avviamo giù per il sentiero, molto più facilmente dell’andata, perché ora la salita si era trasformata in discesa. Non un altro effetto dello strano fenomeno di prima, si intende, solo è normale che una salita percorsa in un senso, nel senso opposto diventi una discesa.

    Ridendo e scherzando arriviamo all’entrata alla miniera. Ormai manca poco per l’albergo. Magari ci facciamo anche una sosta in spiaggia, tanto ormai spariti per spariti tanto vale approfittarne. Camminiamo ancora un po’ quando vediamo il nostro pullman parcheggiato poco lontano. Gianchy, il nostro autista, può darci una mano! Così non dobbiamo più camminare! Si sta avvicinando l’ora di pranzo e il sole comincia a scottare davvero.

    Ci fiondiamo alla porta scorrevole del pullman, quella vicino al posto del conducente.

    «Ehi… noi siamo rimasti indietro… non è che potresti darci un passagg…», mi blocco a metà frase perché alla guida non c’è Gianchy. C’è Forgy! Con un cappellino verde sulla testa mezza pelata! Oddio! Quante sorprese avremmo dovuto affrontare ancora?

    «Ehm… buon-buongiorno profe. Ci scusi, pensavamo che fosse l’autista», si scusa Castel.

    Forgy si volta verso di noi e sbuffa rumorosamente.

    «Rimanete in silenzio e salite sul pullman. Subito, altrimenti vi mordo», ci minaccia guardandoci con i suoi occhietti ottusi. E pensare che alla mamma della Faby ai primi colloqui era sembrato un nonnetto simpatico. Nonnetto ok, ma simpatico proprio no, per carità. Se non ci dice di andare in miniera ci minaccia di morderci. E poi dice che dobbiamo portargli rispetto perché lui è un professore. Ma se non è nemmeno capace di insegnare? Non sa cosa vuol dire matematica, algebra o geometria. Lui ha creato una materia tutta sua che insegna alle nuove generazioni (10 volte più intelligenti di lui) pretendendo che la loro intelligenza e la loro superiorità si pieghino al suo volere.

    Questi pensieri però sono rimasti accuratamente racchiusi nella mia testa. Io e Castel saliamo senza fiatare. Meglio non contraddirlo. Non si sa mai che gli parta lo schizzo e ci morda davvero. Quando siamo a metà strada per i posti in fondo al pullman – più lontano siamo meglio è – Forgy urla: «Prossima fermata Pezzaze!».

    «Io cosa avevo detto?», sussurro a Castel. «Visto che la mia idea non era poi così assurda?».

    «Qualcosa da ridire?», ci interrompe Forgy.

    «No, no».

    «Bene, allora partiamo», dice tutto felice. Non ci vorrà davvero lasciare a Pezzaze, vero?

    In fondo al pullman ci sediamo vicini e ci guardiamo stupiti. Nonostante tutto ci viene da ridere. È una situazione molto esilarante. Così scoppiamo a ridere, cercando di restare in silenzio, e arriviamo ad avere le lacrime agli occhi e il mal di pancia.

    E in un attimo… siamo a Pezzaze. Come abbiamo fatto così in fretta? Ci sarebbero volute almeno cinque o sei ore. E invece sembra passata a malapena mezz’ora.

    «Non ti pare che siamo arrivati un po’ troppo in fretta?». Castel dà voce alle mie riflessioni. Io annuisco in silenzio. Ora la faccenda comincia a farmi davvero paura. E se il caro e vecchio Forgy decide di lasciarci davvero nella miniera? Non ci voglio nemmeno pensare.

    «Agiuto!», esclamo.

    «Agiuto?!», chiede Castel.

    «Sì, agiuto. Non mi hai mai sentito dire agiuto? Lo dico sempre», spiego.

    «No, mai sentito. E che cosa vuol dire?».

    «Aiuto. È ovvio».

    «Non è ovvio. Comunque hai ragione: agiuto!».

    «Non prendermi in giro».

    «Non ti sto prendendo in giro».

    «Certo».

    «No, davvero! È bello agiuto».

    «Ragazzi la smettete di parlare e mi seguite, per favore?», si intromette Forgy a interrompere la nostra conversazione superprofonda su agiuto. Poi si alza e scende dal pullman. Noi lo seguiamo in silenzio, ma io non riesco a trattenermi per molto prima di domandare: «Possiamo sapere dove ci sta portando, profe?».

    «No». Classico. Dannato vecchio.

    Detto questo si volta e si avvia verso l’entrata della miniera di Pezzaze. Ci ho passato mezza vita qui. Ci ho fatto tre gite: una alle elementari, una alle medie e una pure con il grest, o cre, o come si chiama in qualsiasi altro luogo. E tutte e tre le volte era stato ugualmente noioso. Basta pensare ai ricordi che ho. Non più tre gite distinte, ma un’unica giornata lunghissima all’interno di quei cunicoli bui e gocciolanti. I ricordi ora sono confusi e mischiati insieme in un mix da far addormentare.

    «Non ci voglio venire», sbotto all’improvviso. Forgy mi guarda con aria divertita e mi indica un qualcosa di spaventoso all’entrata della miniera. È un cane enorme, bruttissimo, con tre teste e sei code a forma di serpente. La bava gli scende copiosa dalla bocca.

    «Se preferisci rimanere qui fuori con Cerbero…», mi dice.

    Io scuoto la testa e mi aggrappo saldamente al braccio di Castel. Dove siamo finiti?

    Avanziamo ancora, finché riesco a vedere la scritta che sovrasta l’entrata del cunicolo: “Lasciate ogni speranza, voi che entrate”.

    «Ma cos’è, l’inferno?», chiedo a Castel indicandogli la scritta. Lui sghignazza e annuisce. Poi ci inoltriamo nella penombra della miniera. Ricordo che una volta c’era un trenino che conduceva nei recessi più profondi dei cunicoli, ma evidentemente Forgy non lo ritiene necessario. Vecchio bacucco bastardo. Ci tocca camminare ancora per colpa sua.

    Dopo aver affrontato un labirinto, che mi è sembrato infinito, nel più perfetto silenzio – Forgy ci aveva minacciato di nuovo di morderci – arriviamo ad una grande porta bianca.

    «Cosa ci fa una porta qui?», sussurro.

    «Non lo so…», risponde Castel.

    «Shhh!», ci intima Forgy con uno sguardo minaccioso. Nemmeno sussurrare si può più. Vorrei lasciarmi andare ad un fiume di insulti per niente adatti ad una ragazza. Castel però sta borbottando. E quando borbotta vuol dire che sta bestemmiando in tutte le lingue del mondo.

    Forgy spinge i battenti della porta e ci ritroviamo in una grande sala d’aspetto con il pavimento a scacchi neri e bianchi. I quadrati bianchi sono venati da righine rosso sangue. Che posto è mai questo?

    In fondo alla sala c’è una scrivania in noce nero. Forgy prende posto su di una sedia girevole dietro la scrivania e posiziona uno di quei cosi di plastica con scritto sopra che branca di ufficio era quella in cui ci si trova. Ci fa cenno di avvicinarci e poi ci indica il coso di plastica. C’è scritto, a lettere cubitali rosso fuoco su sfondo verde: “HIGH SCHOOL FORGIONE – ACCETTAZIONE”.

    Non può essere. È un incubo. Uno dei miei peggiori incubi a dirla tutta. Guardiamo Forgy che ci osserva da sotto il sommo splendore del suo cappellino verde acido, con tanto di visiera. Poi ci guardiamo a vicenda, sbalorditi. E poi urliamo.

  
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