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Autore: earlgreytea68    25/03/2014    6 recensioni
Mentre è morto, Sherlock scrive a John delle lettere. John le legge.
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes, Sig.ra Hudson
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Letters [ traduzione di _opheliac ]'
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Storia by earlgreytea68, originariamente postata su Archive Of Our Own, al link: http://archiveofourown.org/works/615160

Traduzione a cura di:  _opheliac.

Beta: PapySanzo89, sempre la mia salvezza.

 

 

Letters: The Reading Of

 

Il messaggio in segreteria era della signora Hudson. Sapeva che lo era, perché aveva visto il suo nome tra le chiamate perse.

John Watson, circondato dalla gioia natalizia, sedeva nel bar in cui si era fermato per della caffeina di cui sentiva fin troppo il bisogno e imprecava intensamente. Il suo telefono sembrava pesante all’interno della sua tasca, e lo stava ignorando da quando aveva finito il turno giornaliero alla clinica. Lo stava ignorando così tanto che si era rifiutato di andare a casa, perché allora non avrebbe avuto più nessuna scusa per non ascoltare il messaggio, così invece era circondato da troppe persone dannatamente felici con tutte le loro fottute risate. Che diavolo? Aveva scelto l’unico giorno di quell’insopportabile periodo natalizio in cui gli acquirenti non stavano battibeccando tra di loro a causa della maleducazione ricevuta. 

John fece un profondo respiro e pescò il telefono dalla tasca, fissando la notifica del messaggio. Fissò e fissò e fissò. Trattenne il respiro. Sorseggiò il suo caffè ( uno stupido intruglio alla menta piperita – stupido periodo di festa ). Girò un paio di volte il telefono sul tavolo. Dopo disse, sussurrando, “John Watson, ascolta quel messaggio” e prese il telefono, chiamò la segreteria rilassandosi leggermente, prima che potesse cambiare idea.

Aveva avuto paura che il messaggio potesse farlo sentire in colpa. John non era più tornato al 221B da quando si era trasferito quattro mesi prima, ed era Natale, e sicuramente la signora Hudson stava rivivendo intensamente il tutto, sotto Natale. Il Natale era il periodo più solitario dell’anno. E lo scorso Natale era stato… Ma John non poteva sopportare il 221B nelle migliori circostanze, figuriamoci a Natale.

Il messaggio, comunque, lo sorprese. C’era un minimo di Non ti vedo da un po’ e Spero che tu stia bene, ma il succo del messaggio era: Ti è arrivata una lettera. Una busta piuttosto spessa.

John analizzò la questione. Non aveva riceveva lettere al 221B ormai da un bel po’. E poi una ‘busta piuttosto spessa’. Non una bolletta, e apparentemente non volantini. Di cosa poteva trattarsi?

Curiosità combinata al senso di colpa e si trovò in piedi fuori dal 221 di Baker Street, combattendo un improvviso attacco di panico. Chiuse gli occhi, imponendosi di non pensare. Non pensare a Sherlock in piedi, con te, davanti questa porta per la prima volta. Non pensare ad uscirne  insieme a lui, esasperato, felice, eccitato, ridente, furioso; non pensare a niente di quel periodo. Stava andando molto meglio, davvero. Si era sentito un po’ più come se potesse vivere per il resto della sua vita, come se la cosa non fosse insostenibile. E adesso era tornato al 221 di Baker Street ed era insostenibile.

La signora Hudson aprì la porta e disse, “John”, con grande gioia, e poi si avvicinò a lui per baciarlo sulla guancia, e John allontanò l’attacco di panico e disse “Come sta, signora Hudson?”

La signora Hudson gli stava dando quell’occhiata con cui valutava il suo stato, che era stanco morto di vedere nel volto della gente. Sapeva che non lo facevano con cattive intenzioni, ma voleva soltanto smetterla di essere Il Povero John Watson, il prima possibile. “Ha detto che è arrivata una lettera indirizzata a me?” suggerì John, saltando i convenevoli poiché non ne aveva alcuna voglia. Francamente non sapeva se era più in grado di farne.

“Oh.” disse la signora Hudson, capendo l’antifona e rientrando nel 221A per un breve momento prima di ritornare con la busta, la quale era larga e, come la signora Hudson aveva detto nel suo messaggio, parecchio spessa.

“Grazie.” disse John, automaticamente, mentre la prendeva. Cercò il mittente ma non lo trovò, non aiutandolo a capire cosa la busta contenesse. John stava per girarla quando si ritrovò ad osservare il suo nome e l’indirizzo sul davanti. Dottor John H. Watson, 221B Baker Street. Le mani di John si strinsero involontariamente sulla busta, accartocciandola leggermente.

Conosceva quella scrittura.

La signora Hudson gli stava parlando, ma John non stava registrando nulla di quello che lei diceva, o il fatto che stesse effettivamente parlando. Stava fissando quella che era senza dubbio la scrittura di Sherlock sulla busta, quella strana scrittura illeggibile, datata eppure moderna, che apparteneva a Sherlock, e si stava chiedendo se stava avendo le allucinazioni, se stava diventando matto, o se davvero teneva in mano una busta inviata da Sherlock – Sherlock – che era morto ormai da cinque mesi e ventisette giorni. Tutto ciò che riusciva a comprendere era che doveva far ritorno al suo nuovo appartamento, doveva rimanere da solo, perché se non fosse stata inviata da Sherlock, la delusione l’avrebbe distrutto, e se davvero era da parte di Sherlock, non c’era alcun modo che una lettera del genere dovesse essere letta in mezzo ad occhi indiscreti.

Quasi cadde dai gradini dell’ingresso nella fretta di andar via, e riuscì a sentire la signora Hudson dire, con preoccupazione, “John? John!”

“Sto bene.”, mormorò in risposta, distrattamente. E dopo, più forte, “Sto bene, sto bene, io…Taxi!” gridò a quello che stava passando in quel momento per Baker Street, il quale si fermò davvero con suo grande stupore.

John diede l’indirizzo del suo appartamento e sedette sul sedile posteriore del taxi e fissò il suo nome sulla busta. Dottor John H. Watson. Era decisamente la scrittura di Sherlock. Decisamente. John aveva visto Sherlock firmare per entrambi, con prepotenza, nei vari posti in cui erano stati, fin troppe volte per non riconoscere la curva nella J, il taglio di quella W. Sherlock doveva averla spedita prima della sua morte, e la consegna era in ritardo di molti mesi perché la Royal Mail era assolutamente, completamente una compagnia spazzatura. Sherlock gli aveva inviato un messaggio, e John ne era rimasto senza per mesi. Era così arrabbiato che stava tremando. E cosa significava, il fatto che Sherlock gli avesse inviato un pacco prima che si buttasse dal tetto? Significava che aveva pianificato il suicidio per tutto il tempo? Perché?

John barcollò nel suo nuovo appartamento e strappò la busta prima di riuscire a chiudere completamente la porta, avendo aspettato fin troppo a lungo. Conteneva un fascio di fogli, tenuti insieme da una graffetta, e il primo foglio iniziava con, John – Ci sono cose che devo dirti, ma tu non sei qui per sentirle, e non posso mettermi in contatto con te perché dovrei essere morto. John lesse di nuovo. Dovrei essere morto, lesse di nuovo, e di nuovo, e di nuovo.

E dopo scivolò sul pavimento, la schiena contro la porta, e fissò le parole sul foglio mentre il tempo sembrava rallentare fino a fermarsi completamente. Dovrei essere morto. Dovrei essere morto.

Non c’era data sulla lettera. Perché era chiaramente una lettera. John guardò il --SH alla fine.

Scorse i fogli successivi. Il suo nome, in cima a tutti i fogli, e nessuna data in nessuno di essi.

Tornò a guardare il primo foglio. Dovrei essere morto, diceva, e cosa significava? Significava che Sherlock non era morto? O che non era stato morto? L’aveva scritto prima di lanciarsi dal tetto? E il trucco era andato male ed era morto sul serio? Ma se era quello il caso, perché ce n’erano così tante? Non era solo una lettera, un biglietto d’addio, per quanto attentamente o disordinatamente composta. John si forzò per leggere il resto del primo pezzo di carta, ed era una qualche assurdità su un esperimento nel frigorifero. Non era niente, nulla che importasse davvero, era quel tipo di nota che lui avrebbe lasciato per Sherlock invece di un sms. “Uscito per comprare il latte. Torno fra poco.” Se Sherlock l’aveva scritto prima di morire – ciascuna di esse – perché le avrebbe inviate? E, se Sherlock le aveva scritte prima di essersi buttato dal tetto, qual era il significato di Dovrei essere morto?

Perché John poteva arrivare ad una sola conclusione. Nel mondo in cui stava vivendo, Sherlock doveva essere morto. E John stava tenendo per le mani un fascio di fogli che sembrava indicare che Sherlock non lo era.

John realizzò che le sue mani stavano tremando, quindi poggiò i fogli di carta sul pavimento vicino a lui e poggiò la fronte sulle ginocchia e respirò, profondamente.

Dopo si alzò e, lasciando i fogli sul pavimento, andò al pub e ordinò una birra senza berla. Sedette nel pub finché non si svuotò attorno a lui, guardando la televisione di fronte ma continuando a vedere un fascio di fogli. Lettere. Da Sherlock. Uno Sherlock possibilmente vivo. Che gli aveva spedito una qualche stupida lettera su un esperimento.  

John lasciò la birra senza averla toccata, tornò al suo appartamento e raccolse le lettere dal pavimento, permettendo a se stesso di leggere la successiva. La prima era stata scritta su un pezzo strappato da un foglio di quaderno, ma la seconda era su pesante carta da lettera color crema, su cui Sherlock si lamentava del fatto di dover parlare francese per tutto il tempo. Non aveva mai saputo che Sherlock fosse andato in Francia durante la loro convivenza.  Sherlock si era buttato dal tetto davanti a lui, aveva lasciato che John credesse che il suo migliore amico si fosse suicidato, e dopo era andato in vacanza in Francia, apparentemente. Fermandosi soltanto per preoccuparsi di uno stupido fottuto esperimento che si era lasciato dietro.

John desiderò che il nuovo appartamento avesse un camino, perché avrebbe drammaticamente bruciato ogni dannata lettera che Sherlock gli aveva scritto. Invece, le gettò nel secchio della spazzatura e andò a letto.

****

John fissava il soffitto, riflettendo. Sherlock possibilmente era vivo. Sherlock poteva essere vivo. E non molto tempo prima John aveva implorato ogni essere dell’universo affinché Sherlock lo fosse. E adesso aveva delle lettere da parte sua, e lui le aveva gettate nella spazzatura.

Alle quattro del mattino, John Watson rotolò fuori dal letto e recuperò le lettere dal secchio. Le porto con sé in cucina, dove si fece con attenzione una tazza di tè. Sherlock gli aveva inviato delle lettere. Dopo mesi di silenzio. John non poteva neanche iniziare a pensare al perché l’avesse fatto, ma non poteva non leggerle. Anche se Sherlock non era vivo, anche se era solo qualche stramba cosa che Sherlock aveva organizzato prima che si buttasse, come poteva John rifiutare quelli che potevano essere gli ultimi pensieri di Sherlock che avrebbe mai avuto? E, se Sherlock era vivo… non era possibile che lo fosse. John stava avendo le allucinazioni, un qualche tracollo mentale; non aveva delle lettere dal suo coinquilino morto sul tavolo della cucina. La sua terapista sarebbe stata molto delusa; aveva fatto così tanti progressi.

John sedette al tavolo della cucina con la sua tazza di tè e iniziò a leggere.

Le lettere furono sorprendentemente facili da leggere all’inizio. Sherlock era chiaro e chiassoso nel loro contenuto. John poteva praticamente sentire la sua voce mentre leggeva. Era come se Sherlock fosse improvvisamente apparso e lo stesse intrattenendo con un monologo su tutte le cose che lo irritavano. Era così simile al Prima di tutto che per un po’ John dimenticò di essere depresso e si perse tra la nebbia dei commenti e le osservazioni di Sherlock.

E poi arrivò ad Avrei ascoltato qualsiasi cosa tu avessi avuto da dire. Tutto ciò tu avessi avuto da dire. Non posso credere tu non lo sapessi. Lo sapevi?  E il suo cuore esplose. E Sherlock era –S adesso, l’unica S nella vita di John.

Arrivò al suo nome, anagrammato, e dopo scritto con mano fermamente disordinata, come se Sherlock ci si fosse aggrappato come un’àncora, la rappresentazione di John nella sua pagina.

Arrivò a vieni qui immediatamente, ho bisogno di te, e fermò la lettura e spinse via le lettere e si mise la testa tra le mani cercando di respirare. Guardò la sua tazza, ancora piena di tè ormai freddo. Si alzò e la svuotò nel lavandino e riempì il bollitore e si fece una nuova tazza, e dopo si sedette prendendo quell’ultima lettera, scritta su un pezzo di carta che sembrava essere stato staccato da un libro. La lesse di nuovo e la poggiò via tremante, e prese la successiva dopo un profondo respiro.

Non è che vedrai mai queste lettere, in ogni caso, scriveva Sherlock nella lettera successiva, ma non aveva alcun senso, perché dopotutto gliele aveva spedite e John era lì seduto a leggerle. Aveva contato sul fatto che John le avrebbe buttate via, arrabbiato, prima di leggerle? John l’aveva quasi fatto, quindi forse questa era una di quelle rare occasioni in cui Sherlock sbagliava le sue previsioni sul comportamento di John. Forse Sherlock era stato via troppo a lungo. Forse Sherlock aveva sottovalutato la violenta spinta di desiderio, ancora ferma nello stomaco di John a renderlo nauseabondo.   

John lesse di Sherlock, che ammetteva di aver ripreso a fumare; di Sherlock, che voleva disperatamente scusarsi verso un uomo con un maglione a strisce; Sherlock, che non riusciva a dormire; Sherlock, che andava a vedere il nuovo film di James Bond, dolorante e sofferente, e quello eliminò ogni dubbio che John avesse avuto su quando le lettere erano state scritte, perché sarebbe stato davvero molto crudele da parte di Sherlock scrivere di essere andato a vedere un film che non era ancora uscito solo per far credere a John che quel giorno non era davvero morto. L’unica conclusione che John poteva raggiungere era che, in qualche modo, Sherlock davvero non era morto quel giorno. Era vissuto per andare avanti con qualsiasi cosa stesse facendo in quel momento, per essere solo e scrivere su carta pensieri che John non si sarebbe mai aspettato, per soffrire di insonnia e lamentarsi della mancanza di tè, per andare a vedere un film di James Bond che John, a Londra, era stato incapace di obbligarsi a vedere.

John deglutì profondamente e spinse via la sua tazza di tè, nuovamente freddo. Prese la lettera successiva, che iniziava con Caro John. Era la prima volta che Sherlock lo aveva chiamato con qualche vezzeggiativo, seppure uno formale come caro all’inizio di una lettera. John trattenne un respiro mentre leggeva, mentre leggeva attraverso l’aggettivo possessivo accostato al suo nome, mentre leggeva di Sherlock circondato da proiettili e armi e sangue, Sherlock solo e fuori-posto che proiettava il tutto sul John che era stato lì prima, e la lettera finì senza firma, solo con Mi chiedo se pensi a me anche se solo per il tempo di un battito.

John desiderò poter rispondere. Per la prima volta da quando aveva iniziato a leggere le lettere, avrebbe voluto rispondere. La lettera sarebbe stata qualcosa come, Sherlock, idiota, penso a te ogni singolo istante. Dove sei? Torna a casa. Come poteva Sherlock non saperlo? Come poteva Sherlock non aver mai pensato, mai, che avrebbe lasciato John nella convinzione che fosse morto e che John non avrebbe passato ogni singolo istante sentendo la sua mancanza?

E nonostante John avesse passato così tanto tempo perso nel contenuto delle lettere che era ormai mattina e doveva prepararsi per andare alla clinica, si ritrovò incapace di muoversi finché, finalmente, non poggiò la testa sul tavolo, sopra le braccia incrociate, e pianse per Sherlock Holmes come non aveva fatto in cinque mesi e ventotto giorni.

****

Quando arrivò alla clinica, Sarah gli lanciò quel tipo di occhiata attenta che non riceveva da molto tempo. Quello sguardo da Non sembri stare molto bene, meglio tenerti d’occhio. John realizzò che era andato avanti, aveva rimesso assieme i pezzi della sua vita, e Sarah aveva iniziato a rilassarsi pensando che stesse meglio, la stessa cosa che aveva pensato lui.  Si sentì come un drogato che era andato incontro ad una ricaduta. E quello gli fece pensare a Sherlock. E non era produttivo.

Ebbe una seduta di terapia con Ella quella sera, e fu una tortura andare e star seduto e provare a fingere di stare tanto bene quanto la settimana prima. Ella, ovviamente, lo notò immediatamente, e John non disse, Sherlock non è morto. Mi ha inviato delle lettere. Ho passato l’intera giornata a pensarci. Non ho idea di cosa farò adesso.  Ella avrebbe cercato di farlo ragionare. Sherlock si era lanciato dal tetto di un edificio davanti ai suoi occhi, davanti ad altre persone. La sua morte era stata una notizia da prima pagina. Era folle pensare che Sherlock Holmes non fosse morto… a meno che non avessi conosciuto Sherlock Holmes. E John aveva pensato di conoscerlo meglio di chiunque altro, quindi come aveva potuto non capirlo, com’era stato fregato così totalmente? E perché? Perché, tra tutte le persone, Sherlock aveva dovuto mentire proprio a lui?

La mente di John era in tumulto ma Ella non poté aiutarlo e gli diede un’occhiata triste quando lasciò il suo ufficio, come se l’avesse delusa. Anche lui si sentiva come se l’avesse delusa, ma non poteva farci nulla. Voleva andare a casa, dove le lettere di Sherlock lo stavano aspettando sul tavolo della cucina. Voleva disperatamente leggere quelle rimaste. Non era sicuro di come fosse riuscito a trattenersi abbastanza a lungo da riuscire ad andare a lavoro.

John non si preoccupò neanche di prepararsi il tè. Si sedette al tavolo della cucina e si avvicinò impaziente le lettere. Non rilesse quella proveniente dall’Afghanistan. Non pensava di potere. Quindi andò avanti.

Le tre lettere successive erano scritte su pezzi di carta. Sherlock era esausto; Sherlock non riusciva a dormire; Sherlock, apparentemente, era stato in America per il Ringraziamento, che era stato soltanto poche settimane prima.

La lettera dopo era scritta su un altro pezzo di carta, ma quest’ultimo era più grande dei precedenti e la lettera era più lunga e un completo disastro: un flusso di coscienza sconclusionato in cui Sherlock prometteva a John di comprare il latte ogni giorno. Era quasi senza senso, e John ne era quasi spaventato, e ancor di più lo fu quando lesse la lettera successiva, la quale era una striscia di Mi manchi scritto in continuazione, la scrittura di Sherlock che si dissolveva in uno scarabocchio disordinato. John non riusciva a capire se l’Afghanistan era stato una sorta di punto di svolta fisico o semplicemente uno mentale ed emotivo, ma le lettere successive a quella dell’Afghanistan sembravano contenere un po’ più di disperazione. Sherlock stava cadendo a pezzi, su carta, di fronte a lui e John non era assolutamente in grado di aiutarlo. John stava seduto nella sua confortevole cucina con, sul grembo, lettere provenienti dal suo coinquilino in piena crisi emotiva.

John avrebbe dovuto essere furioso con Sherlock. Lo era stato, proprio il giorno prima. Ma sedeva con un pezzo di carta pieno di Mi manchi, tutti rivolti a lui, e la rabbia era davvero l’ultima emozione che provava al momento.

La lettera dopo era anche peggiore, una lista delle cose di cui Sherlock sentiva la mancanza: il colore degli occhi di John, il sorriso di John, la risata di John, il respiro di John. Dovette trattenersi dallo stringersela addosso, perché lui aveva già attraversato  tutto questo prima, nel suo lutto per Sherlock. John aveva pensato alla sua parte di Mi manchi con il freddo conforto del suo solo cuscino, gli occhi serrati, odiando Sherlock. John aveva mentalmente catalogato le cose di Sherlock di cui sentiva la mancanza: quegli occhi indescrivibili, i sorrisi genuini che ogni tanto John riusciva a rubargli, il modo in cui John riusciva a farlo ridacchiare come nessun altro, il conforto dei suoi continui e profondi respiri, quando John non riusciva a sopportare il pensiero di essere solo. Sherlock era in lutto per John allo stesso modo in cui John era stato in lutto per Sherlock, ed era tutto così inutile – nessuno di loro era morto – e la rabbia iniziò a crescere nuovamente nelle sue viscere, seppure in gran parte diluita.

Sherlock si riprese nella lettera successiva, una qualche assurdità sui semi di mela, e fu quasi confortante, nonostante fosse firmato come Sherlock, una firma molto più personale di quelle che aveva mai usato con John. Le lettere seguenti erano una successione della disperazione di uno Sherlock molto stanco: riflessioni sulle manette, irritazione sul blog che John non aveva ancora aggiornato, lamentele sulla noia. John desiderò aver aggiornato il proprio blog; non aveva idea che Sherlock potesse essere in giro cercando di usarlo per rimanere in qualche modo connesso a lui.

La lettera sulla cocaina fece fermare il cuore di John per qualche momento. Era fiero che Sherlock avesse evitato la tentazione e non gli importava neanche che ci fosse voluto un pacco di sigarette per far ciò, ma si chiedeva, preoccupato, per quanto tempo Sherlock sarebbe riuscito a tener duro. John non aveva mai visto Sherlock così distrutto come in quelle lettere, e lo diventava sempre di più man mano che andava avanti, e non ne erano rimaste molte altre, e John era terrorizzato da quello che potevano contenere.

La lettera successiva parlava dello sparare alle persone, chiaramente, e John ignorò il complimento che Sherlock gli aveva fatto alla fine - è possibile che tu sia più intelligente di me –  e si concentrò sul fatto che Sherlock stesse probabilmente sparando a qualcuno. Sherlock gli era sempre sembrato un po’ troppo fragile per poter uccidere delle persone, con tutto il suo essere drammatico. John aveva visto gli attimi di sconcerto sulla faccia di Sherlock ogni qual volta qualcuno veniva ucciso dinanzi a lui. Per quanto fingesse diversamente, per quanto fosse affascinato dalle cause della morte, il vero e proprio atto della morte gli era sgradevole. John non si era mai preoccupato dell’avvertimento di Sally sul fatto che Sherlock avrebbe potuto iniziare ad uccidere qualcuno, perché John aveva sempre pensato che Sherlock non ne sarebbe mai stato capace. Apparentemente, Sherlock era andato avanti, anche se, sembrava, non bene, considerando lo stato in cui versava nelle lettere e considerando l’insonnia continua che Sherlock aveva documentato ( e apparentemente un’insonnia disturbata, visto che Sherlock non era mai sembrato stressato dalla mancanza di sonno prima d’allora ).

Perché? John non riusciva a capire cosa stava succedendo. Dov’era Sherlock? Che cosa stava facendo? Perché aveva drammaticamente finto la sua morte, distrutto John in piccoli pezzi, per poi scappare via in questo esilio auto-imposto, dove stava chiaramente morendo poco a poco, dove si stava aggrappando a sostanze chimiche per poter andare avanti giorno dopo giorno, dove stava uccidendo della gente e ferendosi? Qual’era il motivo?

John arrivò all’ultima lettera, e il suo nome non era in cima, solo una veloce J. La lettera era lunga – più lunga della maggior parte – ma anche chiaramente rapida, la scrittura faceva confondere le parole insieme, ed era piena di pause e inizi, frasi che Sherlock non si era preoccupato di concludere.

John lesse i primi tre paragrafi prima di pensare che non era pronto a leggerla, non l’ultima lettera: non era pronto alla fine di tutto ciò. Posò la lettera sul tavolo della cucina e si alzò e camminò attraverso le stanze prima di ritornare in cucina e riprendere la lettera. Non si sedette. Rimase in piedi, e continuò a leggere, arrivando al punto del Ti amo. Scritto di nuovo, e di nuovo, e di nuovo. Ti ho amato dal primo momento in cui ti ho visto. Ti ho amato e amato e amato e non te l’ho mai detto. Ti amo. TI AMO, diceva l’ultima lettera di Sherlock, firmata con un Tuo, Sherlock, e John lesse la lettera finché non sentì la campana della chiesa in fondo alla strada scoccare la mezzanotte. La lesse un’altra volta.

Dopodiché la posò sul tavolo della cucina con mani tremanti e andò nella sua stanza per cambiarsi per andare a letto, per una dormita che sapeva non si sarebbe fatto. I suoi pensieri erano pieni delle lettere, di tutte quante, che rotolavano l’una contro l’altra nella sua testa, parole e frasi e Ti amo. Perché Sherlock le aveva inviate? Finalmente? Dopo tutto quel tempo? Le stava chiaramente scrivendo da dopo la sua finta morte. Quindi perché inviarle adesso? Specialmente quand’era chiaro, dal contenuto delle lettere, che non aveva mai voluto che John le leggesse. Erano pieni di scorci della mente di Sherlock che Sherlock non avrebbe mai permesso in circostanze normali.

John, mentre si lavava i denti in maniera assente, si guardò allo specchio e vide i suoi stessi occhi spalancati fissarlo. In circostanze normali. John sputò il dentifricio, corse frettolosamente verso la cucina, e cercò l’ultima lettera, focalizzandosi sulle parti a cui non aveva fatto realmente caso prima, nel mezzo della rivelazione del Ti amo. Non ho mai voluto esserlo per davvero, diceva la lettera. Solo un’ultima volta, diceva la lettera. L’ultima sigaretta, diceva la lettera.

“Cazzo.” mormorò John, la testa che gli girava, perché Sherlock non avrebbe mai inviato quelle lettere in circostanze normali. Sherlock aveva inviato quelle lettere perché aveva pensato di star per morire sul serio.

****

John era stato nell’ufficio di Mycroft soltanto una volta prima d’allora, una vita fa, quando era stato il coinquilino di Sherlock Holmes e amico e solo Dio sapeva cos’altro, davvero, perché leggere le lettere di Sherlock avevano mandato il mondo di John completamente sottosopra. Era come essere in una palla di vetro con la neve, inclinata e rovesciata e mossa da forze fuori dal suo controllo. Quando John era andato nell’ufficio di Mycroft quella prima volta, c’era stato un via vai di gente impegnata, anche se era un’ora tarda. Adesso, nel bel mezzo della notte, c’era comunque un gran via vai di gente impegnata, e John ne era sorpreso. Nessuna di quelle persone andava mai a casa?

Quando disse di voler vedere Mycroft Holmes, causò una raffica di occhiate vacue da tre o quattro persone, chiaramente molto impegnate, riunite presso la reception. E poi uno di loro gli chiese il nome e lui disse, “John Watson” e quelli quasi inciamparono sui loro stessi piedi per portarlo nello stesso ufficio dove era stato portato l'ultima volta. John era andato nell'ufficio di Mycroft quasi per capriccio, pensando che non c’era alcuna probabilità che Mycroft sarebbe stato davvero lì. Era andato perché era troppo inquieto per stare semplicemente seduto a casa con le lettere di Sherlock, e non fare nulla. Aveva pensato che sarebbe arrivato lì e l’ufficio sarebbe stato buio e vuoto e si sarebbe girato, e sarebbe tornato a casa a camminare per l'appartamento. Non si aspettava di essere accompagnato nell'ufficio di Mycroft, come se Mycroft fosse davvero stato lì.

L’ufficio di Mycroft era vuoto. John si sedette sulla sedia in cui si era seduto l’ultima volta, con le mani strette attorno alle lettere che aveva portato con sé, e guardò la piccola stella di natale all’angolo della scrivania di Mycroft, un cenno al periodo festivo. John aveva, solo pochi giorni prima, pensato di comprare un albero di Natale. Aveva pensato di andare avanti. Gesù Cristo, sembrava essere stata la vita di qualcun altro. John era un completo disastro emotivo, il suo mondo era sottosopra, non sapeva quello che stava facendo, ma quello che sapeva era che si sentiva più se stesso in quel momento di come si era sentito in quei cinque mesi e ventinove giorni. Si sentiva John Watson. Non sapeva chi era stato due giorni prima, ma non era stato John Watson .

La porta si aprì e si chiuse, e John si girò sulla sedia per vedere Mycroft entrare.

“John.” disse, con un sorriso tirato. “Questa è una sorpresa.”

John notò la mancanza dell'aggettivo piacevole in quella frase. E John decise anche che non aveva intenzione di perdersi in chiacchiere. Questo era qualcosa che il suo io di due giorni prima non sarebbe riuscito a sopportare, ed era forse l'unica cosa che John avrebbe tenuto dal suo io di due giorni prima. “Sherlock è vivo.” disse John, seccamente.

Il volto di Mycroft non reagì se non con un tremolio. Si appoggiò contro la scrivania e considerò John in maniera impassibile . “Ti ha contattato?”

Così non aveva neanche intenzione di fingere di non sapere che Sherlock fosse vivo, che non l’avesse saputo per tutto il tempo. John voleva fare un milione di domande, ma decise che non era il momento, le avrebbe fatte a Sherlock una volta che l’avrebbe trovato. John voleva anche prendere a pugni Mycroft, ma decise che anche quella era qualcosa che poteva fare all’altro Holmes una volta trovatolo.

Quindi, ciò che John fece fu mostrargli il fascio di lettere. John aveva tolto quelle più personali, quelle che mostravano Sherlock in quella che era sicuro Sherlock avrebbe considerato la peggiore visione di sé, anche se aveva tenuto l'ultima per necessità. John guardò Mycroft sfogliarle come se non fossero i regali più sorprendenti che gli fossero mai stati dati, guardando con un po’ più di attenzione l’ultima.

“Penso che sia nei guai.” disse John, una volta che il volto di Mycroft continuò ad essere privo di espressioni.

“Cosa te lo fa pensare?” chiese Mycroft, blandamente.

“Perché Sherlock non mi avrebbe mai mandato quelle lettere a meno che non fosse nei guai.”

“Perché no?” Mycroft fece cadere le lettere con noncuranza sulla scrivania, incurante del loro valore. “Sherlock ha sempre avuto un punto debole quando tu eri coinvolto. È stato stupido da parte mia pensare che avrebbe potuto farti credere di essere morto per un periodo di tempo troppo lungo.”

“Penso che ci sia riuscito per un periodo di tempo abbastanza lungo, grazie molte.” sbottò John, perdendo la calma. “Sapevi che aveva finto la sua morte?”

“Certo che sì.”

“Allora dov'è ora?”

Mycroft esitò, per un momento, e quell’esitazione disse tutto. John pensò a come stava Mycroft l'ultima volta che lo aveva visto quando Sherlock era ancora vivo, esitante, incerto, in qualche modo più piccolo. In quel momento di esitazione, Mycroft era di nuovo in quel modo, e John sentì la stessa pressione nel petto che aveva sentito le prime settimane dopo la morte di Sherlock, l’ossessiva voglia di dire no, no, non può essere vero.

“Non lo so.”, disse Mycroft, finalmente.

“Cosa vuoi dire?”

“Doveva rimanere in contatto. Non l’ha fatto. L'abbiamo perso.”

“Quando?”

“Una settimana fa.”

“Una settimana fa? Perché non me l'hai detto?”

“John, pensavi fosse morto, una settimana fa. Cosa avrei dovuto dirti? Che credo che questa volta potrebbe essere morto per davvero?” la voce di Mycroft era tagliente, tradendo quanta emozione ci fosse in realtà dietro. Non era una conversazione facile per lui, John lo sapeva.

A John non importava, comunque. “Dov'era quando è scomparso?”

“Argentina.”

“Cosa stava facendo?”

“Distruggere la rete di Moriarty. Ecco perché tutto questo è accaduto, John. Sbarazzarsi di Moriarty, in modo da poter tornare da te.” La voce di Mycroft era ironica e triste allo stesso tempo.

“Così l’hai mandato lì come operativo? Sherlock?”

Mycroft si irrigidì. “Pensi che abbia avuto scelta? Non ti ricordi quant’era testardo?”

È.” corresse John, con insistenza. “Quant’è testardo. E non mi interessa. Sherlock è molte cose, Sherlock è così tante cose, ma non è un soldato. Ecco perché c’ero io. E l’hai lasciato andare là fuori, da solo.”

“A Sherlock piace lavorare da solo.”

“Sherlock odia lavorare da solo. Come puoi non saperlo? Come puoi vederlo così poco chiaramente? Sherlock lo odia: ha bisogno di persone intorno a lui, alleati, amici.”

“Lui non ha amici, John, a parte te.”

“Oh mio ​​Dio, sei sempre stato così in errore al riguardo. Entrambi. Idioti.” John si alzò e tirò via le lettere dalla scrivania di Mycroft, rabbiosamente. “Buon Natale, Mycroft.”

“John.” Mycroft lo chiamò. “Mi dispiace. Ma... lui è morto. Questa volta per davvero.”

John si fermò con la mano sulla maniglia della porta di Mycroft e lo guardò. “L’ho già creduto una volta. Non ho intenzione di fare lo stesso errore due volte. Ho intenzione di trovarlo e di riportarlo a casa.” John si assicurò di sbattere la porta mentre usciva.

 

 

 

Note della traduttrice:

Con solo un giorno di ritardo rispetto alle mie previsioni, colpa del mio word che aveva improvvisamente deciso di diventare alquanto capriccioso, riesco a postare la seconda parte di Letters, a mio parere la più bella ed emotiva, ma io sono di parte perché mi rivedo sempre così tanto in John, e leggere del suo viaggio emotivo attraverso le rivelazioni dei sentimenti di Sherlock è sempre così…non ci sono parole.

Questa parte è stata molto più complicata da tradurre, aggiungete un word che non salva dei pezzi ma anzi te li cancella, un word che cambia improvvisamente formati dando dei problemi di apertura non solo a me ma anche alla mia beta, aggiungete una vita sociale impellente..e insomma, cercate di capire il mix di situazioni che hanno portato questa povera traduttrice a delirare.

La terza parte della serie dovrebbe arrivare entro una settimana, dieci giorni al massimo!

Grazie per le recensioni, spero di leggerne ancora di più!

_opheliac

    

   
 
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