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Autore: Subutai Khan    04/07/2008    5 recensioni
Matteo Valisi è un uomo felice. Non perché abbia un buon lavoro. Non perché sia particolarmente attraente. Non perché abiti in una bella casa, grande e ben arredata.
Matteo è felice per un motivo molto più importante: ha trovato l'Amore. Quello con la A più che maiuscola.
Darebbe la vita per la sua compagna se questo potesse esserle di qualche giovamento.
Immaginatevi come deve stare nella situazione attuale, nella quale anche questo nobilissimo proposito è del tutto inutile. Nient'altro che vuote parole gettate in un vortice di sangue e rassegnazione.
Genere: Drammatico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Seduto su una sedia al margine del letto. Lei è di fronte a me, addormentata.
Bagnata dalla fioca luce della luna che filtra dalle finestre sembra ancora più bella, se possibile. E no, so che in realtà non lo è.
Le stringo la mano. Le accarezzo, con quanta delicatezza sono capace, la guancia un pochino arrossata dal caldo.
Mi si increspano involontariamente le labbra nel vederla così pacifica, così rilassata, così beatamente sprofondata in un sonno che le sta regalando un magnifico sorriso.
Se solo potessi... cristallizzarla così.
Quanti patemi ci eviterei. Quante lacrime non verseremmo. Quanto dolore ci risparmieremmo.
Mi alzo senza far rumore, leggermente tremolante, mentre il mio sguardo si separa dal suo. Dirigendomi in cucina sbatto involontariamente contro uno spigolo e trattengo un gemito.
Maledetti, me e la mia insulsa abitudine di annaspare al buio pur di non accendere gli interruttori.
Quando sono abbastanza lontano dalla camera da letto finalmente inondo la stanza di luce. L'improvvisa esplosione mi stordisce un attimo e con la mano copro gli occhi, per dar loro il tempo di abituarsi.
Ho perso il sonno. Mi sono svegliato a causa di qualche rumore e poi non sono riuscito a rimettermi a dormire.
Mi capita un po' troppo spesso, ultimamente.
Sono tempi difficili, questi, per noi. Troppo difficili. Per me e soprattutto per lei.
Mi siedo sconsolato al tavolino dopo essermi preso una birra fredda dal frigorifero. Pian piano che questa scena tendeva a ripetersi, col susseguirsi delle notti, un giorno ho ben pensato di far scorta di bionde per provare ad allietarmi le maratone in bianco. Pretesa un po' vana, a ben vedere. Non basta di certo questa... roba per placarmi. Come potrebbe?
I sorsi si susseguono, uno dietro l'altro. Se dovessi caratterizzarli a tutti i costi direi che sono disperati. Nervosi e senza godersi minimamente quello che si sta bevendo, che se fosse acido muriatico sarebbe tanto uguale.
Sono gesti di stizza, di rabbia, di frustrazione.
La mia vita scivola lieve verso il baratro. Ce la sta trascinando un evento sconvolgente, di cui sono venuto a conoscenza troppo poco tempo fa. Non che sarebbe cambiato qualcosa.
Lei, Giulia. La sola persona che abbia mai potuto chiamare “amor mio”. Perché la amo, tantissimo.
Mi sta per lasciare. Per sempre. Non la rivedrò più.

Avevamo sedici anni io e diciassette lei quando ci siamo conosciuti per la prima volta.
Stampata in questa mia povera testa è la giornata teatro della lietissima circostanza: quella mattina di inizio ottobre la voglia di andare a scuola rasentava lo zero. Era pure un lunedì, figurarsi. Reduci dai bagordi della domenica, e con ancora le scorie di quelli del sabato, io e un gruppetto di compagni decidemmo bellamente di fare filone e di imboscarci quatti quatti nel bar a qualche isolato di distanza dal grande, inquietante, paurosissimo cancellone d'ingresso.
Si entrò con la massima circospezione, il rischio di farsi vedere da qualche professore pelandrone era discretamente alto e già avevamo nomea di quelli che non si facevano scrupoli nel non mettere nemmeno piede in aula. Appena fatto il nostro ingresso nell'amichevole luogo di ritrovo, però, gli sguardi vigili e sull'attenti lasciarono giustamente spazio alla voglia di passare qualche ora di totale, completo e meritatissimo relax senza pensieri. Ci fu chi si avventò sulla Gazzetta dello Sport, chi si attaccò immediatamente ai videogiochi urlando “Oggi finalmente te lo spacco il culo a Tekken II” e chi, più tranquillamente, si avvicinò al bancone per farsi dare da Gianluigi, il nostro barista di fiducia, un buon caffè e una brioche. Nell'ultima categoria rientrò anche il sottoscritto. Insieme a Luca, inseparabile amico di scorribande assortite, facemmo un cenno di saluto.
“Yo Giangi, come ti butta vecchia ciabatta?”.
Lui era di spalle. Finì di lavare un bicchiere senza degnarci di una risposta, poi si voltò verso di noi e con quel suo bel sorriso bonario, da persona che sa sopportare le prese in giro, ci apostrofò per l'insolenza. Al suo rimarco rispondemmo sfottendolo ancora un po' e, fra una risata e l'altra, trovammo la forza di ordinare la colazione. Prima di servirci, però, mi fece cenno di avvicinarmi. Quel che mi sussurrò all'orecchio mi lascia di stucco ancora oggi: “Ehi Matteo, ma non ti sei accorto che quella bella biondina nell'angolo è sempre qui e quando entri ti trapana ogni volta con gli occhi?”.
Cascai dalle nuvole prendendo una culata senza precedenti. No che non me n'ero mai accorto, idiota che non ero altro.
Luca, da buon bastardo che era, aveva origliato tutto. Mentre ci dirigevamo al tavolo con le nostre cibarie non poté fare a meno di confermare la rivelazione.
“Sei proprio tonto, comunque. Anche un cieco avrebbe notato che quella tipa ti mangia tutto ogni cazzutissima volta”.
“Senti Lù, lo sai che io a queste cose non ci bado. Ho ancora il cuore infranto...”.
“... per via di Francesca. Lo so. Sarà solo la miliardesima volta che me lo ripeti”.
“Non sei gentile col tuo miglior amico”.
“Non è questione di essere gentili. La storia con quella stronza dovrebbe essere acqua passata, ormai. È stata crudele con te, oltre ogni limite umano. Ti ha trattato come uno schiavo negro senza neanche darti l'illusione di una contropartita. Tempo di muoversi fuori, caro mio”.
“Facile per te che hai la ragazza da... quanto, due anni?”.
“Due e mezzo, smemoratello. Magari sì, la faccio facile. Ma quel che sto cercando di dirti è in realtà molto, molto semplice: alza le chiappe. Posso capire che la ferita sia ancora fresca ma perché privarti di una possibilità che, chi lo sa, potrebbe rivelarsi quella giusta? Io non te lo posso dire per certo, è chiaro, ma se non rischi non lo saprai mai. E poi, se mi è concesso dirlo, quella ha un gran bel fondoschiena”.
Un istinto vagamente animalesco, di cui ogni tanto ancora mi vergogno, mi fece voltare nella sua direzione per appurare quell'ultima affermazione. Ebbi la fortuna di centrare un momento in cui non guardava verso di me, visto che si era appena alzata dalla sedia e mi dava le spalle, e dovetti confermare la lingua lunga di Luca. Aveva veramente un signor sedere. Snello e tornito, ci era attaccato sopra un cartello con su scritto a caratteri cubitali “prendimi e palpami tutto”.
Girai rapido lo sguardo per evitare che si accorgesse delle mie attività voyeuristiche sulla sua attrezzatura. Non potei però non lasciarmi scappare uno “slurp” che fece rotolare per terra dal ridere il mio furbissimo amico.
Da quel momento, però, l'incidente nella mia testa era considerato chiuso. Avevo solo voglia di mangiare quella benedetta brioche alla marmellata che, dal suo piattino, mi invitava maliziosa a morsicarla. E il caffè si stava pericolosamente raffreddando: Dio solo sa se odio bere il caffè freddo. All'affascinante sconosciuta ci avrei, magari forse non si sa, pensato in un secondo o terzo momento.
Assaporai con golosità il momento in cui afferrai il cornetto fra le mani. Ero sempre più attratto dalla sua forma bizzarra, uscita un po' male da quelle orrende macchine industriali che ormai producono in serie tali prelibatezze. Quasi mi spiaceva rovinare coi miei voraci denti quella che consideravo non dico un'opera d'arte, ma poco ci mancava.
Stavo finalmente per mettere le fauci sul mio tesoro scintillante quando mi cadde per caso l'attenzione su Luca. La sua mascella stava toccando la superficie del tavolo, sul serio. Beh, non proprio sul serio ma immagino solo perché lui non era Reed Richards dei Fantastici Quattro, cioè l'uomo elastico. Lo sforzo per compiere quest'impresa fisicamente impossibile ce lo stava mettendo, eccome se ce lo stava mettendo.
Per un attimo mi preoccupai seriamente, non l'avevo mai visto così: “Lù? Tutto bene?” chiesi, evidente un'inclinazione di timore.
Boccheggiava, il poveretto. Si vedeva chiaro il suo tentativo di raccattare abbastanza ossigeno e abbastanza coraggio per rispondermi. Fallì.
Dovette, per forza di cose, limitarsi ad alzare un dito indicando un punto dietro di me. I suoi occhi sbarrati non volevano saperne di muoversi da ciò che stavano guardando, qualunque cosa fosse.
Nell'istante prima che potessi voltarmi una mano sulla mia spalla.
“Ciao. Tu sei Matteo, vero?”.
Roteai velocissimo la testa, scombussolato da questa voce a me ignota.
Era lei. Miss Ho-un-Culo-Clamoroso.
Per dieci secondi ogni mia funzione vitale cessò. Niente respiro, niente battito cardiaco, niente flusso del plasma nelle vene. Niente di niente.
Ragazzi, era uno schianto. U-n-o s-c-h-i-a-n-t-o.
Capelli ricci e corti con un taglio delizioso, biondissimi ma nel contempo un po' striati di scuro per un qualche gioco di luce che non ho mai capito; occhi favolosi, di un verde che al confronto lo smeraldo più prezioso del mondo potrebbe andare a nascondersi per la sua inutilità; lineamenti signorili, aggraziati e di un'armoniosità atrocemente perfetta; la fossetta sul mento, qualcosa di così vezzoso e carino che qualunque feticista sarebbe impazzito dalla gioia; un sorriso assassino; un corpo che mozzava non solo il fiato, ma anche le palle.
Voglio quest'immagine sulla mia tomba. Senza di essa la mia vita sarebbe stata completamente vuota.
Sentii la perfida mano di una qualche entità superiore che mi stava allegramente rosolando sulla griglia, fischiettando un motivetto insensato.
Balbettai una risposta di una stupidità disarmante, cosa che non fece altro che allargare la sua luminosità sino ad abbacinare chiunque fosse abbastanza vicino. Ci fu un lamento del benzinaio dall'altra parte della strada.
“Posso sedermi vicino a te?” cinguettò, spero non a conoscenza dello stato catatonico totale nel quale mi aveva precipitato con il suo solo essere lì.
Feci di sì con la testa, sempre più intontito, e mi scansai quel tanto che bastava per farla accomodare alla mia sinistra.
Non le staccai per un solo istante lo sguardo di dosso mentre si sedeva con dei movimenti quasi ipnotici. Lei fece lo stesso, intendo che non si schiodò da me.
Stava per cominciare a parlare quando, del tutto inaspettato, il rossore tipico dell'imbarazzo le riempì le guance.
Alt, frena: io me ne sto bel bello per i fatti miei al bar durante una mattinata in cui ho saltato scuola, mi vengono a dire che una tipa mi farebbe il filo da lontano e quando la suddetta tipa, che scopro essere la versione italiana di Claudia Schiffer, mi approccia è lei a diventare rossa come un pomodoro? Solo a me questo sembra un sogno particolarmente fausto?
“Ehm, ecco...” cominciò, tentennando paurosamente “... sai, ti vedo... ti vedo spesso venire qui e mi chiedevo... ecco... se ti andava... non so, un giorno di questi se... volevi prendere... non so, un caffè o qualcosa... tipo un caffellatte o... una cioccolata o un... tè... con me...”.
Da buon cretino quale sono sempre stato feci una fatica boia a trattenermi. Non ci posso fare niente, scene del genere esercitano su di me l'innata e sempre ben accolta capacità di farmi scoppiare a ridere in modo assolutamente spensierato. Specialmente l'accoppiata “tè con me” mi scatenò l'ilarità. Luca, da buon miglior amico che si rispetti, prese in mano la situazione e mi rifilò un bel calcione sugli stinchi, forte abbastanza da lasciarmi il livido per i successivi quattro giorni e la camminata un poco zoppa per i successivi sei. In quella scarpata, sulla punta dei suoi anfibi, si poteva leggere chiaramente “Ma stupido demente, la vuoi far scappare prima ancora di aver cominciato anche solo a parlarle?”.
“Scusa, scemo ok ma col cervello fritto in salamoia no. Lo sai come reagisco a queste cose, non farmene una colpa eccessiva” fu la risposta che gli trasmisi senza parole. Dovetti però convenire che, al solito, aveva ragione.
Tentai goffamente di riassumere un contegno un minimo presentabile, seppur con uno sforzo sovrumano dato che sentivo prepotente lo stimolo di sorridere senza ritegno e riprendere da dove avevo finito pochissimi attimi prima.
“Ehi, tutto bene?” fece lei quando si accorse che mi stavo massaggiando la parte offesa dal calcio. Maledizione se faceva un male cane.
“Sì sì, tranquilla...”. E trasalii. Non sapevo nemmeno come si chiamasse.
“Giulia” completò lei per me, neanche mi avesse letto nel pensiero.
Cioè, un'indovina col corpo di una fotomodella? Era decisamente la mia giornata fortunata, quella.
“Oh, che bel nome” mi lasciai sfuggire, ingenuamente. Ma era vero, lo trovavo un nome dalla sonorità piacevole. Adesso è molto di più.
“Grazie, sei gentile” disse incerta. Ebbi come l'impressione, oltre al velo impacciato che ancora le copriva il volto, di vedere del fumo venir fischiato fuori dalle sue orecchie. Brutti scherzi di una mente adolescente. Che poi, a ripensarci ora, mi viene da sogghignare perché la prima cosa che mi salta in mente è il fatto che lei fosse a disagio nel parlarmi. Ma non è mica che io sguazzassi nella baldanza, tutt'altro. Ero imbarazzato quanto, se non più di lei.
Difatti ci misi tipo cinque minuti per accettare il suo invito a consumare qualcosa insieme. Però poi, in un per me inusuale impeto di entusiasmo, dissi qualcosa sulla falsariga di “Perché aspettare? Siamo qui adesso. Ti offro da bere”.
Le ore passarono troppo in fretta e, dopo aver chiacchierato in maniera a dir poco piacevole per tutto il tempo, ci lasciammo con la promessa di ritrovarci il pomeriggio stesso sempre lì, da Gianluigi 'O Zozzone.
Uscii da quel bar fluttuando a dieci centimetri da terra.

Mmmh... amore...
Allungo annaspando un braccio alla mia sinistra per abbracciarlo. Non lo trovo.
“Amore, ci sei?” chiedo, la voce impastata dal sonno.
Ispeziono meglio il lato del letto, Matteo ha il vizio di muoversi moltissimo e potrebbe aver assunto una strana posizione. O essere caduto per terra pur continuando a ronfare. Non sarebbe neanche la prima volta che succede.
Poi, dopo qualche secondo di ricerca a vuoto e ormai sveglia, con l'altro braccio accendo l'abat-jour. Con un po' di fatica mi abituo alla nuova luce.
Lui non c'è. Il suo posto è vuoto.
“Ehi scemo, dove sei finito?”. Nessuna risposta.
Mi alzo, un pochino preoccupata. Recupero la vestaglia, appoggiata con poca cura su una sedia lì vicino, e me la infilo svelta. Quando rivolgo lo sguardo verso la porta d'ingresso della camera, ecco che finalmente mi rendo ben conto di dov'è. Filtra della luce dalla zona giorno.
Inforco anche le ciabatte, mi strofino gli occhi ancora appesantiti e mi dirigo sbadigliando verso il soggiorno.
No, non è qui. Tutto buio.
Mi avvedo solo in questo momento della porta della cucina appena socchiusa e del rumore di una lattina che viene aperta. Non posso sbagliarmi, l'unica altra fonte di onde sonore è il mio respiro che, per quanto corto sia, non assomiglia a niente del genere.
Percorro il tratto che mi separa dal mio traguardo e, una volta giuntaci, sporgo timidamente la testa dentro la stanza. Finalmente lo vedo: è seduto al tavolino, con in mano la suddetta lattina e almeno tre cadaveri di sue compagne che sono già finite giù per la sua gola.
Non si è ancora accorto della mia presenza.
Lo sottoporrò a una piccola prova: quanto ci impiega a capire che non è più solo.
Cerco di non fare nessun rumore per non facilitargli il compito. E da qualche secondo la routine di inspirare ed espirare si è fatta più dolorosa, quindi abbasso volontariamente il ritmo. Ci dovrei essere abituata, ormai, ma punge ogni volta.
Un mancamento mi costringe a sorreggermi alla maniglia con entrambe le mani per restare in equilibrio. Le gambe mi si sono fatte pesanti. Anche in questo caso niente di nuovo, ma reprimo un piccolo moto di rabbia al solo pensiero che faccio fatica a stare eretta da sola.
Che rottame sono diventata.
E dire che ho solo ventinove primavere sulle spalle. Se mi avessero detto, anche solo una decina di anni fa, che sarei finita così mi sarei messa impietosamente a ridere, del tutto incredula a una simile prospettiva.
Mio nonno, buon'anima, me lo diceva sempre quand'ero uno scricciolo, mentre mi accarezzava affettuoso i capelli con l'ossuta mano: “Dolce Giulia, non aspettarti che la vita sia una passeggiata al parco. Non sarà di certo solo lacrime, sudore e sangue ma non sarà neanche solo l'opposto. Soffrirai, bambina mia. È inevitabile”. E io, dalla mia comoda posizione sulle sue ginocchia, mi ficcavo un dito in bocca pensierosa e cercavo di farmi spiegare meglio il concetto. Ero davvero troppo piccola per poterne afferrare la magnitudine.
Ora il peso di quelle parole mi schiaccia ogni giorno.
Si volta di scatto e mi vede. Fine del giochino.
“Da quanto sei lì, matta? Prenderai freddo. Torna a letto, su” dice, genuinamente preoccupato mentre si alza e si avvia nella mia direzione, lo sguardo vagamente velato di lacrime non piante.
Faccio per avanzare di qualche passo quando perdo maldestramente la postura e minaccio di precipitare in avanti. Ma basta un suo balzo e atterro soffice nelle sue grandi, accoglienti braccia.
Non muscolose, non palestrate. Solo innamorate.
Mi lascio cullare da tutta la sua tenerezza, realmente sconfinata, mentre mi riaccompagna verso la camera. Incapace come sono di riuscirci da sola senza inciampare, senza cadere per terra, senza intoppi vari ed eventuali. Troppo stanca per oppormi, né intenzionata a farlo.
Questa mia debolezza mi disgusta e nel contempo mi trancia le gambe. Non solo fisicamente.

“Mi sposerai?”.
Gli occhi di Matteo scintillarono mentre pronunciò queste parole. Si vedeva che il suo era un sentimento autentico, di quelli che smuoverebbero i massi con la loro sola spinta. Le dita che reggevano l'anello di fidanzamento tremavano, ansiose ed eccitate.
Un brivido mi salì lungo la spina dorsale.
Dovetti dirglielo. Ora o mai più, aggiunsi mentalmente.
“No”.
Il peso specifico del mondo quadruplicò nel giro di otto millesimi di secondo. Le sue spalle, prima ritte come se fossero state sostenute da dei ganci invisibili, cedettero di schianto e lui si lasciò sprofondare nella sedia.
Mi sarei aspettata che tutti i clienti del ristorante dove ci trovavamo, parte della sua richiesta perfetta e degno coronamento di una storia da favola, si voltassero scioccati verso di noi. Ovviamente non successe. Non so perché mi attendessi una scena del genere. Non eravamo in Harry ti Presento Sally, dopotutto.
Il suo volto, prima l'epitome della felicità, ospitava in quel momento tuoni, fulmini e saette. Lo potei capire, figuriamoci. Sapevo che la prima risposta gli avrebbe spezzato il cuore.
“Giu-Giulia... perché?... io credevo che tu mi amassi...”.
“Potrei essere ancora più crudele e dire che, se il dubbio ti ha anche solo sfiorato, non mi conosci per niente. Ma non lo farò, è già abbastanza dura così. Ho una rivelazione da farti. È il motivo per cui non posso sposarti; o meglio, per cui ho deciso di non sposarti anche se ogni fibra del mio corpo mi implora di ripensarci e accettare gettandoti le braccia al collo”.
Un lungo, penoso, sanguinante momento di silenzio tombale.
“Sono malata, Matteo. Ho la leucemia. Leucemia linfoblastica acuta. Sopravviverò al massimo due, due anni e mezzo”.
Giurai di vedere la sua faccia andare in frantumi.
Balbettò sconnessamente, continuando a ripetere “perché” più all'aria che realmente rivolto a me.
Non soffocai un risolino: “Perché non ti ho detto nulla? Oh, adoro completare le tue frasi, sin da quel lunedì di ormai parecchi anni fa. Comunque non serve che tu faccia strane assunzioni psicologiche o complicati schemi. L'ho scoperto io stessa meno di una settimana fa. Quando sono andata per quel check-up, ricordi?”.
“Sì, certo. Per via di tutti quei disturbi che hai accusato ultimamente” commentò, apparendo più asettico di quanto sono sicura avrebbe voluto. Credo si stesse sforzando di mantenere un contegno, ma già minacciava di bagnarsi il viso.
“Esatto. Debolezza diffusa, dolori muscolari e articolari, difficoltà a respirare. Quando ho visto il dottore portarmi il plico con i risultati delle analisi ho creduto di schiattare lì: aveva un'espressione di un torvo che non avevo mai visto in nessuno”.
“E?”.
“E cosa? Non è stato cerimonioso. Signorina, lei ha la leucemia. Vuole iscriversi alle liste per i trapianti di midollo osseo?. Così, come un TIR in pieno stomaco. Ho assunto la tua postura attuale, completamente schiacciata dalla notizia. Mi sono chiusa in bagno e ho pianto quelle che credevo fossero tutte le mie lacrime. Pia illusione, quest'ultima”. Mi interruppi un attimo per ricacciare in gola un singhiozzo, spettro di quei tremendi momenti. “Poi mi sono guardata allo specchio, il trucco tutto colato sulla faccia e gli occhi gonfi, e ho tirato un pugno al vetro, sopraffatta dall'agonia”. Un'altra pausa, un piccolo rifiatare e via, sotto di nuovo con la tortura. “Risultato? Mi sono tagliata in sei punti e ho scoperto lì che i malati di leucemia non cicatrizzano bene le ferite. Ecco perché ho avuto la mano fasciata per tre giorni, mica per quella balla che ti avevo raccontato. Dovevo cambiare le bende mattina e sera, altrimenti giuro che sarei potuta sembrare un macellaio dopo che ha appena squartato un capretto”.
“Ma... ti sottoporrai presto al trapianto, no?”. Una fioca luce speranzosa fece capolino nei suoi occhietti appannati, che ero abituata a riconoscere come vispi e vitali.
“No”.
Stilettata come il colpo di un cecchino esperto e morte della luce. Definitiva.
“Cosa vuol dire no?”.
“Non c'è un solo donatore compatibile con me. Ho cercato in genitori, fratelli che non ho, sorelle che nemmanco ho, cugini, zii, discendenti ed antenati. Niente. Non un solo, maledettissimo midollo osseo adatto. Madama Sfiga colpisce ancora, a quanto pare”. Sputai queste ultime frasi quasi con astio, contrariata verso un non ben precisato dio che pare divertirsi alle mie spalle.
Strinse con una mano un lembo della tovaglia che, fosse stata una persona, sarebbe soffocata da qualche minuto.
“No... questo non è vero...” mugugnò, comprensibilmente scioccato dalle pessime nuove.
Alzai appena gli occhi al cielo. Lo sa che non deve inzigarmi dal lato quasi-professionale, lo sa. Eppure persiste nel gettarmi di fronte comportamenti da manuale.
“Fase del diniego, prima delle cinque fasi del dolore. Elisabeth Kübler-Ross, Sulla Morte e sul Morire, 1969”. Snocciolai i dati con una sicurezza decisamente invidiabile. Sono preparatissima sull'argomento, seppur in quel preciso momento non servì a nulla se non a inquietarlo ulteriormente. “Su su, non guardarmi con quella faccia sconvolta. Sono laureanda in psicologia, potrò almeno conoscere i capisaldi e bullarmene. Per quanto mi riguarda ho saltato a piè pari questa, passando subito alla fase della rabbia, e ora credo di stare per approcciarmi, seppur lentamente, a quella dell'accettazione”.
“Come puoi... essere così fredda?”.
“Fredda? Spaccarsi una mano prendendo a pugni uno specchio ti sembra un comportamento freddo? Ero irata come mai lo sono stata. E anche adesso, in realtà, sto un po' fingendo. Sono terrorizzata. Terrorizzata. Non voglio morire. Sono appena ventisettenne: voglio prendere quel diavolo di foglio di carta in quella diavolo di università; voglio vedere certi posti nel mondo; voglio stare con te per più di dieci, miseri anni”.
“Questa... che hai appena detto... è una cosa dolcissima”. disse tutto emozionato, lo sguardo di un cucciolo a cui hanno appena fatto il regalo più bello del mondo.
“Sì, beh, sai che non sono brava con le uscite romantiche e che, dopo tutto questo tempo, a volte vado ancora nel pallone quando ti rivolgo la parola. Ma lo penso davvero, questo: venderei l'anima a Satana pur di poter rimanere qui abbastanza per starti vicina, amarti e onorarti... come moglie. Ops, fase del patteggiamento”.
“Vada dove penso io la fase del patteggiamento, insieme alla signora Cubetto-Rosso. Giulia, mi stai dicendo... che ci hai ripensato?”.
“Sì. Non posso vivere senza di te, Matteo. Sei il mio faro nella notte, il mio lampo nell'oscurità e tutta una lunga scarica di luoghi comuni che, però, sono assolutamente veri. Si impicchi la leucemia. Morirò come tua consorte”.
“Non so se piangere o abbracciarti”.
“Fai entrambe le cose, scemo. Oggi è giorno di giubilo e di lutto”.

Lungo la strada per tornare a letto ho avuto altri due semi-svenimenti. Per fortuna il mio baldo marito non mi ha mollata un solo secondo e mi ha sempre sorretta, aiutandomi a rimettermi in piedi.
Avrei reagito molto peggio, quando ho scoperto di essere malata, se Matteo non ci fosse stato. Probabilmente sarei andata avanti a frantumare innocenti vetri, procurandomi solo una lunga serie di abrasioni e la rabbia necessaria per proseguire pressoché all'infinito il circolo vizioso. Invece lui, da bravo trasformista, ha preso le sembianze di una stampella e mi ha permesso di usarlo come sostegno nel cammino verso la bara. Certo, se solo avessi potuto sarei fuggita urlando dalla parte opposta. Ma visto che questo è del tutto inevitabile ho pensato bene di rendermi il viaggio un po' meno faticoso, per quanto mi era concesso.
Sì, la mia maestra spirituale sarebbe fiera di me. Ho sempre ammirato dal profondo il lavoro della dottoressa Kübler-Ross e mi sarebbe piaciuto tantissimo, una volta strappata quella dannata laurea dalle grinfie del Rettore Magnifico Immenso Galattico, poter proseguire i suoi studi in questo affascinante campo. Passare da psicologo a paziente è stato meno affascinante, ma la vita mi ha servito questa mano e ho già cambiato tutte le carte che potevo.
Il giorno del matrimonio, appena usciti dalla chiesa, ho pianto come una bimba sperduta nel bosco di notte. Avevo il cuore sganciato da qualsiasi costrizione per la gioia che vi ardeva e nel contempo una mannaia vi era ben piantata in profondità, sapendo che quella cosa meravigliosa sarebbe presto svanita come neve al sole.
Sul viale del mio tramonto non posso che confermare con forza il vecchio detto meglio aver amato e perduto che non aver amato mai.
Cosa avrei avuto, dal susseguirsi delle mie ore, se quel giorno della mia giovinezza non avessi raccolto il coraggio a quattro mani e non mi fossi fatta sotto, sconfiggendo sonoramente la paura del rigetto e la mia congenita timidezza?
Niente. Non avrei avuto niente.
Adesso sarei a casa di mia madre, o starei coabitando con qualcuno che non so quanto potrei amare... perché di Matteo ce n'è uno solo... e al posto suo, totalmente devoto a me, a noi e alla nostra storia, ci sarebbe qualcuno di meno importante a non farmi cadere. Qualcuno di meno necessario a fungermi da stampella.
Questi miei pensieri possono suonare crudeli, e forse lo sono, ma ciò non li rendi falsi.
“Sai, io credo ancora che avresti dovuto almeno provare con la chemio e i raggi X...”.
Mi porto un dito all'orecchio e con esso me lo pulisco per bene, gesto che compio sempre quando qualcuno mi colpisce con la banalità o la stupidità di quanto ha appena detto. Sto aprendo la porta della nostra alcova quando gli rispondo: “Non essere ripetitivo, suvvia. Abbiamo affrontato questo discorso un gazilliardo di volte. Sai benissimo perché ho rifiutato”. Se non stessimo parlando di una faccenda tanto grave mi permetterei un sorriso. Mi ha sempre fatto sorridere quando faceva così.
“Sì sì, lo so. Non hai voluto perché hai concluso che non sarebbero stati determinanti nella lotta alla malattia, senza il trapianto. E non posso contraddirti, però...” ribatte, una lievissima nota polemica nella sua voce.
Porto le mani ai fianchi e mi volto, con la velocità consentitami dal sonno e dalla debilitazione, per guardarlo bene in faccia mentre lo rimprovero: “Però cosa? Avresti voluto farmi andare dentro quegli infernali aggeggi e farmi bombardare anima e corpo da quelle... robe lì? Mi sarebbero caduti i capelli, questi ricciolini che hai sempre mostrato di prediligere. Sei un bimbo senza senno, Matteo”. Sul finire della frase il tono si distende, non voglio suonare più infastidita di quanto realmente sia. E in verità sono piuttosto divertita.
Fa un passo indietro, alzando istintivamente gli scudi di difesa: “Ok, ok. Il discorso ti irrita. Messaggio recepito. Non accennerò mai mai mai più qualcosa in merito”.
Oh, quant'è carino. Quando si acquatta dietro le manine mi fa ricordare il motivo per cui mi sono fatta avanti con lui in prima istanza. Emana una dolcezza non di questo mondo, quasi.
Mi avvicino un poco e appoggio le mani sul suo petto: “Senta, signor Valisi. Questa è una delle ultime notti in cui mi è concesso farle compagnia. Perché, invece di litigare, noi due non ci si impegna in attività più... come dire... intriganti?”. Era da parecchio che non sfoggiavo la mise della gatta morta.
Lui si lecca lascivo il labbro superiore. Anche questo era un gesto che non vedevo da sin troppo tempo. Gli ultimi mesi sono passati in un'atmosfera funerea.
“Beh signora Valisi” replica cingendomi la vita con un braccio e spingendomi a sé, facendo bene attenzione a non risultare eccessivamente molesto in questa manovra “l'idea mi garba un sacco, lo ammetto. Ma, la prego, non rimarchi in continuazione come il nostro tempo sia agli sgoccioli. Per quanto possa essermene fatto una ragione fa ancora male, lo sa?”.
No, gli occhi da cerbiatto no. Lo odio quando fa così. Mi fa sentire un pupazzo che può muovere a suo piacimento. Traditore che non sei altro.
Sbuffo, dichiarandomi implicitamente battuta da quell'invincibile espressione: “E va bene, va bene. Non citerò più l'infausto avvenimento che mi aleggia sulla testa. Però adesso, invece di perdere tempo nel bacchettare le mie nocche, mi puoi gentilmente accompagnare verso il letto? Il dolore alle ossa si sta riacutizzando”.
Senza un solo lamento acconsente cavallerescamente, e non solo. Si prende pure la briga di sollevarmi e di trasportarmi, solo per alleviarmi il non eccessivo sforzo.
Accidenti a me e al mio debole per i tipi che arrivano sul cavallo bianco, ti rapiscono e ti fanno loro schiave d'amore.
“Giulia Valisi, ti amo” dichiara solenne dopo avermi schioccato un bacio sulla fronte.
“Matteo Valisi, ti amo” rispondo altrettanto solenne, accoccolandomi con la testa contro il suo collo che sa di... sudore? Santo cielo, marito mio. Lavati ogni tanto.
   
 
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