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Autore: literatureonhowtolose    23/03/2014    2 recensioni
«E' quello che fai?» domandò Jedekiah, sorpreso da quanto la sua voce fosse ferma.
Prima di rispondere il ragazzo del quaderno si avvicinò a lui, ma non gli si sedette accanto. In una mano teneva carta e penna, l'altra era in tasca. Il sole lo portava a strizzare l'occhio sinistro per il fastidio, e l'angolo destro della sua bocca porpora era rivolto verso l'alto.
«Quello che faccio, cosa?» chiese.
Jedekiah sbuffò.
«Racconti storie a persone morte prendendo in prestito i loro nomi di battesimo?»
Il ragazzo rise di nuovo, e Jedekiah ebbe la stessa reazione di prima. Forse era solo che la sua risata era davvero bella. Pulita. Limpida.
«Se la metti così perde tutto il suo fascino.» disse.
«Quale fascino può avere una cosa del genere?»
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Graveyard attachments.
Erano passati sessanta giorni esatti, non uno di più, non uno di meno. Sessanta giorni da quando sua madre se n'era andata, lasciando una scia di sofferenza dietro di sé che Jedekiah non avrebbe mai pensato possibile. Sessanta giorni passati a, praticamente, imboccare suo padre, quando perfino lui stesso non riusciva a trovare la fame neanche preparando le banane flambè che piacevano tanto a entrambi. Sessanta giorni senza parole, senza suono differente da quello dei singhiozzi che Jedekiah fingeva di non sentire quando passava davanti alla camera che una volta era stata la “stanza dei suoi”, e che ora era solamente la “stanza di suo papà e dei suoi migliori amici, il cocktail di pillole e la tazza d'acqua col limone”. Sessanta giorni di soldi passati in silenzio da parenti vari a Jedekiah, a un ragazzino di diciassette anni con la testa troppo grande rispetto al corpo e la pelle troppo pallida rispetto al colore scuro dei capelli, perché il padre un lavoro non l'aveva più e proprio nessuno sapeva cosa fare se non aiutare in questo modo. Sessanta giorni di assenza da scuola per i quali sicuramente si sarebbe giocato l'anno. Sessanta giorni di lacrime trattenute o più semplicemente di lacrime che non volevano uscire, che non riuscivano ad uscire, che non ne erano capaci. Sessanta giorni di vuoto, e di freddo invernale che si mischiava con troppa facilità a un freddo tutto spirituale e di gran lunga peggiore. 
Sessanta giorni.
E poi, il mattino del sessantunesimo giorno, Jedekiah si era alzato, si era vestito, era passato davanti alla camera di suo padre e l'aveva visto dormire, gli aveva rimboccato le coperte come avrebbe fatto sua mamma ed era uscito per andare a cercarla. Ma quand'era arrivato al cimitero e si era fatto strada fra le tombe fino a scorgerne una di marmo bianco col suo nome scritto in lettere d'ottone sopra, lei non era sola; a farle compagnia c'era un ragazzo che, seduto a terra con le spalle poggiate contro il retro della lapide, scriveva fitto in un quaderno usurato con pochi, sparuti fogli all'interno. Il suo giubbotto smanicato era troppo leggero per l'inverno inglese, eppure lui non tremava; l'unico movimento del suo corpo era quello volontario della mano che scorreva sulla pagina così velocemente da far pensare che le parole uscissero dalla punta della penna a sfera da sole, come pioggia da una nuvola in giornata di diluvio. La sua pelle, si poteva notare dalle dita longilinee e dal viso appuntito, era chiara, ma somigliava a porcellana, non gli conferiva quell'aria malaticcia che Jedekiah invece aveva impressa addosso. L'ombra di un sorriso gli aleggiava sul volto, e i grandi occhi verde oliva erano sereni.
Jedekiah, prima ancora di rendersene conto, era arrabbiato con lui. Perché era con sua madre quando neanche la conosceva; perché non aveva alzato lo sguardo quando aveva sentito qualcuno arrivare; perché stava sorridendo, quando Jedekiah non era più capace a farlo e si aspettava – come fanno tutte le persone tristi – che il resto del mondo smettesse di sorridere con lui; perché, finalmente, le lacrime erano arrivate a tanto così da scendere, e quello sconosciuto non aveva nessun diritto di vederle, come nessun diritto aveva di accamparsi proprio lì a scrivere il suo stupido diario o qualsiasi cosa fosse.
«Cosa stai facendo?» gli uscì gracchiante, perché era la prima volta che parlava dal funerale e non si ricordava quanto fosse difficile tenere a freno la voce quando non sei nelle condizioni per farlo.
Il ragazzo, che a occhio e croce doveva avere circa la stessa età di Jedekiah, girò la testa nella sua direzione e lo fissò per un attimo come se si fosse davvero accorto della sua presenza solo in quel momento.
«Scrivo.» rispose. Nel suo tono tranquillo non c'era traccia di sarcasmo. Aveva risposto a quella domanda retorica come se di retorico non avesse nulla, così. Genuinamente.
Jedekiah chiuse a pugno entrambe le mani e strinse così forte da sentire le unghie corte affondare nella pelle. Nel mentre l'altro ragazzo si era alzato in piedi, si era infilato la penna in tasca e aveva chiuso il quadernino dalla copertina sbiadita.
«Vattene.» sussurrò Jedekiah, gli occhi color cobalto appannati e le guance bagnate. Avrebbe voluto urlare, ma aveva un groppo in gola che non glielo permetteva.
Lo sconosciuto gli posò una mano sulla spalla e Jedekiah non ebbe la forza di scansarlo.
«Condoglianze.» disse, e pareva veramente dispiaciuto, perché lo era. Ritirò il braccio e si girò verso la mamma di Jedekiah. «Verrò a finire la storia.» le promise. 
E poi se ne andò. 
Jedekiah rimase lì, davanti alla lapide, e pianse in silenzio fin quando non ne fu più in grado. Il cielo era scuro quando si decise a tornare a casa.


Ci volle una settimana prima che Jedekiah trovasse il coraggio di tornare da sua mamma. Nel frattempo, le cose erano migliorate leggermente. Essendosi finalmente sbloccato, ogni sera quando andava a letto versava qualche lacrima e poi si sentiva meglio. Provò a tornare a scuola, ma alla fine della giornata decise che non era ancora pronto per tutte le occhiate impietosite lanciate nella sua direzione, e che a quel punto una presenza in più o una in meno non avrebbero fatto la differenza. Suo padre aveva ricominciato a parlare e anche se diceva sempre a stento due parole di fila a Jedekiah andava bene, perché la sua voce se l'era quasi dimenticata e questo lo aveva spaventato a morte. Inoltre, l'acqua con il limone non era più la sua unica fonte di sostentamento. Avevano persino mangiato le banane flambè insieme, giovedì.
La domenica mattina si era svegliato, si era assicurato che suo padre non avesse bisogno di nulla e poi era andato al cimitero camminando lentamente. Faceva freddo, ma il pallido sole invernale era alto nel cielo e le strade erano deserte, perché la domenica le famiglie hanno sempre qualcosa da fare fuori città. Jedekiah lo sapeva bene. Se lo ricordava.
Quando era arrivato davanti alla lapide si era preso il suo tempo per osservare il nome di sua mamma, imprimerselo nella mente. Helen. Glielo dicevano sempre, quand'era in vita, che il suo era un bel nome. Era dolce. Helen era dolce. Jedekiah la sua risata soffice non se la ricordava più. Fu proprio mentre pensava a quello che qualcosa colse la sua attenzione: sul marmo bianco c'erano dei fogli piegati, e qualcuno ci aveva poggiato su una pietra per evitare che volassero via. Jedekiah la rimosse e prese i pezzi di carta in mano. Sapeva già di cosa si trattasse, e forse – per restare fedele al suo comportamento precedente – avrebbe dovuto strapparli. Invece lesse.


Appena sentì dei passi, Jedekiah parlò. Non sapeva se fosse la persona che inconsciamente stava aspettando, ma parlò lo stesso. Parlò rivolto a lui.
«Mia madre non era una ballerina classica.»
Il rumore ovattato della ghiaia che veniva calpestata si arrestò. Una risata leggera aleggiò nell'aria fredda e a Jedekiah si gelò il sangue. Forse la risata somigliava a quella di sua madre. O forse no.
«Ho solo preso il suo nome in prestito.» disse il cantastorie. «Che gusto c'è a scrivere racconti che sono già stati scritti, comunque? Ho voluto parlare a Helen di un'altra Helen.»
«E' quello che fai?» domandò Jedekiah, sorpreso da quanto la sua voce fosse ferma.
Prima di rispondere il ragazzo del quaderno si avvicinò a lui, ma non gli si sedette accanto. In una mano teneva carta e penna, l'altra era in tasca. Il sole lo portava a strizzare l'occhio sinistro per il fastidio, e l'angolo destro della sua bocca porpora era rivolto verso l'alto.
«Quello che faccio, cosa?» chiese.
Jedekiah sbuffò.
«Racconti storie a persone morte prendendo in prestito i loro nomi di battesimo?» 
Il ragazzo rise di nuovo, e Jedekiah ebbe la stessa reazione di prima. Forse era solo che la sua risata era davvero bella. Pulita. Limpida.
«Se la metti così perde tutto il suo fascino.» disse.
«Quale fascino può avere una cosa del genere?»
Lo sconosciuto non rispose. Invece domandò: «La storia ti è piaciuta?»
Jedekiah, suo malgrado, annuì. Il cantastorie scriveva, in effetti, molto bene.
«L'hai letta ad alta voce?» chiese ancora, prima di abbandonarsi a terra di fianco a Jedekiah, che di riflesso si ritrasse appena e poi scosse il capo in risposta.
«Come no? Il fascino sta proprio lì. Sta nel raccontare storie a persone meritevoli di sentirle, che non ti giudicheranno mai. Sta nel poter essere ascoltato senza paura. Se non gliela leggi ad alta voce, però, non funziona. Non sanno leggere nel pensiero.» sentenziò.
Jedekiah avrebbe voluto dire qualcosa a riguardo, trovare una falla nella logica, ma il discorso – pur essendo fuori dal mondo – sembrava filare. Tutto quello che scivolò via dalla sua gola fu: «Come ti chiami?»
Il ragazzo gli strinse la mano prima di rispondere e Jedekiah non lo trovò strano, perché aveva capito che con lui le cose andavano al contrario e che magari andava bene così.
«Farewell.» sillabò. Poi aggiunse: «Con un nome così, ho pensato che il mio compito fosse quello di dire addio alle persone1. Insomma, è solo coerente, non trovi?»
Jedekiah non trovava, a meno che non si sforzasse di pensare nell'ottica del cantastorie, ma annuì lo stesso.
«Non l'ho scritta per te», disse Farewell, puntando i fogli che Jedekiah stringeva ancora in mano, «ma se vuoi puoi tenerla. Ricordati di leggergliela ad alta voce, prima o poi.» 
Dopodiché si alzò e fece per andarsene, ma Jedekiah lo fermò afferrandogli una gamba, come faceva quand'era piccolo per far capire a suo papà che voleva esser preso in braccio. Si senti istantaneamente uno stupido, ma Farewell non sembrava infastidito, solo curioso. 
«Cosa c'è?» chiese.
«Dove stai andando?»
«Ci sono tante persone a cui parlare in questo posto.» disse, allargando le braccia per sottolineare che sì, con l'appellativo persone lui si riferiva proprio alle lapidi. «Tanti nomi da usare, tante favole e fiabe da raccontare.»
«Il tuo quaderno ha pochi fogli. Perché?»
«Te l'ho detto, scrivo per loro, quindi le storie le lascio a loro proprio come ho fatto per tua mamma. Quando torno a controllare a volte sono ancora lì, a volte no. Non importa. Non sono mie, non le scrivo per me stesso. Le lascio andare, a loro il compito di raccoglierle.» Si accovacciò e con un dito toccò la punta del naso di Jedekiah, che sbatté gli occhi. «O a chiunque voglia farlo.» concluse, rialzandosi per andare in cerca di una Emily, di un William o, ancora, di un Philip a cui regalare parole.


Farewell continuò a scrivere storie e lasciarle sopra alle tombe con un sasso a fare da fermacarte, ma ci fu una differenza sostanziale nella sua routine. Infatti, quando tornava a controllare se fossero ancora dove le aveva messe, non le trovava mai. Questo perché, ormai, Jedekiah le raccattava e le portava a casa per leggerle a suo padre, che migliorava di giorno in giorno e stava lentamente tornando l'uomo che era stato. Qualche volta, se la storia gli era piaciuta particolarmente, andava da sua madre e la leggeva anche a lei. E qualche volta Farewell lo ascoltava, perché Jedekiah aveva una voce calda e profonda, perfetta per quelle letture, mentre lui l'aveva troppo sottile e squillante, e in qualche modo aveva sempre pensato che nell'insieme delle cose stonasse terribilmente.
E poi la routine cambiò di nuovo, e quella vicinanza lontana divenne una vicinanza in piena regola, un rapporto effettivo che fu una ventata d'aria fresca per entrambi. Farewell scriveva mentre Jedekiah lo guardava, poi Jedekiah leggeva mentre Farewell lo guardava, e così passavano interi pomeriggi. Non s'incontravano mai fuori dal cimitero, e anche se a molti sarebbe sembrato macabro o quantomeno particolare, per loro era una piacevole normalità, la stabilità che serviva a tutti e due.
«Posso chiamarti Well?» aveva chiesto una volta Jedekiah quando erano seduti davanti alla tomba di Constantine, dopo aver finito di leggere la storia della sua omonima.
«Sì, ma perché?» aveva domandato Farwell, la testa poggiata sulle gambe dell'altro e un braccio sugli occhi per ripararli dal sole.
«Perché mi fai stare bene2.» aveva detto, solo dopo aver preso un bel respiro. «E perché non voglio dirti addio, e nemmeno voglio che tu dica addio a me.»
Farwell si era sollevato e si era sistemato in modo da trovarsi faccia a faccia con Jedekiah. Poi aveva sorriso. Uno di quei sorrisi che solo lui sapeva fare e per i quali Jedekiah non provava più la rabbia che aveva provato la prima volta. Uno di quei sorrisi che avevano fatto ricominciare a sorridere anche lui. E aveva detto: «Quindi mi stai chiedendo di scrivere un'opera a capitoli, per una volta?»
Jedekiah non aveva risposto, perché in fondo sapeva che non ce n'era bisogno, e Farwell si era avvicinato quel tanto che bastava per spezzare i loro respiri tremanti e far sfiorare le loro labbra giovani.
«Cosa pensi delle storie d'amore?»





1Farewell in inglese significa, appunto, addio, arrivederci.
2Well, invece, in inglese significa 'bene'.


Angolo dell'autrice: Sinceramente, non saprei proprio cosa dire riguardo a questa storia. E' nata da un discorso con una mia cara amica riguardo ai cimiteri, e ho pensato di trasformare ciò che penso a proposito in un personaggio, Farewell, che si è portato dietro automaticamente Jedekiah. E Helen, anche Helen. Spero che a qualcuno possa piacere nonostante sia un punto di vista particolare e magari difficile da comprendere, non lo so. Grazie per aver letto fin qua, chiunque tu sia.
 


 
  
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