Ciao! Son tornata in un momento particolare. Prima di proseguire con la lettura sappiate che questa premessa come la storia che segue contiene uno SPOILER della seconda stagione. Alla fine dell'ultimo episodio, Oliver se ne va di casa sconsolato. In quel momento inizia la mia one shot, che vuole essere introspettiva e intensa, almeno nelle mie intenzioni. E' un po' atipica rispetto al genere che tratto solitamente, ma è venuta così. Spero che le emozioni passino e vi arrivino integre. Fatemi sapere!
Ero
uscito da casa a testa bassa. Non per la vergogna o per il rimorso, ma
per il
peso di tutta la situazione che mi stava piegando. Il tempo mi aveva
rincorso
senza darmi tregua, i miei incubi si erano fatti concreti, le mie paure
più
recondite avevano preso forma. Il passato era ritornato ad inquinare un
presente già debole e minato dalle menzogne. Mia madre,
quella che per natura
avrebbe dovuto rappresentare un rifugio sicuro, un luogo personificato
dove poter
tornare per leccarsi ferite e far rimarginare cicatrici, mi aveva
mentito.
Aveva tradito me come aveva fatto con il resto della città.
Forse
così era sempre stata la sua natura, forse la
verità non aveva mai fatto parte
del suo modo di vivere, di comportarsi e di relazionarsi. Moira Queen
stava
diventando sempre più un’estranea per me.
L’ultima sua menzogna aveva rotto
definitivamente ciò che di buono e sincero nutrivo per lei.
Aveva permesso al
male di avvicinarsi, di entrare nella nostra famiglia nel modo
più subdolo, di
albergarci aspettando sornione l’occasione propizia per
colpire. L’aveva fatto
più volte, con consapevolezza differente. Il segreto che
custodiva sembrava
meno gravoso rispetto al peso che mi si era posizionato sul petto
quando
l’avevo vista con Slade, quando avevo realizzato che lui era
proprio lì nel
salone di casa mia a bearsi della sua ospitalità e della sua
compagnia.
Perché
le porte dell’inferno si erano aperte? Perché era
uscito dall’oscurità dove
pensavo d’averlo sepolto? Le mie certezze stavano barcollando
e mi sentivo
stanco ed esposto. Mia madre mi aveva praticamente cacciato di casa e
in quel
momento necessitavo di punti di riferimento. Così avevo
preso la moto e mi ero
diretto al Verdant. Avevo prelevato dal bar una bottiglia e mi ero
rifugiato
nel sotterraneo. Non avevo acceso le luci, erano troppo forti. Avevo
lasciato
che la penombra mi avvolgesse e mi desse un attimo di pace e respiro.
Avevo
bisogno di ritornare in me, di trovare la forza che era sembrata
scivolarmi tra
le dita.
Ero
caduto come un sacco vuoto su me stesso, appoggiandomi con la schiena
ad una
delle colonne portanti del covo e abbracciandomi le ginocchia,
seppellendovi
nel mezzo la testa. Mi sentivo come un giocattolo rotto, un pezzo
difettato che
non avrebbe mai trovato il suo posto. Mi sembrava di sprofondare senza
appiglio. Forse era tutta una questione di destino e il mio si stava
per
compiere. L’isola mi aveva cambiato, corrotto
nell’intimo, strappato l’anima in
più parti e cominciavo a pensare di non riuscire
più a rimetterli assieme con
coerenza. Avevo il potere di allontanare da me la gente cui tenevo, in
un modo
o nell’altro. Stavo mettendo tutti in pericolo, col mio
passato e col mio
presente, precludendo ad ognuno il futuro. Avevo tentato di essere
qualcun
altro, ma forse ero irrimediabilmente compromesso. Una causa persa, un
dispensatore
di veleno, il responsabile di molte delle cose che erano successe alle
persone
a me più care.
Mi
sentivo patetico. Non era da me piangermi addosso in quel modo, ma
avvertivo il
bisogno di toccare il fondo per poi avere nuova forza per poter
risalire.
Dovevo puntare i piedi e concentrare tutta la mia volontà e
l’avrei anche fatto
nell’immediato futuro. Ma in quel momento avevo bisogno di
non combattere e di
lasciarmi andare, come fossi ancora sbattuto dalle onde, con
l’acqua che
amplificava il rumore del mio respiro e spalancava le porte ai miei
pensieri.
Un
ticchettio leggero era risuonato nel covo e per la prima volta avevo
sentito il
bisogno vero di nascondermi. Avevo cambiato velocemente posizione ed
ero scivolato
dietro alla colonna un istante prima che le luci si accendessero. La
coda di
Felicity ondeggiava mentre mi dava le spalle, piegata sulla sua
postazione. Aveva
spostato frenetica alcuni oggetti e aperto sbuffando i cassetti,
finché aveva
esultato di gioia dopo aver afferrato quello che sembrava un
normalissimo
cavetto. Stavo trattenendo il respiro e appiattendomi sempre
più verso la
superficie di metallo, mentre lei si guardava intorno con
un’espressione
interrogativa sul volto. Aveva sospirato con troppa enfasi, come fosse
un
segnale convenzionale più che un’esigenza naturale
o emotiva, e si era diretta
verso l’uscita. Prima di risalire la scala aveva abbassato
l’interruttore
generale facendo calare nuovamente il buio sul covo. Soltanto le fioche
luci d’emergenza
contrastavano l’oscurità totale. Mi stavo
rilassando quando Felicity tornò sui
suoi passi, ricoprendo lentamente la distanza fra noi. Si era fermata a
qualche
metro da me, come se stesse aspettando oppure stesse tentando di
captare anche
il più piccolo rumore.
«Perché
sei qui al buio?»
Avevo
buttato fuori l’aria dai polmoni con esasperazione.
«Come
hai fatto a vedermi?»
«Non
ti ho visto, Oliver. Non ne ho bisogno. Io ti sento.»
Si
era avvicinata seguendo il suono della mia voce e ora stava
inginocchiata al
mio fianco.
«Non
riaccenderò le luci se tu non vuoi.»
«Preferisco
rimanere al buio.»
«Va
bene, Ollie.»
Avevo
atteso qualche attimo, aspettandomi di sentire la sua parlantina
fluente e
irrispettosa chiedere del motivo della mia presenza lì,
invece percepivo
soltanto il suo respiro all’unisono col mio e il calore del
suo corpo che mi
era vicinissimo. Era il suo modo per farmi capire che lei ci sarebbe
sempre
stata, senza invadere uno spazio che mi ero ricavato con tanta fatica,
senza
interrompere quel doloroso dialogo con me stesso che avevo intavolato
qualche
ora prima. Dopo un silenzio gravoso, avevo preso fiato. Le dovevo
qualcosa:
qualche parola, un tentativo di approccio fra esseri umani, se non
proprio una
spiegazione coi crismi.
«Non
ho una bella storia da raccontarti, Fel.»
«Non
sono interessata alle belle storie.»
«Nemmeno
al lieto fine o al fatto che possa non esserci?»
Felicity
aveva incamerato aria, come volesse immergersi nell’apnea di
un lungo discorso.
Tuttavia, riuscì a parlare lentamente quasi sussurrando. La
cosa mi era davvero
di conforto e mi stava rilassando.
«No,
mi piacciono di più le fasi intermedie, quelle che
racchiudono il senso di ogni
cosa e che fungono da chiave di lettura.»
«Sei
strana.»
«Lo
prenderò come un complimento. Non voglio sapere
perché ti stai nascondendo qui
e non credo tu abbia voglia di parlarne. Forse però hai
voglia di ascoltare.
Prometto che parlerò poco e lentamente. So che tendo a
confondere le persone
quando lo faccio troppo velocemente.»
Non
aveva neppure cominciato e già era riuscita a strapparmi un
sorriso. Sentivo il
calore aumentare, come se si fosse ancora più vicino. Mi
sembrava che
necessitasse di un contatto per comunicare con me, come se le semplici
parole
non fossero sufficienti, nemmeno se usate in abbondanza.
«Stai
sorridendo?»
«Non
lo faccio spesso. Con te succede, invece.»
Sentivo
i suoi polpastrelli sfiorarmi una guancia con delicatezza e per la
prima volta
rincorsi quel contatto, cercando il palmo della sua mano.
«È
vero, sei un po’ avaro di sorrisi e nella maggior parte dei
casi il tuo sguardo
non si accende.»
«Non
ti piace il mio modo di sorriderti?»
«No,
non è questo. Vorrei insegnarti a sorridere anche con gli
occhi.»
Mi
sfuggì un gemito. Avrei voluto darle quello che mi stava
chiedendo ed essere
davvero qualcos’altro rispetto al passato, ma mi sentivo
esausto.
«Sono
rotto dentro, Felicity.»
«Io
penso che sia difficile essere diversi quando tutti, in un modo o
nell’altro,
anche per buoni motivi, si aspettano che tu ricopra solo un certo
ruolo. In
questo periodo ti sei dato senza sosta, portando il peso di colpe non
sempre
tue. Ti sei lasciato dietro pezzi di pelle e anima. Ora hai bisogno di
rimettere a posto quei tasselli che sfuggono anche alle tue
cicatrici.»
Inspirai
tutta l’aria possibile e strizzai gli occhi, trattenendola
nei polmoni fino a
sentirli pungere. Felicity mosse la mano, passandomela lentamente tra i
capelli.
Mi piegai in avanti, fino ad appoggiare la fronte sulla sua spalla. Gli
occhi
mi si offuscarono e la gola mi si stava serrando. Non riuscivo a
parlare e non
avevo idea di cosa dire. Temevo di sbagliare e in quel momento non
volevo
ferire Felicity in nessuno modo, come già avevo fatto in
passato. Mi lasciai
avvolgere dalle sue braccia e coccolare dalle sue dita, che mi stavano
tracciando sottili solchi sulla schiena. Mi stava dondolando
armonicamente,
sussurrandomi frasi rotte e confuse. Mi rilassai non nella disperazione
di chi
si stava chinando all’inevitabile, ma nella speranza che
tutto potesse
ricominciare sotto una luce nuova. Con lei potevo permettermi di
abbassare la
guardia, di rilassarmi e sentirmi al sicuro, preoccupandomi di me
stesso e non
degli altri. Sembrava contraddittorio, ma quella ragazza
dall’apparenza così
fragile stava diventando la roccia cui aggrapparmi. Ma volevo davvero
essere
salvato?
La
sua voce bloccò il flusso dei miei pensieri con tono
comprensivo e tenero. Mi
staccò con gentilezza e si alzò tendendomi la
mano.
«Vieni.»
«Non
voglio uscire di qui.»
«Chi
ha parlato di uscire? Fidati.»
Posi
la mia mano nella sua e mi lasciai guidare fino al piccolo bagno
nascosto oltre
la parete di fondo. Non capivo dove volesse andare a parare, ma mi
fidavo di
lei come di nessun altro. Avevamo una sintonia unica, una chimica
fortissima,
un modo di comunicare attraverso gli soli sguardi che non avevo mai
sperimentato prima d’incontrarla.
«Ci
sono molte culture in cui l’acqua è simbolo di
rinascita. Falla scivolare su di
te, sull’orrore che ti porti dentro, sulle scelte sbagliate,
sulle persone che se
ne sono andate portandosi via una parte della tua anima. Potrebbe
essere una
sorta di rinascita, un nuovo inizio.»
Aprì
con cautela le pareti della doccia, regolò il miscelatore e
l’opzione
cromoterapica e le richiuse, lasciando che la piccola stanza si
riempisse in
breve di tiepido vapore. Poi chinò la testa di lato e mi
fissò per qualche
istante, mi appoggiò una mano sul braccio come ad infondermi
coraggio e mi
oltrepassò.
«Dipende
tutto da te; Oliver. Niente è scritto e nessuno ti ha
condannato. Tu sei
l’unico artefice del tuo destino. Ti ha già fatto
avere il peggio, ora combatti
per conquistare il meglio.»
Feci
un breve cenno con il capo, più a trasmetterle comprensione
che convinzione su
quanto mi aveva appena detto, e lasciai che la giacca mi cadesse ai
piedi. Le
sue guance si imporporarono e i suoi occhi si abbassarono.
«Ti
aspetto qui fuori, ok? Prenditi tutto il tempo che ti serve.»
La
guardai sparire oltre la porta e iniziai a spogliarmi, ma il peso sul
petto
continuava a opprimermi il respiro mentre le tempie iniziarono a
pulsare
selvaggiamente.
«Felicity!»
La
porta si riaprì così in fretta che cominciai a
pensare che lei vi fosse ancora
appoggiata. Mi fissò senza dire una parola e fece un passo
avanti.
«Non
ce la faccio, non da solo.»
«Sì,
hai una volontà di ferro. Ce la farai benissimo.»
«Non
hai capito. Voglio che ci sia anche tu in questa sorta di nuova
nascita.»
«Ma
io ci sono, Ollie. Sarò qui fuori a…»
«Ti
voglio con me, Fel, vicino a me.»
Allontanai
i miei pantaloni calciandoli in un angolo e avvicinai il mio volto al
suo,
ancora prigioniero di uno sguardo misto tra lo sconcerto e la
meraviglia. La
feci girare lentamente per far scendere meglio la zip del suo vestito,
che andò
ben presto ad unirsi ai miei sul pavimento in una massa informe di
colori e
stoffe differenti. Le tolsi gli occhiali con cautela, li riposi sul
ripiano del
mobile vicino allo specchio e la guidai attraverso la nuvola di vapore.
Finimmo
entrambi sotto la miriade di goccioline che cadevano
dall’enorme erogatore
sopra le nostre teste, mentre una coltre azzurra ci avvolgeva come
fosse una
nube primordiale, portatrice di nuova vita. I nostri respiri erano
ostacolati
dall’acqua e corti come se avessimo corso fino a poco prima.
Cercammo sostegno
l’uno nell’altra, appoggiando le nostre fronti e
incatenandoci con le braccia. Non
c’era bisogno di parole o di aprire gli occhi sul resto del
mondo. Il mio
piccolo cosmo, il mio carapace di tranquillità, mi stava
inglobando in modo
inaspettato.
Felicity
si staccò da me ancora una volta e posò le sue
labbra sulle cicatrici che
portavo sul petto. Una serie di baci leggeri, appena percepibili. Una
scia
continua che non tralasciò nemmeno un segno. Gesti compiuti
con una cura e una
devozione che sciolsero le mie paure, trasformandole in lacrime.
«Girati
Oliver.»
Inspirai
e tentai di controllare il tono della voce per non tradire
l’emozione che aveva
saputo trasmettermi.
«Non
ce n’è bisogno, davvero.»
«Girati.
Voglio toglierti virtualmente ogni cicatrice, liberarti
dell’angoscia che ti
opprime, convincerti che meriti quanto di meglio la vita possa offrirti
ancora.»
Le
diedi le spalle e chiusi gli occhi per avvertire meglio le sue labbra
seguire
ogni solco, ogni vecchia ferita, assorbendo le immagini nefaste cui
erano
collegate. Iniziai a sentirmi leggero, a respirare con più
scioltezza, a
pensare a cieli sereni adombrati solo dalle luci striate di rosa di una
nuova
alba. Mi voltai prendendole il viso tra le mani e affondando le punte
delle
dita tra i capelli bagnati.
«Non
voglio lasciare che sia tu da sola a dover portare tutto questo
peso.»
Posai
le mie labbra sulle sue con naturalezza, beandomi della loro morbidezza
e del
loro calore. Mi mossi su di loro delicatamente, sfiorandole senza
perdere mai
il contatto, per poi lucidarle con la punta di lingua, come fossero una
prelibatezza di cui cibarsi con parsimonia. Felicity reclinò
la testa
all’indietro come se fosse sopraffatta. Le sorressi la nuca
con una mano,
mentre con l’altra ne seguivo il profilo, cominciando dagli
zigomi e arrivando
fino alle ossa burrose dell’orecchio, per poi tornare
inevitabilmente sulla sua
bocca. Schiuse le labbra e io vi infilai la lingua con impeto
crescente, mentre
il fuoco che sembrava essersi risvegliato dalle ceneri che
l’avevano custodito
fino a quel momento, si ravvivò. Fuoco e acqua, gli elementi
naturali della
creazione, due forze agli antipodi, ma necessarie e complementari.
L’attirai
a me, avvolgendola in modo quasi spasmodico e mi sedetti sul piccolo
sedile che
si reclinava dalla parete. Eravamo ancora in intimo, ma il cotone era
fradicio
e aderente, mostrando senza vergogna quanto la desiderassi in quel
momento. Non
trovavo le parole, ma sentivo che lei respirava con me, che voleva
ciò che
volevo anch’io, che non mi avrebbe negato nulla. Eravamo
sulla stessa lunghezza
d’onda, da sempre, e i nei suoi occhi vidi riflessa
l’immensità di ciò che
provava per me. Afferrai il bordo dei suoi slip e lo tirai verso il
basso,
mentre Felicity fece altrettanto coi miei boxer. Misi le mie mani sui
suoi
fianchi e la calai lentamente su di me, entrando in lei con lentezza,
come se
fossi sulla soglia di un luogo sacro, fertile e generoso.
Mi
mossi dapprima con gesti lunghi e delicati, poi, incalzato dai suoi
gemiti, la
schiacciai su di me rincorrendola col bacino. Volevo toccare il fondo
del suo
tempio e offrirle tutto me stesso in sacrificio. L’orgasmo ci
colse violento ed
estatico, lasciandoci abbandonati uno contro l’altra mentre
l’acqua continuava
a scrosciare su di noi. Ero ancora in lei ed eravamo uniti dai sussulti
di un
pianto liberatorio e purificatore. Avevo trovato il mio posto, avevo
dato un
significato nuovo ad ogni cosa, un indirizzo chiaro alla mia vita.
Riflesso nei
suoi occhi vedevo un uomo nuovo: il suo.