È una bellissima giornata.
Forse riusciremo a goderci un po’ di sole dopo questi due giorni di pioggia. È
da quando siamo arrivati all’Isola d’Elba che non fa che piovere. E poi non si
può dire che siano stati due giorni tutti risate e divertimento. Certo, ci siamo
divertiti, ma ci siamo anche disperati un po’. Ora per fortuna la tensione si è
allentata, tuttavia dopo la prima sera è stato davvero difficile stare in nostra
compagnia. Lascerò perdere i dettagli e racconterò solo l’essenziale della
storia che ha portato alla nascita del parallelogramma. È, diciamo, un po’ la
causa delle nostre sfighe. Anzi, non un po’. Lo è, e basta.
Ma cominciamo dal principio.
Il 12 maggio 2008 la classe 2B dell’indirizzo linguistico del liceo Leonardo
(BS) è partito insieme alla 1B e ad alcuni professori per una gita di tre giorni
all’Isola d’Elba. E tutto bene fin qui. Ero felicissima di partire. Purtroppo
però abbiamo trovato un tempo bruttissimo che non ci ha permesso di goderci il
mare come avremmo voluto. Ad ogni modo non ci siamo persi d’animo e pregustavamo
con impazienza il divertimento della prima sera, quella d’arrivo, quando il
nostro super gruppo si sarebbe chiuso in una stanza a ballare, cantare, mangiare
e bere. Quanto mai l’abbiamo fatto. Fortunatamente nessuno dei professori ci ha
scoperti (cosa che hanno fatto la sera seguente, anche se non hanno trovato gli
alcolici), ma a qualcuno (non ricordo chi) è venuto in mente di giocare prima a
“Hai mai…” poi al “Gioco della bottiglia”. Con il primo ho ottenuto il risultato
di ubriacarmi, col secondo (niente baci veri, solo a stampo) di dover baciare
Elia. E qui direte: «Che c’è di male? Magari avrai baciato anche altri tuoi
compagni di classe, che differenza fa uno in più?». Be’, certo. Se non fosse
stato che il sopracitato Elia ha una cotta per me da qualche tempo. E qui
direte: «Meglio per lui, no?». Eh no! Perché è mesi che sta male per il fatto
che siamo molto legati come amici, soprattutto dopo che l’avevo, come dire, più
o meno rifiutato. Era un po’ che cercavo di staccarmi, ma poi la nostra cara
profe di italiano,
Il giorno seguente sembrava
che la faccenda potesse venire dimenticata (io, anche se avevo bevuto, ricordavo
tutto alla perfezione escluso qualche particolare insignificante, tipo le
circostanze del rientro nella mia stanza con altre cinque persone e qualche
pettegolezzo). O almeno tutti speravano in una perdita di memoria collettiva.
Eppure la tensione non accennava a diminuire. C’era qualcuno che scoppiava in
lacrime ogni cinque minuti, anche per motivi che non centravano assolutamente
nulla, e non facevano altro che aumentare il livello di tristezza. Fu in quel
momento che si è compiuto il parallelogramma. Castel è venuto da me e mi ha
voluto parlare. A Castel piace
descrizione del parallelogramma:
un parallelogramma. I
quattro vertici denominati, partendo da in alto a sinistra e procedendo in senso
orario, con: I (= Iry, io), F (=Faby), C (=Castel), E (=Elia). Le linee
orizzontali rappresentano le amicizie indiscusse tra stesso sesso (I-F; C-E). Le
linee verticali/oblique rappresentano chi piace a chi, partendo dal basso
verso l’alto (E-I; C-F). Le diagonali rappresentano chi si sfoga con chi,
considerabili anche a doppio senso (I-C; F-E). Ho sottolineato la frase sopra
per mettere in risalto il fatto che io e
Così la situazione era
insostenibile. Dovevo assolutamente chiarire con Elia perché non si poteva
andare avanti in quel modo. Dopo aver chiarito (preferisco mantenere i dettagli
della nostra conversazione privati) la tensione è scivolata via e tutto il
nostro gruppetto si è tirato su di morale giocando a gavettoni sulla spiaggia e
sotto la pioggia. Finalmente tutto era andato al giusto
posto.
E adesso siamo qui, pronti
ad affrontare l’ultima visita, quella alle miniere di ferro a cielo aperto di
Rio Marina. C’è il sole, e questo è confortante. È piacevole sentire il calore
solare sul viso dopo due giorni di pioggia ininterrotta. Cammino sul sentiero
sterrato, parlando e scherzando con Castel. Ovviamente,
«Magari ci lascia davvero
qui, come dice sempre», suggerisco a Castel, senza esserne però convinta.
Forgione, infatti, ha una certa mania di suggerire ai suoi studenti che non
capiscono la matematica di andare a lavorare in miniera, che lì c’è sempre
posto. Io vorrei dirgli di starsene zitto e di andare lui a lavorare in miniera,
visto che non è capace a insegnare. Non si è mai chiesto come mai metà e più dei
suoi studenti ha il debito in mate o comunque fanno fatica ad arrivare alla
sufficienza? Certo che sì, ma la risposta ovviamente è: i deficienti sono loro.
Non sia mai che io non sia capace a insegnare.
Raccolgo un minerale nero luccicante e lo metto nel
sacchetto che ci hanno fornito. È divertente fare finta di interessarsi quando
in realtà te ne frega meno di niente. La guida non l’ascolterei neppure se
volessi, è fuori dal mio campo uditivo. Camminiamo ancora un po’ e la fatica si
fa sempre più sentire, insieme al caldo. In fondo è il 14 maggio non il 20
febbraio. Mi sto divertendo un mondo, dopotutto, perché finalmente ho il cuore
un po’ più leggero. Ad un tratto però, mentre mi sto guardando intorno e sto
ridendo con i miei compagni, tutto svanisce. Cioè, le persone presenti
spariscono nel nulla, in un attimo, come se fossero stati cancellati da una
gomma gigante e noi facessimo parte di un cartone animato sul modello dei Looney
Toones. C’è ancora Castel, con cui sono a braccetto, e nessun’altro. Siamo soli
in mezzo a questa dannata miniera. Mi guardo intorno con la bocca aperta per
l’incredulità e poi guardo Castel e lo trovo stupito tanto quanto
me.
«Che cavolo è successo?»,
chiedo quando finalmente ritrovo la voce.
«E che ne so?», risponde
Castel senza smettere di scrutarsi attorno con sguardo
perso.
Facciamo qualche passo
indietro per vedere se con una mossa-rewind anche noi riusciamo a tornare
indietro. Ma ovviamente non succede nulla.
«Forse siamo passati
attraverso una barriera magica installata appositamente dallo zio Forgy per
abbandonarci qui in miniera», suggerisco ironica. Però non è un’idea da
sottovalutare, secondo me.
«Certo. Come no». Castel
bolla subito come stupidamente assurdo il mio pensiero. «E magari poi viene qui
anche lui, ci rapisce e ci porta a Pezzaze, che risponde meglio al suo prototipo
di miniera. Sai, sotterranea, piena di cunicoli traballanti che potrebbero
caderci in testa da un momento all’altro…».
«Non prendermi per il
culo!», protesto. Lo fa sempre.
«Non ti sto prendendo per il
culo. Sto soltanto arricchendo di particolari la tua meravigliosa e soprattutto
verosimile supposizione».
Sbuffo ed evito di
rispondergli.
«Be’, comunque cosa
facciamo?», chiedo.
«Non lo so. Dato che è più
probabile che per il caldo abbiamo avuto un’allucinazione e abbiamo subito una
distorsione dello spazio-tempo ci conviene tornare all’albergo e vedere se gli
altri sono già tornati», propone Castel.
«Anche la tua supposizione è
molto verosimile, eh?».
«Sicuramente più della
tua».
Gli faccio una linguaccia e
poi ci avviamo giù per il sentiero, molto più facilmente dell’andata, perché ora
la salita si era trasformata in discesa. Non un altro effetto dello strano
fenomeno di prima, si intende, solo è normale che una salita percorsa in un
senso, nel senso opposto diventi una discesa.
Ridendo e scherzando
arriviamo all’entrata alla miniera. Ormai manca poco per l’albergo. Magari ci
facciamo anche una sosta in spiaggia, tanto ormai spariti per spariti tanto vale
approfittarne. Camminiamo ancora un po’ quando vediamo il nostro pullman
parcheggiato poco lontano. Gianchy, il nostro autista, può darci una mano! Così
non dobbiamo più camminare! Si sta avvicinando l’ora di pranzo e il sole
comincia a scottare davvero.
Ci fiondiamo alla porta
scorrevole del pullman, quella vicino al posto del
conducente.
«Ehi… noi siamo rimasti
indietro… non è che potresti darci un passagg…», mi blocco a metà frase perché
alla guida non c’è Gianchy. C’è Forgy! Con un cappellino verde sulla testa mezza
pelata! Oddio! Quante sorprese avremmo dovuto affrontare
ancora?
«Ehm… buon-buongiorno profe.
Ci scusi, pensavamo che fosse l’autista», si scusa
Castel.
Forgy si volta verso di noi
e sbuffa rumorosamente.
«Rimanete in silenzio e
salite sul pullman. Subito, altrimenti vi mordo», ci minaccia guardandoci con i
suoi occhietti ottusi. E pensare che alla mamma della Faby ai primi colloqui era
sembrato un nonnetto simpatico. Nonnetto ok, ma simpatico proprio no, per
carità. Se non ci dice di andare in miniera ci minaccia di morderci. E poi dice
che dobbiamo portargli rispetto perché lui è un professore. Ma se non è nemmeno
capace di insegnare? Non sa cosa vuol dire matematica, algebra o geometria. Lui
ha creato una materia tutta sua che insegna alle nuove generazioni (10 volte più
intelligenti di lui) pretendendo che la loro intelligenza e la loro superiorità
si pieghino al suo volere.
Questi pensieri però sono
rimasti accuratamente racchiusi nella mia testa. Io e Castel saliamo senza
fiatare. Meglio non contraddirlo. Non si sa mai che gli parta lo schizzo e ci
morda davvero. Quando siamo a metà strada per i posti in fondo al pullman – più
lontano siamo meglio è – Forgy urla: «Prossima fermata
Pezzaze!».
«Io cosa avevo detto?»,
sussurro a Castel. «Visto che la mia idea non era poi così
assurda?».
«Qualcosa da ridire?», ci
interrompe Forgy.
«No,
no».
«Bene, allora partiamo»,
dice tutto felice. Non ci vorrà davvero lasciare a Pezzaze,
vero?
In fondo al pullman ci
sediamo vicini e ci guardiamo stupiti. Nonostante tutto ci viene da ridere. È
una situazione molto esilarante. Così scoppiamo a ridere, cercando di restare in
silenzio, e arriviamo ad avere le lacrime agli occhi e il mal di
pancia.
E in un attimo… siamo a
Pezzaze. Come abbiamo fatto così in fretta? Ci sarebbero volute almeno cinque o
sei ore. E invece sembra passata a malapena
mezz’ora.
«Non ti pare che siamo
arrivati un po’ troppo in fretta?». Castel dà voce alle mie riflessioni. Io
annuisco in silenzio. Ora la faccenda comincia a farmi davvero paura. E se il
caro e vecchio Forgy decide di lasciarci davvero nella miniera? Non ci voglio
nemmeno pensare.
«Agiuto!»,
esclamo.
«Agiuto?!», chiede
Castel.
«Sì, agiuto. Non mi hai mai
sentito dire agiuto? Lo dico sempre», spiego.
«No, mai sentito. E che cosa
vuol dire?».
«Aiuto. È
ovvio».
«Non è ovvio. Comunque hai
ragione: agiuto!».
«Non prendermi in
giro».
«Non ti sto prendendo in
giro».
«Certo».
«No, davvero! È bello
agiuto».
«Ragazzi la smettete di
parlare e mi seguite, per favore?», si intromette Forgy a interrompere la nostra
conversazione superprofonda su agiuto. Poi si alza e scende dal pullman. Noi lo
seguiamo in silenzio, ma io non riesco a trattenermi per molto prima di
domandare: «Possiamo sapere dove ci sta portando,
profe?».
«No». Classico. Dannato
vecchio.
Detto questo si volta e si
avvia verso l’entrata della miniera di Pezzaze. Ci ho passato mezza vita qui. Ci
ho fatto tre gite: una alle elementari, una alle medie e una pure con il grest,
o cre, o come si chiama in qualsiasi altro luogo. E tutte e tre le volte era
stato ugualmente noioso. Basta pensare ai ricordi che ho. Non più tre gite
distinte, ma un’unica giornata lunghissima all’interno di quei cunicoli bui e
gocciolanti. I ricordi ora sono confusi e mischiati insieme in un mix da far
addormentare.
«Non ci voglio venire»,
sbotto all’improvviso. Forgy mi guarda con aria divertita e mi indica un
qualcosa di spaventoso all’entrata della miniera. È un cane enorme, bruttissimo,
con tre teste e sei code a forma di serpente. La bava gli scende copiosa dalla
bocca.
«Se preferisci rimanere qui
fuori con Cerbero…», mi dice.
Io scuoto la testa e mi
aggrappo saldamente al braccio di Castel. Dove siamo
finiti?
Avanziamo ancora, finché
riesco a vedere la scritta che sovrasta l’entrata del cunicolo: “Lasciate ogni
speranza, voi che entrate”.
«Ma cos’è, l’inferno?»,
chiedo a Castel indicandogli la scritta. Lui sghignazza e annuisce. Poi ci
inoltriamo nella penombra della miniera. Ricordo che una volta c’era un trenino
che conduceva nei recessi più profondi dei cunicoli, ma evidentemente Forgy non
lo ritiene necessario. Vecchio bacucco bastardo. Ci tocca camminare ancora per
colpa sua.
Dopo aver affrontato un
labirinto, che mi è sembrato infinito, nel più perfetto silenzio – Forgy ci
aveva minacciato di nuovo di morderci – arriviamo ad una grande porta
bianca.
«Cosa ci fa una porta qui?»,
sussurro.
«Non lo so…», risponde
Castel.
«Shhh!», ci intima Forgy con
uno sguardo minaccioso. Nemmeno sussurrare si può più. Vorrei lasciarmi andare
ad un fiume di insulti per niente adatti ad una ragazza. Castel però sta
borbottando. E quando borbotta vuol dire che sta bestemmiando in tutte le lingue
del mondo.
Forgy spinge i battenti
della porta e ci ritroviamo in una grande sala d’aspetto con il pavimento a
scacchi neri e bianchi. I quadrati bianchi sono venati da righine rosso sangue.
Che posto è mai questo?
In fondo alla sala c’è una
scrivania in noce nero. Forgy prende posto su di una sedia girevole dietro la
scrivania e posiziona uno di quei cosi di plastica con scritto sopra che branca
di ufficio era quella in cui ci si trova. Ci fa cenno di avvicinarci e poi ci
indica il coso di plastica. C’è scritto, a lettere cubitali rosso fuoco su
sfondo verde: “HIGH SCHOOL FORGIONE –
ACCETTAZIONE”.
Non può essere. È un incubo. Uno dei miei peggiori incubi a dirla tutta. Guardiamo Forgy che ci osserva da sotto il sommo splendore del suo cappellino verde acido, con tanto di visiera. Poi ci guardiamo a vicenda, sbalorditi. E poi urliamo.