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Autore: Ipernovae    13/03/2014    3 recensioni
Storia partecipante al contest "E possa la Buona Sorte essere sempre a vostro favore." indetto da __Bad Apple__
Dal Testo:
La donna roteò la mano dentro la boccia dei ragazzi per cinque volte, poi estrasse ritornando vicino al microfono. Con una lentezza esasperante aprì il biglietto. Sorrise, quella donna, ignara di ciò che stava per distruggere, ignara della vita del ragazzo il cui nome era riportato su quel foglietto. -Haku Yuki!-
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Haku, Zabuza Momochi | Coppie: Zabuza/Haku
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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Leave out of the rest.




Fuori pioveva. Le gocce d'acqua scivolavano con cadenza quasi regolare, lungo il vetro della finestra della piccola catapecchia in cui vivevano. Era un luogo angusto, con spifferi e infiltrazioni d'acqua da ogni parte eppure, era l'unico luogo che poteva definire casa.
Non perché quelle quattro mura potessero effettivamente essere definite tali, ma perché viveva con la persona che amava e, si sa, dove c'è qualcuno che pensa a te, quella è casa.
Era ancora presto per alzarsi e preparare la colazione, ma di dormire non se ne parlava quella notte. Sin dal giorno prima un senso di ansia e agitazione aveva disturbato la sua concentrazione, tanto da fargli sbagliare la maggior parte degli esercizi eseguiti per completare il suo allenamento.
Non era stato contento, il suo Sensei. Lo aveva esternato chiaramente ricordandogli che, se l'indomani il suo nome fosse stato estratto dalla boccia di vetro, avrebbero dovuto affrontare gli Hunger Games. E sì, avrebbe dovuto farlo da solo, contando unicamente sulle sue capacità.
Il ragazzo raccolse le gambe contro al ventre e le circondò con le braccia smilze; niente di lui poteva definirsi “forte” o “letale”, per non parlare del suo viso dai tratti estremamente femminili, circondato da lunghi capelli corvini che lo facevano scambiare per una ragazza.
Non sapeva come mai, ma l'idea di tagliare i capelli lo ripugnava e di essere scambiato per una ragazza, poco gli importava. Poteva quasi definirsi una raffinata arte di mimetizzazione.
Con un sospiro si strinse le ginocchia contro al petto, appoggiandovi poi la testa sopra. I capelli gli ricaddero di lato, solleticandogli le gambe nude e diafane. Continuò ad osservare le gocce di pioggia che si scontravano sul vetro della finestra, rincorrendosi l'un l'altra in una danza infinita.
Tutte le preoccupazioni e le insicurezze, sembrano venir fuori quando piove. E lui, in quel momento, ne aveva così tante che sarebbe potuto esplodere da un attimo all'altro.
Che cosa avrebbe fatto, se il suo nome fosse stato estratto? Come sarebbe sopravvissuto lui senza il suo aiuto? E lui, sarebbe sopravvissuto agli Hunger Games?
Lasciò che un altro sospiro fuoriuscisse dalle sue labbra, andando a creare una nuvoletta di condensa che formò un alone sul vetro su cui scrisse il suo nome.
Quella mattina il sole non sarebbe sorto, facendo capolino dalle solite nuvole e i suoi raggi non avrebbero sfiorato il suo viso per svegliarlo come di consueto.
Tutto, quel giorno, sembrava preannunciare la fine di quell'apparente felicità che per quei pochi anni erano riusciti a costruirsi attorno. Sembrava che il cielo piangesse la sua perdita, come se ormai fosse realmente destinato all'estrazione. Eppure il suo nome non appariva molte volte in quella boccia. Perché sarebbe dovuto capitare proprio a lui? Con uno scatto alzò la testa dalle ginocchia, ritornando in se. Lui non sarebbe stato estratto e tutto sarebbe andato per il meglio anche quell'anno.
Si liberò del lenzuolo che fino a quel momento aveva coperto solo i piedi. Con passo felpato si diresse in quella che era ormai abituato a considerare la “cucina”. Ridestò il fuoco nel piccolo camino, unica fonte di calore di quella vecchia catapecchia, e vi mise sopra il bollitore dell’acqua. Non potevano permettersi molto, già il pane era una lotta giornaliera ed una conquista, se non mancava. Quel giorno tutto ciò che poteva essere messo a bollire nell'acqua, erano delle erbe raccolte il giorno prima, ad un tiro di sasso da casa.
Quell'acqua non avrebbe mai avuto il sapore del The, ma almeno avrebbero potuto gustarsi un infuso che non fosse solo costituito da acqua e granelli di zucchero andati a male.
Aprì le ante dei pensili, cercando di trovare qualche pezzo di pane raffermo, che erano riusciti a scambiare al mercato nero con alcuni infusi, riuscendo a trovarne un unico pezzo. Quel giorno le provviste sarebbero arrivate e così avrebbero avuto della farina o del grano per poter sopravvivere qualche mese.
Mentre era intento a preparare la tavola spoglia e priva di qualsiasi ornamento, il rumore di alcuni passi riverberò per la casa annunciando la presenza dell'altro inquilino.
Il ragazzo sorrise, mentre la testa dell'altro comparve sulla soglia della cucina. Il suo viso era tracciato da profonde occhiaie, segno che anche lui, quella notte, non era riuscito a prendere sonno correttamente. Continuando a tener vivo il sorriso sulle labbra, il ragazzo accolse il coinquilino nella cucina che nel frattempo si era riempita del fischio del bollitore il quale annunciava l'ebollizione dell'acqua al suo interno.
L'uomo si sedette in una delle due uniche sedie poste vicino al tavolo e ringraziò con una smorfia, che doveva assomigliare ad un sorriso, stanca il più piccolo che in quel momento lo stava servendo.
I due non incrociarono gli sguardi neanche per un secondo. Entrambi pensavano alla stessa cosa: quello era il giorno della Mietitura. Dopo essersi servito a sua volta, il più giovane si sedette di fronte all'altro e prese a sorseggiare quell'intruglio dal sapore aromatico con un retrogusto un po' pungente.
Non si erano dati nemmeno il buongiorno, talmente la tensione li logorava. Non si erano rivolti alcuna parola, perché troppo impauriti da ciò che sarebbe potuto accadere di lì a poche ore.
Fu il più grande, poi, a spezzare il silenzio che da ormai mezz'ora regnava nella stanza.
-Se verrai estratto, conta solo su te stesso. Niente alleanze, niente giochetti strani. Combatti come ti ho insegnato.- le parole di Zabuza rimbalzarono nel cervello di Haku, trapassandolo come piccole lame di ghiaccio.
Haku conosceva perfettamente il suo sensei. Sapeva che lo aveva preso con se perché nessun altro lo voleva e per via delle sue abilità. Sapeva anche che non avrebbe mai potuto ricevere da lui dell'affetto. Ma nonostante tutto, era riuscito a legarsi a quell'uomo silenzioso, che lo allenava e preparava per qualcosa di così oscuro come gli Hunger Games.
Eppure, tutti gli anni ad ogni giorno della Mietitura sperava che la frase mutasse, che terminasse con una parola rassicurante. Per quel motivo, quella frase, lo trafisse ancora una volta.
Si limitò ad annuire, anche quello divenuto ormai il solito gesto per concludere la conversazione.
-Vai a prepararti, Haku. Metto a posto io.- a quelle parole il ragazzo annuì nuovamente, senza proferire parola e con amarezza si diresse in quella che doveva essere la sua camera.
Preparò con cura gli unici vestiti buoni che aveva e li portò con se nel bagno. Si lavò con minuziosità e lentezza, rendendo quelle azioni di tutti i giorni un rito del quale avrebbe potuto usufruire per l'ultima volta.
Legò i capelli in uno chignon alto, lasciando due ciocche libere dall'elastico nel quale aveva raccolto i suoi lunghi capelli, dopodiché indossò gli abiti scelti: dei pantaloni che raggiungevano la caviglia, un maglioncino e una tunica color verde.
Calzò i suoi infradito, nonostante la pioggia continuasse a cadere imperterrita al di fuori di quelle mura, e si diresse nella cucina dove Zabuza, già pronto, lo aspettava con il suo solito sguardo greve e distaccato.
Erano anni che vivevano assieme e non aveva mai visto quegli occhi cambiare espressione. Nonostante si lasciasse andare a qualche sporadico sorriso, come quello di poco prima durante la colazione, i suoi occhi non avevano mai mutato espressione o sentimento.
Ma Haku era affascinato da quello sguardo, da quegli occhi dello stesso colore della corteccia degli alberi, portavano dentro di loro la bellezza di luoghi lontani e mai esplorati.
-Siamo in ritardo, Haku e sai che io non tollero ritardi.- la sua voce era fredda, distante come il suo sguardo e le ossa del più piccolo quasi gelarono al suono di esse.
Con passo svelto si diressero nella piazza centrale del Distretto, dove ormai tutti i giovani si trovavano in fila come bestie pronte ad essere macellate. Era un terno al lotto l'estrazione: quest'anno tocca a “x” e “y”, l'anno prossimo ad “a” e “z”. Quasi si facesse la conta e primi due ad uscire fossero i predestinati. Haku si sistemò accanto ad un ragazzo che aveva visto qualche volta all'Accademia, non gli aveva mai rivolto la parola e, in quel momento, ne fu contento.
Più ci tieni e più hai da perdere. Se avesse fatto amicizia, con quel ragazzo per esempio, probabilmente l'idea di perderlo in qualcosa di così disumano, lo avrebbe distrutto. Mai, però, quanto l'idea di non riuscire a tornare e di lasciare da solo Zabuza. Eppure rivedeva i ricordi di se stesso all'Accademia, sempre in disparte, sempre il più diligente e quello più evitato. Se il primo giorno avesse provato a parlare proprio con il ragazzo di fianco a lui, probabilmente avrebbe avuto una vita sociale maggiore di quella che possedeva e che contava solo Zabuza e Capellaio, il suo coniglio.
Trovarsi lì, con al suo fianco quel ragazzo di cui ignorava persino il nome lo fece riflettere sulle tante occasioni mancate. Sorrise amaramente: se fosse stato estratto, se fosse stato "mietuto" non avrebbe avuto la possibilità di rimediare. Certo, a meno che non avesse vinto.
Il silenzio calò in tutta la piazza, mentre il sindaco incominciò il suo monologo su come Panem sorse dalle ceneri di quello che un tempo era il Nord America. Poi fu il turno della donna che, come ogni anno, era l'addetta all'estrazione dei nomi dalle bocce. Era la classica donna di Capitol City: vestiti stravaganti, trucco eccessivo e capelli dai colori sgargianti. Haku detestava la gente di Capitol City, ma, ancor più, detestava il modo in cui si vestivano.
Quei colori così sgargianti, quel trucco esagerato e quei sorrisi finti che ostentavano davanti a loro. Loro che indossavano quegli abiti grigi o dai colori spenti, tristi. Ma quella era Capitol: potevano permettersi l'eccesso, potevano permettersi di stare bene e non gli importava di sfoggiarlo davanti a quella gente che non possedeva nulla.
Con un sorriso, la donna si avvicinò al microfono dove pochi attimi prima il sindaco stava parlando. Osservò le persone nella piazza: ragazzi e ragazze con la stessa paura di essere le bestie da macello di quell'anno.
-Felici Hunger Games! E possa la buona sorte essere sempre a vostro favore!- un altro sorriso, per nulla falso quasi felice di essere la responsabile del destino di due ragazzi.
-Prima, le fanciulle!- esclamò con una gioia frizzantina a colorargli il tono della voce. Immerse la mano nella boccia, rimescolando i biglietti per almeno tre volte, Haku ne era certo, poi tirò su e si riavvicinò al microfono, trillando con voce tonante il nome di una ragazza sui diciotto anni che Haku non conosceva. C'era un silenzio rispettoso mentre la ragazza si dirigeva con sguardo rassegnato verso il palco. Ma Haku leggeva nei suoi occhi la paura, la tristezza e la rassegnazione. Per lei era finita.
-Ed ora, i fanciulli!- la donna di Capitol si avvicinò alla teca con i nomi dei ragazzi. Il cuore di Haku cominciò a battere all'impazzata, eppure, se qualcuno lo avesse osservato in quel momento avrebbe avuto davanti a se l'immagine della più completa calma.
La donna roteò la mano dentro la boccia dei ragazzi per cinque volte, poi estrasse ritornando vicino al microfono. Con una lentezza esasperante aprì il biglietto. Sorrise, quella donna, ignara di ciò che stava per distruggere, ignara della vita del ragazzo il cui nome era riportato su quel foglietto.
-Haku Yuki!- nella piazza calò nuovamente il silenzio, mentre il corpo di Haku si svuotò e il cuore sembrò fermarsi. Il suo sguardo corse ad incontrare quello di Zabuza che, neanche in quell'istante, aveva mutato espressione. -Forza, caro! Raggiungi la tua compagna di Distretto.- la donna continuò a sorridere, cercando di incoraggiare il ragazzo a raggiungere il palco. Quando le gambe di Haku decisero di muoversi, lo fecero con lentezza quasi si stessero lasciando per sempre dietro, passo dopo passo, un pezzo della sua anima.
-Ed ecco a voi, i Tributi del Distretto...- le orecchie di Haku non ascoltavano, i suoi occhi non vedevano. In quel momento gli sembrò di essere in una bolla. Quando lo condussero nel palazzo di Giustizia così che i famigliari potessero salutarlo, sembrò ridestarsi.
Lui era pronto a morire pur di garantire la sicurezza di Zabuza. Era pronto ad affrontare gli Hunger Games e avrebbe vinto, sarebbe tornato dal suo sensei, dimostrandogli che tutto il lavoro fatto insieme non era stato lavoro sprecato. Lui ce l'avrebbe fatta!
La porta della stanza in cui si trovava si aprì. -Avete solo dieci minuti.- il Pacificatore fece entrare Zabuza nella stanza, ammonendolo da principio su quanto il tempo fosse ristretto per quell'addio. Incredibile quanto sadico è l'uomo nei confronti dei suoi simili. Come si poteva dare così poco tempo a due persone per dirsi addio? Come se si potessero racchiudere anni di emozioni in dieci, semplici, minuti.
L'uomo si avvicinò al ragazzo, osservandolo con sguardo truce. Si inginocchiò davanti a lui, guardandolo seriamente gli strinse le spalle con le grandi mani.
-Ascoltami bene, Haku. Devi combattere. Devi impiegare tutte le tue forze, tutte le tue abilità e tutti gli insegnamenti in quell'arena.- ancora una volta, non una parola di conforto, non un'esternazione d'affetto più espansiva di quella stretta alle spalle.
-Se non riuscissi a tornare?- Haku era pronto a morire, non aveva mai avuto terrore di andarsene. Aveva il terrore di farlo senza riuscire a proteggere la persona che amava, senza dar prova della sua reale forza d'animo. Zabuza non rispose. Piantò lo sguardo in quello di Haku e amplificò la stretta sulle sue spalle.
-Segui i miei insegnamenti e tornerai.-
-Il tempo è scaduto.- la voce del Pacificatore proruppe nella stanza ponendo fine alla conversazione. Ancora una volta, Haku vide andar via la persona che amava senza che essa gli regalasse un briciolo di quell'affetto che segretamente andava ricercando.
Quello era stato il loro addio, perché Haku lo sentiva, non sarebbe tornato. Ancora non sapeva se per propria volontà o per quella di qualcun altro, non avrebbe fatto ritorno al Distretto. Non sarebbe tornato da Zabuza.
Non ricevette altre visite, ma d'altronde, non se le aspettava nemmeno. Non aveva amici, non aveva famigliari. L'unico amico, l'unica famiglia, l'unico legame che aveva era Zabuza che a modo suo gli aveva detto addio.
Qualche minuto dopo il Pacificatore di prima aprì la porta, annunciandogli che doveva scortarlo fino al treno che lo avrebbe condotto a Capitol City, verso il compimento del suo destino.
Mentre saliva su di esso, poi, provò un senso di abbandono. Quello, era il vero addio ad ogni cosa che conosceva: al Distretto, alla sua casa, al suo coniglio e a Zabuza.
Le porte del treno si chiusero di scatto, facendo sobbalzare la sua compagna di Distretto che era salita poco dopo di lui. Haku si affacciò dal finestrino, salutando con lo sguardo quello che un tempo era il suo tutto.

La porta si era richiusa. Il suono sordo di quel gesto lo inseguiva da quando aveva lasciato il Palazzo di Giustizia, creando in lui sensazioni che non riusciva a comprendere bene e che, per il momento, si limitava ad ignorare.
Stava tornando a casa, in quel momento, attraversò la piazza ancora ghermita di gente e poi imboccò la strada che lo avrebbe condotto alla catapecchia. Sentiva che c'era qualcosa di strano, Zabuza, in tutta quella situazione. Non riusciva a comprendere bene, ma era come se qualcosa mancasse.
Aprì la porta di casa, sicuro di trovare la tavola apparecchiata con le poche cose che Haku era riuscito a racimolare per quel giorno e quest'ultimo ad accoglierlo con il solito sorriso carico di parole non espresse, ma non c'era nessuna tavola apparecchiata e nessuno ad aspettarlo, se non Cappellaio, il loro coniglio.
Si richiuse la porta alle spalle, rendendo per l'ennesima volta vivo quel rumore che lo perseguitava.
Per distrarsi da quella sensazione sgradevole, cominciò ad apparecchiare la tavola e a cercare nei pensili qualcosa da mangiare. Riuscì a trovare una focaccina non lievitata e della marmellata di more selvatiche che Haku aveva preparato l'anno precedente con le more di una pianta che cresceva accanto alla recinzione.
Mise l'infuso avanzato dalla mattina a scaldare sul fuoco ancora miracolosamente acceso del camino e poi si sedette accanto ad esso, spalmando la marmellata sulla focaccina.
Così, Haku era stato estratto, mietuto come altri prima di lui.
Qualche ora dopo la televisione si accese, mandando in onda l'estrazione di tutti i Distretti. Quando arrivò il turno del suo, Zabuza lanciò uno sguardo assente allo schermo rivedendo il momento in cui Haku veniva estratto. Non ci aveva fatto caso, quella mattina, ma gli occhi del ragazzo erano vuoti, spenti, mentre con passo deciso si dirigeva verso il palco.
Fu in quel momento che capì realmente che cos'era quella sensazione di assenza.

Due giorni. Erano due giorni che rimaneva appostato su un albero, cercando di mimetizzarsi con le foglie.
Quell'anno gli strateghi si erano dati da fare e Capitol City non aveva badato a spese. L'arena era stata progettata in maniera eccellente e del tutto priva di punti ciechi in cui poter nascondersi e attendere che tutti gli altri Tributi si uccidessero a vicenda. Purtroppo ne rimanevano ancora troppi e, di sera, il cannone suonava sempre più raramente e i volti in cielo diminuivano.
Il primo giorno, alla Cornucopia, il classico bagno di sangue si era concluso con un totale di otto uccisi di cui uno, proprio da lui.
Ancora non si capacitava di come vi fosse riuscito, sapeva solo che era riuscito a prendere i senbon ed uno zaino e mentre si apprestava a correre verso la vegetazione più fitta, qualcuno lo aveva attaccato alle spalle. Non ci aveva messo molto a reagire: con rapidità aveva capovolto le posizioni e il senbon aveva squarciato la gola del Tributo.
Aveva passato giorni cercando di evitare qualsiasi altro incontro spiacevole. Quella prima uccisione lo aveva scosso, ma quando il gruppo di Favoriti si era avvicinato troppo al suo nascondiglio e aveva provato ad ucciderlo, le cose erano cambiate.
Si spostava spesso e rapidamente. Non gli era concesso interessarsi di inezie come la pietà. Uccidere o essere uccisi, non c’era altra scelta. Era diventato realmente un guscio vuoto. Era diventato realmente un guscio vuoto.
In quei due giorni di appostamento, stava aspettando il gruppo dei Favoriti. Li avrebbe uccisi senza alcuna pietà e sarebbe tornato a casa da Zabuza.
Attese, mentre il buio cominciava a calare e una strana sensazione cominciava ad impadronirsi di lui.
Alcune voci provenienti da est lo misero sull'attenti; impugnò i senbon avvelenati con il succo di alcuni Morsi della Notte che aveva trovato nei giorni precedenti e aspettò che le voci si fecero più vicine.
Quando cominciò ad intravedere le prime figure e i profili farsi delineati, lanciò i senbon, riuscendo a colpire due dei quattro Favoriti. Tese l'orecchio, ascoltando i passi degli altri due Tributi che passo dopo passo si avvicinavano a lui. Sorrise, mentre con calma scendeva dall'albero.
Mise i piedi sul terreno, fece un passo avanti e l'unica cosa che sentì, fu una lama fredda trapassargli il petto e due occhi color onice fissare i suoi con freddezza e distacco.
Quando la lama lo trapassò nuovamente, cadde a terra portando una mano al petto zampillante sangue; non sentiva più nulla ed ogni gesto che faceva era incontrollato, come se fosse stato un burattino a tirare i fili del suo corpo. Senza preoccuparsi della ferita, si limitò a chiudere gli occhi. Era finita sul serio. Haku Yuki non aveva vinto, non era tornato a casa.
E, ora, come avrebbe fatto seriamente Zabuza senza di lui? Si sarebbe continuato ad occupare di Cappellaio o di se stesso?
Il ragazzo sorrise. Che idee sciocche gli prendevano, alle volte. Zabuza ce l'avrebbe fatta sicuramente senza di lui. Era un grande uomo e, prima di Haku, non aveva mi avuto bisogno di nessuno. Sarebbe sicuramente andato avanti senza curarsi della sua morte e non avrebbe sentito la sua mancanza.
Sarebbe stato bene, Haku ne era certo.
Con il respiro affannato e la vista che ormai vacillava, alzò lo sguardo verso il suo assassino.
-Come si può vivere così?- la sua voce era poco più di un sussurro, un sussurro che, tuttavia, incuriosì il ragazzo di fronte a lui che con insicurezza si fece più vicino. -Morire qui, perché? Per chi?- la voce di Haku sembrò prendere musicalità, quasi stesse tentando di cantare. -L’inferno mai farà gli eroi.- il ragazzo di fronte ad Haku guardò l'unico altro Favorito rimasto in vita ed entrambi ascoltarono la cantilena di Haku. -Sentite noi, attenti a voi.- poi, i ragazzi cominciarono a ripetere quelle parole, cantando a loro volta, lanciando un grido verso il cielo artificiale dell'Arena sfidando qualcuno molto più grande di loro, mentre il cannone segnava la fine di Haku.

La telecamera notturna aumentò lo zoom, mentre la voce di Caesar commentava la tragica morte di Haku Yuki.
Ripeté i suoi risultati eccellenti nella prova individuale e ricordò ai telespettatori l'astuzia con cui aveva ucciso buona parte dei Tributi nel modo più silenzioso possibile e con una strategia che non si era mai vista negli Hunger Games.
Zabuza fissava lo schermo del televisore senza percepire realmente cosa fosse appena accaduto: la telecamera continuava a mantenere l'inquadratura su Haku, registrando i suoi ultimi attimi di vita. Il corpo del ragazzo cadde all'indietro, mentre, con un sorriso espirava l'ultimo respiro.
Il corpo di Zabuza non reagiva. Fissava lo schermo vuoto senza mostrare alcuna emozione. Qualcosa di caldo gli rigò una guancia ed egli si apprestò a raccogliere quella lacrima che dentro portava la tempesta.
Si avvicinò allo schermo, allungando una mano verso l'immagine del corpo di Haku; il ragazzo che lo aveva ucciso e il suo compagno, guardavano il suo corpo riverso a terra mentre con voce cadenzata cantilenavano una delle strofe più antiche di Panem. Tutti conoscevano quelle parole e Zabuza le aveva insegnate ad Haku in un giorno di calda estate mentre erano lontani da qualsiasi essere vivente capace di riprodurle. Sapeva che era stato Haku ad intonarle per primo, sapeva che lo aveva fatto per lanciargli un ultimo messaggio. Un messaggio che tuttavia sarebbe arrivato non solo a lui, ma anche a Capitol City e a Snow.
L'inquadratura si spostò bruscamente dai ragazzi e la mano di Zabuza si appoggiò sullo schermo del televisore nel punto esatto in cui pochi attimi prima giaceva l'immagine di Haku, del suo Haku, mentre l'altra corse a stringersi la maglia all'altezza del cuore. Sapeva che quei ragazzi, ora, erano spacciati e che in un modo o nell'altro gli Hunger Games non li avrebbero vinti loro.
Il messaggio che Haku aveva mandato era semplice: anche da morto, lui rimaneva il vincitore.
Quella notte, Zabuza, dormì uno dei sonno più profondi che avesse mai ricordato, senza risvegliarsi.

Il sudore imperlava la sua fronte e gli occhi erano spalancati, sbarrati da quell'incubo così dannatamente reale. I suoi muscoli non riuscivano a riprodurre alcun movimento, riusciva solo a guardare il soffitto cercando di calmare il suo cuore impazzito.
Era realtà o un incubo?
Rimase alcuni minuti nel letto, cercando di scacciare via quella sensazione di assenza e smarrimento che gli pervadeva ogni cellula del corpo.
Prese un profondo respiro per poi riuscire a darsi un colpo di reni e finalmente alzarsi dal letto; percorse quella poca strada che lo divideva dalla camera di Haku con una lentezza degna di una tartaruga.
Chiuse gli occhi e aprì la porta. Li riaprì: vuota.
Cercando di non farsi prendere dal panico, cosa che sarebbe stata decisamente poco consona all'immagine che voleva dare di se anche quando non c'era nessuno a guardarlo, percorse la strada verso la cucina con, se possibile, ancora più calma.
Con passo incerto si affacciò dalla porta, pronto a trovare vuota anche quella stanza rendendosi realmente conto che quello non era stato semplicemente un incubo ma che il tutto era dannatamente reale.
-Buongiorno Zabuza-sensei! Vi siete agitato molto questa notte, vi ho preparato una tisana calmante.-
-Sei vivo?- il volto di Haku, a quelle parole, prese una smorfia preoccupata come se vedesse riflesso in lui un principio di pazzia.
-Certo Sensei.- assicurò con voce seria, appoggiando la tazza con la tisana sul tavolo di fronte alla sedia dove era solito sedersi Zabuza. -Perché non dovrei esserlo?-
-Sei morto negli Hunger Games, Haku.- sicuramente, il suo Sensei era diventato pazzo. Il volto del più piccolo si lasciò andare ad un sorriso di comprensione. -No, Zabusa-san. Sono vivo e vegeto, glielo assicuro. Probabilmente ha solo avuto un incubo.-
-Venivi estratto, Haku. Esattamente venti giorni fa.- il ragazzo preso un profondo respiro, avvicinandosi a Zabuza con cautela incerto su quanto la mente di quell'uomo fosse stabile in quel momento.
-Oggi è il giorno della Mietitura, Zabuza-san.- gli ricordò Haku con fare esasperato. - Dovresti smetterla di bere quel liquore scadente che scambi con quelle foglie di tabacco selvatico che crescono poco distante dalle more.-
Haku prese in braccio Cappellaio con fare tranquillo, accarezzandogli il pelo bianco e soffice; Zabuza era rimasto sullo stipite della porta ad osservare il più piccolo, senza sapere cosa fare. Poi, si convinse che era reale, che non era morto.

-Siamo in ritardo, Haku e sai che io non tollero ritardi.- la frase gli rotolò fuori dalle labbra quasi automaticamente, riportando alla mente di Zabuza quell'incubo, dalle fattezze reali, che la notte prima lo aveva tormentato e spaventato.
-Scusami Zabuza-san.- il capo di Haku si abbassò in segno di scuse. Da sotto le bende che coprivano la sua bocca, il più grande lasciò che le sue labbra si increspassero in un sorriso.
Uscirono di casa, una sensazione di mancanza gli attanagliò lo stomaco e gli strinse il cuore.
Ce l'avrebbe fatta senza di lui?
Quasi voleva ridere mentre si faceva quella domanda. No, non sarebbe riuscito a vivere in un mondo in cui Haku e la sua poco ingombrante presenza non c'erano.
Assorto nei suoi pensieri non si accorse che avevano percorso l'intera strada per arrivare alla piazza.
Erano lì, nel luogo dove si decideva il destino di due poveri ragazzi. Haku continuò ad andare avanti per prendere posto nella piazza ormai ghermita di gente che in silenzio attendeva.
Di nuovo, la sensazione di assenza lo pervase e il ricordo dell'incubo di quella notte riaffiorò nella sua mente, mostrandogli proprio l'istante che stava vivendo. Non avrebbe commesso lo stesso errore. Non lo avrebbe lasciato andare così. Con passo svelto raggiunse Haku, che nel frattempo tentava di prendere posto tra due ragazzi alti e robusti. Lo agganciò per un braccio, facendolo voltare verso di se. Il ragazzo lo guardò con un misto di sorpresa e ansia riflessi negli occhi. Il suo Sensei era veramente strano quel giorno.
-Ho sempre pensato che fossi la persona migliore a cui donare il mio affetto.- allungò la mano verso la sua guancia, deciso a dargli quell'affetto che per tutti quegli anni gli aveva negato.
Haku non reagì, i suoi occhi gli pizzicavano e il cuore gli batteva all'impazzata. La mano di Zabuza si appoggiò sulla sua guancia. Morbida, calda. Quel calore, quel viso, era casa.
Quando lo lasciò andare, Haku si mosse automaticamente prendendo posto accanto ad un ragazzo di cui non conosceva il nome; tutto gli scorreva intorno come se lui andasse più veloce degli altri. Non sentiva nulla, tranne le parole di Zabuza e non percepiva niente, se non il suo tocco.
Quando chiamarono il tributo femmina, le sue orecchie non ascoltavano. Fu quando chiamarono il tributo maschio che sembrò ridestarsi.
Il ragazzo accanto a lui sembrava indossare una maschera tanto fredda era la sua espressione. Si mosse con lentezza, firmando il contratto con il suo destino nel momento in cui raggiunse il palco.
Haku non si era accorto di aver trattenuto il respiro fino a quel momento. Quando riprese a farlo con regolarità, si voltò verso Zabuza.
In quel momento il suo viso mostrava qualcosa che Haku non gli aveva mai visto esprimere: sorrideva.
Il ragazzo non riuscì a far altro se non sorridere a sua volta.

   
 
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