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Autore: Red Raven    28/03/2014    3 recensioni
Prima classificata al contest "Il Troppo...e il Niente" indetto da Original Concorsi.
Vincitrice del premio "Miglior Documentario" agli Oscar EFPiani 2015.

Nel 1771 Gavin Hamilton, archeologo, scoprì, nei pressi di Villa Adriana a Tivoli, in uno stagno, un numero considerevole di marmi antichi provenienti dalla villa. Questa è la storia di come quel luogo, chiamato il Pantanello, ottenne i suoi tesori.
Genere: Commedia, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Medioevo
- Questa storia fa parte della serie 'Original Tales'
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Nick dell’autore: Rolly Stardust
Titolo: Il Pantanello
Tipologia: One-Shot
Lunghezza: 4993 parole (secondo word)
Genere: storico, generale
Avvertimenti: //
Rating: verde
Credits:la storia prende spunto da una vicenda reale e nota, cioè il ritrovamento dei marmi di Villa Adriana in ‘sto benedetto Pantanello da parte di Hamilton. Tutto il resto è pura invenzione.
Note dell'autrice:: a parte che l’ho scritta in una giornata di scriveggiamento selvaggio (e non mi capacito che sia venuta fuori così lunga), è molto probabile che sia piena di errori di ortografia. E’ statisticamente certo, più la leggo e più errori mi sfuggono. E’ una cosa che non comprendo. In ogni caso, tutti i personaggi qui presenti sono inventati di sana pianta, compreso il vescovo Colonna, a cui ho dato il cognome di una nota famiglia romana solo per mancanza di fantasia. Non corrisponde quindi a nessun personaggio storico. E per chi non lo sapesse, la calce si forma triturando delle rocce formate da carbonato di calcio, tra cui il marmo bianco. Ah, tecnicamente sarebbe ambientato nel Medioevo, quindi il calcolo delle ore è quello delle ore canoniche, che potete trovare qui.
Introduzione alla storia: Nel 1771 Gavin Hamilton, archeologo, scoprì, nei pressi di Villa Adriana a Tivoli, in uno stagno, un numero considerevole di marmi antichi provenienti dalla villa. Questa è la storia di come quel luogo, chiamato il Pantanello, ottenne i suoi tesori.


Il Pantanello




Nel 1771 Gavin Hamilton, archeologo, scoprì, nei pressi di Villa Adriana a Tivoli, in uno stagno, un numero considerevole di marmi antichi provenienti dalla villa. Questa è la storia di come quel luogo, chiamato il Pantanello, ottenne i suoi tesori.



Mastro Calicchia era un calcinaio. Fabbricava calce. Era la professione della sua famiglia da ormai quattro generazioni, e poteva dire, a ragione, di fornire la migliore calce di Tivoli, se non dell’intero Stato Pontificio. La sua calce non era ancora entrata nella storia, ma stava per farlo. Stava per fornire materiale da costruzione al nuovo palazzo vescovile. Il vescovo Colonna sarebbe rimasto estasiato dalla qualità della sua calce, bianca come il marmo splendente di Roma, dalla sua consistenza morbida, dalla sua solidità. Grazie alla lei il palazzo sarebbe rimasto saldo nei secoli a venire, e un giorno avrebbero detto che cotanta meraviglia era certamente dovuta alla calce che la componeva: la calce di Mastro Calicchia.
“Padre, per quanto ancora dovremo lavorare di notte come dei ladri?”
“Io ho le mani piene di vesciche…”
“A me fa male la schiena…”
“SILENZIO! Tutti e quattro! Lavoreremo finché non avremo svuotato questo posto di tutto il marmo, e ora muoversi!” Il mastro calcinaio osservò i figli obbedire di malavoglia e camminare nella notte in mezzo alla città in rovina, chi in silenzio, chi borbottando riottoso, chi sospirando di tristezza.
Alberto Calicchia era mastro calcinaio e stava per entrare nella storia. Doveva solo impedire al suo rivale di soffiargli la gloria.

Una settimana prima
Il vescovo Colonna osservò i due uomini di fronte a sé: nonostante avessero fatto ogni sforzo possibile per apparire presentabili, era ovvio che non si trattasse di nobili. I vestiti della festa, un po’ usurati, non nascondevano la pelle abbronzata, né potevano far nulla per l’odore di sudore che qualsiasi persona men che altolocata sembrava portarsi appresso dalla nascita. Tuttavia, il vescovo non si scompose: non li aveva certo convocati per il loro bell’aspetto.
“Signori miei” disse, congiungendo le mani in grembo- era un uomo distinto, il vescovo. Sulla trentina, con pochi, morbidi capelli castani a sfuggirgli dallo zucchetto, il viso dai lineamenti decisi che rivelava la sua natura intransigente- “vi ho convocato qui per una ragione ben precisa”.
Fece una pausa, osservando i due: entrambi sulla quarantina, uno magro e secco come un ramo, con capelli castani stopposi legati in un codino, l’altro robusto, con una lucida testa pelata coperta solo da pochi capelli neri, lo guardavano incerti e forse anche un po’ spaventati.
“Ad aprile cominceranno i lavori per la costruzione del mio nuovo palazzo” mentre parlava, il vescovo vide i due rilassarsi e concentrarsi su di lui “il mio architetto personale si occuperà dei lavori. Il suo nome è Michelangelo Verrucchio, credo che questo nome non vi sia nuovo.”
I due annuirono con foga: sì, ne avevano sentito parlare.
“Molto bene. Verrò al punto: necessitiamo di un maestro calcinaio per l’intera durata dei lavori. Mastro Verrucchio ha fatto i vostri nomi, presentandovi come i migliori artigiani della regione”.
I volti dei due uomini si illuminarono di gioia, ma prima che potessero cominciare a ringraziare il vescovo e fargli sapere che sarebbe stati onorati di lavorare per lui, egli li interruppe: “Necessitiamo di una maestranza. Una, signori miei. Uno di voi due otterrà l’incarico. L’altro dovrà rivolgersi altrove”
Il vescovo Colonna pensò che non aveva mai visto due uomini bloccarsi a quel modo continuando a respirare: sembravano quasi morti.
Continuò: “Verrò nei prossimi giorni nelle vostre botteghe insieme a Mastro Verrucchio. Dopo di ciò, vi informerò sulla mia decisione. Ora potete ritirarvi” disse, congedandoli con un gesto della mano.
Osservò i due uomini inchinarsi ripetutamente e bofonchiare saluti e ringraziamenti. Mentre uscivano, pensò che nei giorni successivi ne avrebbe viste delle belle.

“Mangiapelo! Voi, il miglior calcinaio della regione? Che stregoneria avete fatto per convincere Verrucchio?”
“Io? E voi allora? Che non sapete neanche distinguere tra il marmo e il gesso? Scommetto che lo avete imbrogliato, con la vostra parlantina!”
“Per vostra informazione” esclamò Calicchia “la mia parlantina, come la chiamate voi, dice solo la sacrosanta verità! La mia calce è la migliore di Tivoli. Uso solo le pietre più pure, mentre voi usate farina e argilla cotta, ecco la verità!”
“Dite voi?” disse Mangiapelo, i capelli castani ormai sciolti sul capo per la foga “io invece vi dico che la mia calce sarà scelta dal vescovo. Ho trovato una miniera d’oro, amico mio, e ho intenzione di usarla contro di voi”.
“Oro?” disse Calicchia, dubbioso.
“Marmo, mio caro signore, di una qualità tale che non l’avete mai vista” fece Mangiapelo, le pupille dilatate e il sorriso sghembo.
“Voi mentite. Non siete abbastanza ricco per comprare del marmo” disse Calicchia, asciugandosi la pelata, incerto.
“Non ho mai detto di averlo comprato” Mangiapelo prese un cordino dalla tasca e si rilegò i capelli “Ci vediamo alla funzione, mastro Calicchia. Vi conviene chiedere l’aiuto dei santi per vincere contro di me stavolta” e se ne andò via ridendo a gran voce. A Mastro Calicchia venne una gran voglia di rompergli i denti.

Piero guardò la sua dolce fanciulla, e sospirò: era sdraiata su un muretto di pietra, le gambe, pudicamente coperte dal vestito, raccolte sul fianco, una mano a sostenere il suo bellissimo viso ricoperto di lentiggini, i capelli castani sciolti a ricadere sulla schiena. Si era lasciata andare al riposo, la sua dolce fanciulla. E quanto bella era, con le labbra sottili aperte un poco, a scoprire i candidi denti, quasi fosse un sorriso incerto.
Piero si avvicinò a lei, e con una mano le accarezzò il morbido viso: subito ella aprì gli occhi e si voltò verso di lui, languida mentre usciva dal suo sonno. Infine sorrise:
“Buongiorno” disse.
“Buongiorno Federica” rispose lui, il cuore che pareva improvvisamente leggero.
Ella si alzò a sedere, mentre allungava le braccia e si stiracchiava come un gatto.
“Ti aspettavo” disse, guardandolo negli occhi.
Piero in principio tacque: si era perso nell’ammirare gli splendidi occhi verdi di Federica, lucenti come preziosi.
“Sei in ritardo, amor mio. Cos’è successo?” insistette lei, vedendolo in silenzio.
“Perdonami” fece lui, riscuotendosi “ho dovuto aspettare che mio padre partisse per andare dal vescovo…non volevo che sapesse…”
“Di noi due?” lo interruppe lei.
Piero per un momento temette che fosse irata con lui, ma si risollevò, vedendo che sorrideva: “Non preoccuparti, anch’io voglio che resti tra di noi” disse Federica “Mio zio di sicuro non approverebbe: se sapesse che ti ho fatto conoscere questo posto…”
“Non lo saprà mai, mia dolce fiore” la rassicurò precipitoso Piero “non lo saprà nessuno, te lo giuro. Sarà il nostro segreto”.
Federica sorrise e si avvicinò al suo amato: i baci dolci dei due si protrassero a lungo, seduti su un muretto in rovina, mentre la statua di marmo di una giovane donna senza un braccio pareva guardarli complice.

“Dove sei stato?”
Piero crollò letteralmente dal mondo di sogni in cui si trovava (e che non fosse finito in un fosso lungo la strada era veramente un miracolo) per vedersi davanti la faccia corrucciata di suo fratello Adriano.
“A fare un giro” rispose Piero, evasivo, sperando che ciò placasse l’animo del maggiore.
“Con chi?” insistette quello, brandendo minaccioso un cucchiaio di legno.
“Con nessuno” disse il più giovane, aggirando l’enorme stazza del fratello ed entrando in casa alla maggiore velocità possibile.
“Signorino, lo sai che qui c’era del lavoro da fare? Quelle pietre non si triturano da sole! Quando tornerà nostro padre vedrai quante te ne dice” sbraitò quello, agitando il cucchiaio come un mulinello e seguendolo all’interno della sala da pranzo.
“Stai calmo, per favore, adesso lo faccio! Che c’è per pranzo?” Piero cambiò rapidamente discorso, sperando che suo fratello si calmasse e la smettesse di minacciarlo con un attrezzo da cucina.
“Oh mio caro fratello, vedrai!” fece quello, infatti, improvvisamente ringalluzzito, accarezzandosi la barba con aria orgogliosa “Sarà una vera squisitezza”.
“Sarà il solito stufato di broccolo” fece una voce sarcastica dietro di loro.
“No, invece! Credi che siamo forse contadini, noi, a vivere dei magri frutti della terra?” disse Adriano al giovane seduto al tavolo da pranzo, circondato da fogli di pergamena scritti fittamente “No, mio caro fratello! Quest’oggi abbiamo carne! Succosa e succulenta!”
“Carne di pollo” fece il giovane, guardandolo da sopra le pergamene.
“Sempre di carne si tratta!” borbottò Adriano, aggirando il tavolo e piazzandosi saldamente di fronte al camino, dove una pentola borbottava sopra alle braci.
“Carne avariata” disse il fratello seduto al tavolo, senza neanche alzare lo sguardo.
“Francesco…” cercò di zittirlo Piero, prima di sobbalzare, e con lui l’intera casa, quando Adriano sbatté violentemente il cucchiaio contro il pentolone, rischiando di fare uscire parte del contenuto.
“Hai qualcosa da dire contro la mia cucina? E’ così?” sbraitò il maggiore, muovendosi a grandi passi verso Francesco, che lo osservava tranquillo dal basso.
“Hai qualcosa da dire contro il cibo che il buon Dio ci ha dato e che io ti metto in tavola tutti i santi giorni? Allora? Tu con tutte queste cartacce!” gridò furibondo Adriano, il viso paonazzo.
“Io con queste cartacce ti permetto di comprare il cibo che tu ti limiti a buttare in quella dannata pentola, quindi sì, direi che ho da dire sulla tua cosiddetta cucina!” rispose pacato Francesco, alzandosi a suo volta e guardando il fratello in faccia senza sforzo –arrivavano alla stessa altezza, anche se Adriano era grosso il doppio dell’altro.
“Benissimo!” rispose Adriano, prima di tirare un pugno dritto al viso del secondogenito.
Piero li guardò sconvolto: dopo il primo gancio, i due avevano cominciato a rotolarsi per la cucina prendendosi a botte in qualsiasi punto riuscissero a raggiungere e con qualsiasi oggetto potesse servire allo scopo, strappando fogli, fracassando vasellame e facendo un baccano d’inferno, condito da occasionali minacce tipo “Ti faccio vedere io!” e insulti triviali come “Palla di lardo”, “Fannullone”, “Idiota”, “Pezzente” e simili.
Da sopra le scale spuntò una testa bionda piuttosto sconvolta: “Cessate questo bailamme, villici! Interrompete la mia arte!” strillò, prima di tornare su con un grido indignato per evitare un piatto in ceramica che si schiantò sul muro dietro di lui.
“Basta…basta, fermatevi!” cercava di fermarli Piero, che si agitava intorno ai due senza sapere che fare a parte sbattere le ali come un uccello, nella speranza di ottenere chissà che risultato.
“CHE DIAVOLO SUCCEDE QUI?”
Improvvisamente calò il silenzio: i due fratelli cessarono di combattere, Adriano in procinto di tirare un calcio a Francesco, che stava sopra di lui e lo stava riempiendo di sberle. Mastro Calicchia era sulla soglia di casa, e guardò la confusione imperante nella stanza. Vide i suoi due figli maggiori avvinghiati l’uno all’altro, uno con un labbro gonfio e l’altro con il sangue che gli usciva dal naso, il suo ultimogenito visibilmente sconvolto che cercava di nascondersi dietro al camino e la testa bionda del suo terzo figlio che faceva capolino dalla cima delle scale, e sospirò.
“Mettete a posto, tutti e quattro, e poi mangiamo. Porto notizie.”

Adriano, Francesco, Guido e Piero tacevano, ognuno elaborando la notizia a modo proprio: Adriano rimuginava sulla quantità di lavoro che avrebbero dovuto fare per battere Mangiapelo, Francesco elaborava una strategia commerciale per ottenere la maestranza, Guido fantasticava sulla magniloquenza artistica che avrebbe avuto una simile opera, Piero pensava a Federica. E fu proprio a Piero che Mastro Calicchia si rivolse:
“Tu ne sai niente?”
Il ragazzo sussultò: “Di che cosa?”
“Della miniera d’oro di cui farfugliava Mangiapelo” rispose il padre, guardando attentamente il ragazzo.
“N-no padre, perché dovrei saperne qualcosa?” esclamò frettolosamente il giovane, incespicando sulle parole.
“Perché è da quasi sei mesi ormai che gironzoli intorno a sua nipote con gli occhi da triglia: non ti ha detto niente a proposito?”
Piero deglutì rumorosamente: come aveva fatto a scoprirli?
“Vi ho visto baciarvi dietro la legnaia cinque mesi e mezzo fa” disse il padre, quasi leggendogli nel pensiero.
Piero annuì: ecco come.
“Sai qualcosa o no?” interloquì Adriano.
“Fratello, se pure sapesse, mi pare ovvio che non direbbe nulla, la forza dell’amore è più grande di qualsiasi maestranza” fece Guido con tono soave, scuotendo i capelli biondi con le dita sporche di colore.
“Anche di una vescovile?” disse Francesco.
“Piero” li interruppe il padre “per quanto mi riguarda, non ho nulla in contrario che tu ti sposi con la nipote di Mangiapelo: il lavoro è una cosa, le donne un’altra. Mangiapelo non la pensa così, quindi ti posso assicurare che se non ti presenterai da lui con un bel gruzzolo non ti concederà mai la mano della ragazza. Se otterremo la maestranza al suo posto, potrai guadagnarti quei soldi. Altrimenti, rassegnati a vederla sposata al macellaio”.
Piero tacque, gli occhi sgranati: cosa doveva fare? Suo padre diceva la verità, ma aveva fatto a Federica un giuramento solenne, e non era forse più importante la sua fiducia di qualsiasi altra cosa?

Tivoli era un luogo incantevole: un piccolo paesino arroccato in cima a un colle verdeggiante, godeva di acque limpide e di uno splendido panorama. Dai balconi terrazzati del villaggio era possibile vedere l’immensa foresta ai piedi del colle, la brughiera poco distante e poi, più in là, se il cielo era terso e l’occhio vigile, i sette colli di Roma.
Quello che nessuno era mai riuscito a vedere, però, era cosa ci fosse nella foresta ai piedi del monte: verdissima, selvaggia e impenetrabile, nessuna strada la attraversava a parte un piccolo viottolo usato dai cacciatori di frodo, che per natura non erano molto loquaci.
Quando Mastro Calicchia entrò nella radura, rimase incantato: una dea di marmo bianco, di ottima qualità, lo fissava severa dall’alto di due metri di altezza totale, basamento ed elmo di marmo incredibilmente realistico compresi.
Calicchia era affascinato: un marmo candido, lucente, levigato come se fosse stato fatto il giorno prima. “E’ di questa che parlava Mangiapelo? Di questa meraviglia?” mormorò con reverenza.
“Padre…” Guido aveva il tono di chi non riusciva a credere ai propri occhi “è meglio che veniate a vedere” disse, prendendolo per mano.
Mastro Calicchia si lasciò guidare dal figlio oltre la radura, attraverso il folto della foresta, come in trance: di fronte a lui, la luce calda del primo pomeriggio sembrava chiamarlo, passando discreta tra le fronde degli alberi, e lui, come un bambino che muove i primi passi verso la madre, si lasciò attirare, là fino a dove gli alberi si diradano, dove il più bello spettacolo della sua vita si dispiegò magnifico ai suoi occhi.
Di fronte a lui stava una valle immensa, illuminata dai raggi del sole, e qua e là, più di quante avesse mai visto in vita sua, costruzioni magnifiche splendevano come soli bianchi in mezzo agli alberi. Un’enorme, colossale città in rovina occupava l’intera valle, a mala pena coperta dalla vegetazione. Ruderi giganteschi si stagliavano contro il monte di Tivoli, qua e là pozze d’acqua riflettevano la luce del giorno, prati fioriti si stendevano tra le rovine, gruppi di farfalle dai mille colori svolazzavano qua e là. E ovunque lui posasse lo sguardo c’era marmo: marmo sulle pareti, marmo per terra, statue di marmo a grandezza naturale o anche di più, candido marmo scintillante della più alta qualità.
Mastro Calicchia cadde in ginocchio: “Questa” disse a fatica “è davvero una miniera d’oro.”

“Ma come è possibile che nessuno se ne sia mai accorto?”
“Se ne è accorto Mangiapelo” disse Francesco, guardando il fratello maggiore con condiscendenza.
“Sì, ma non è possibile che mai nessun altro prima di lui lo sapesse! Insomma, questa città è enorme!”
“E’ incredibile...” Guido stava guardando un barbuto uomo di marmo, sdraiato e completamente nudo, con qualcosa di molto vicino alla venerazione “guardate che maestria! Che resa dei dettagli! Che realismo!”
“Che coso” fece Adriano al fratello, accennando con un sorriso al membro di marmo proporzionato alle dimensioni colossali della statua.
Piero nel frattempo si era seduto su un muretto, sconsolato.
“Pensi di aver fatto male?” Francesco si sedette di fianco a lui. Piero scrollò le spalle: “Non lo so, sinceramente. Ho paura di aver tradito la sua fiducia” disse alla fine.
Francesco lo guardò per un secondo, un mezzo sorriso sulle labbra. Infine disse: “A volte nella vita ci troviamo di fronte a scelte difficili. Tu hai dovuto scegliere tra la fiducia della donna che ami e la lealtà verso la tua famiglia: è difficile dire quale sia la cosa giusta da fare in questi casi.”
Piero sospirò: “Dici che capirà?” chiese con angoscia.
“Alla fine credo di sì. Le donne sono creature difficili e volubili, ma sanno essere molto più intelligenti e comprensive degli uomini. Ma ti conviene prepararti a qualche batosta” disse sghignazzando.
Piero scrollò le spalle: “Grazie” disse sarcastico.
“Figurati fratellino” rispose il maggiore, dando una pacca sulla spalla al ragazzo.
Mastro Calicchia non ascoltava i figli: guardava intorno a sé senza parlare, gli occhi spalancati.
“Padre, che cosa facciamo?” chiese Adriano, raggiungendolo insieme ai suoi fratelli.
L’uomo si riscosse: “Eh?”
“Dico, cosa facciamo? E’ ovvio che in questa città c’è abbastanza marmo per la calce di dieci palazzi vescovili, e Mangiapelo la mostrerà sicuramente a Sua Eminenza. Come competiamo con una simile quantità di materiale?”
Mastro Calicchia osservò i suoi figli guardarlo con aria spaesata: Adriano visibilmente preoccupato, Francesco impassibile e calcolatore, Guido svagato e meravigliato e Piero semplicemente triste. E prese la sua decisione.
“Non lo facciamo” disse.
I ragazzi sgranarono gli occhi. Calicchia continuò: “Noi non competeremo con il marmo di Mastro Mangiapelo.”
Dai ragazzi si levarono versi di sorpresa e di protesta. Attese che si zittissero, prima di dare il colpo di grazia: “Noi ruberemo il marmo di Mastro Mangiapelo”.

“Di qua, ho trovato il posto!”
I cinque uomini si erano radunati in una conca nella foresta, abbastanza lontana sia dalla strada che dalla città in rovina, abbastanza grande da contenere dieci carri, celata alla vista di chiunque. Mastro Calicchia si guardò intorno: “Sì, qui va bene”.
Adriano non riuscì più a tacere: “Padre, potete spiegarci che cosa avete in mente?” disse, visibilmente preoccupato per la liceità dell’operazione.
“Mio caro figliolo, è molto semplice. Preleveremo tutto il marmo della città e lo nasconderemo qui” spiegò con calma l’uomo.
“Padre…siamo solo in cinque. La quantità di marmo presente qui è tale che anche se lavorassimo per una vita intera non riusciremo mai a portare via tutto prima che Mangiapelo porti qui il vescovo…è semplicemente troppo!” interloquì Francesco.
“Figliolo, mi deludi. Io invece sono sicuro che le nostre braccia saranno forti abbastanza per questa impresa” rispose il padre.
“E come facciamo?” chiese Piero, incerto.
“Per prima cosa, dobbiamo capire quanto è grande questa città, fare una specie di mappa. Poi ci sposteremo con il carro, di notte, e prenderemo tutto il marmo possibile: statue, pavimenti, paramenti murari. Una volta finita una zona, passeremo alla successiva. Vi assicuro che nel giro di una settimana avremo ripulito questo posto.” Mastro Calicchia li guardò con aria ispirata: “Beh, che aspettate? Guido, Francesco, fate una mappa di tutta la zona. Adriano, Piero, salite su al villaggio e prendete il carro e gli attrezzi: non abbiamo tempo da perdere!”

E così cominciarono. Notte dopo notte, alla luce delle stelle e della luna piena, i cinque uomini passavano da un edificio all’altro della città in rovina, togliendo tutto il marmo presente.
“Non potete distruggere quella statua! E’ un’opera d’arte!” esclamò Guido, osservando inorridito i fratelli fare a pezzi un marinaio.
“E come pensi di trasportarla se non la spezziamo? Dai, muoviti, laggiù c’è ancora un pezzo di pavimento.”
“Tutto questo è un insulto all’arte” fece Guido, andando via sconsolato.
“Ehi, Francesco, guarda questo!” Adriano mostrò al fratello il busto di un imperatore romano “Guarda, non trovi che mi assomigli?”
“No”
“Guido” disse Mastro Calicchia “cosa stai facendo con tuo fratello?”
“Stiamo prendendo una statua di marmo, padre” rispose Guido tranquillamente, reggendo la testa di un coccodrillo, mentre Piero ne teneva la coda.
“Ragazzo, quello è cipollino” disse il calcinaio “non è marmo bianco, non va bene per la calce. Mettilo giù”
“Lo so benissimo che non è adatto, ma se volete il mio aiuto per impetrare questa barbarie, allora dovete lasciarmi salvare almeno queste meraviglie!” strillò il terzogenito, già sull’orlo di una crisi di nervi.
“Maledizione Guido, non abbiamo tempo!” interloquì Adriano “Mettete giù quel coso!”
“No! Dovrete strappare questa statua dalle fredde dita del mio cadavere per potermi separare da lui!” gridò Guido, abbracciando il coccodrillo come fosse un orsacchiotto di pezza.
“Va bene, maledizione, fai come vuoi! Ma vedi di non perdere tempo, e soprattutto, fa silenzio!”
Notte dopo notte, silenziosi come topi in un granaio (a parte episodi sporadici) saccheggiavano la città antica, mentre giorno dopo giorno lavoravano in bottega, a turno, per non far insospettire Mastro Mangiapelo, che tutti i giorni passava davanti alla loro porta con aria guardinga.
“Dici che sa?” chiese Adriano a Piero, che scosse la testa.
“No, Federica me l’avrebbe detto, se non altro per rimproverarmi” rispose stancamente.
Passò così una settimana, e giunse la domenica. E insieme, giunse il messo del vescovo.
“Sua Grazia visionerà le botteghe dei Mastri Calicchia e Mangiapelo domani all’ora terza” disse con aria impettita, per poi voltarsi e andarsene senza salutare, come offeso dalla loro stessa esistenza.
“Che tipo” fece Adriano ai fratelli minori, per poi voltarsi e rientrare in casa.

“Dunque” disse Mastro Calicchia “ci siamo.”
I quattro fratelli guardarono il padre. Francesco fu il primo a parlare: “Padre, non riusciremo a portare via tutto prima di domani mattina. C’è troppo marmo”
“Per una volta sono d’accordo con lui” disse Adriano.
“Tacete” disse l’uomo con voce ferma “Stanotte torneremo lì per l’ultima volta e, in nome di Dio, finiremo ciò che abbiamo iniziato”
“Padre” disse Piero, guardando fuori dalla finestra “credo sia meglio muoverci ora.”
Tutta la famiglia si precipitò a guardare fuori: nella direzione del sole che tramonta, una massa poco rassicurante di nuvoloni neri si avvicinava lesta.
“Arriveranno ai vespri, alla peggio” disse Piero “Stanotte la luce della luna sarà coperta, e se piove saremo senza torce…non ci sarà modo di finire il lavoro.”
“Il lavoro? Se siamo senza luce saremo fortunati a tornare a casa vivi” disse Adriano.
Mastro Calicchia osservò la massa gonfia di pioggia che si avvicinava: “Piero ha ragione. Prendete la roba, andremo giù uno per volta, per non destare sospetti. Adriano, porta tu il carro. E prendete le torce, lavoreremo finché potremo.”
La pioggia arrivò molto prima dei vespri: alla nona il cielo aveva già aperto le sue cateratte sulla testa della famiglia Calicchia, che sguazzava nel fango a fatica, cercando di staccare il marmo dai muri con le dita anchilosate.
“Dobbiamo tornare a casa finché siamo in tempo! Questo acquazzone non smetterà prima di domani!” gridò Francesco al padre.
“NO!” fece quello in risposta “C’è ancora luce! Sbrigatevi!”
La luce spariva mentre dietro le nuvole il sole compiva il suo giro, la notte avanzava, la pioggia cadeva implacabile. Ai vespri la luce scomparve del tutto, e i cinque uomini erano ancora nella città in rovina.
“Avrei preferito essere a casa adesso” disse Guido, avvolgendosi in una coperta e avvicinandosi corrucciato al fuoco da campo per scaldarsi.
“Intanto ringrazia che siamo riusciti a ripararci qui sotto” disse Adriano, indicando la mezza cupola sopra di loro “almeno possiamo stare al caldo.”
Piero prese a tossire con forza: sembrava quasi che stesse per vomitare l’anima. Guido aprì le braccia e lo abbracciò con la coperta, in modo che entrambi potessero usufruirne.
Adriano era preoccupato. “Se la caverà” gli disse sottovoce Francesco, comprendendo il suo stato d’animo.
“Tu dici?” gli rispose il maggiore “Piero è sempre stato il più debole di salute, e tutto il lavoro degli ultimi giorni non deve avergli giovato.”
“Guarda te, il fratellone grande e grosso che si preoccupa” lo canzonò l’altro, per poi tornare serio “Nostro fratello è un Calicchia: ha una volontà forte. Ha solo bisogno di riposare.”
Adriano annuì, non del tutto convinto.
Mastro Calicchia era appena fuori del cerchio di luce del fuoco, appoggiato al muro, e guardava fuori, nel buio.
“Quando smette di piovere torniamo a casa” disse.
I quattro ragazzi lo guardarono: “Non finiamo il lavoro?” chiese Guido.
“Questo lavoro è stato maledetto fin dall’inizio. Non avremmo neanche dovuto cominciarlo” disse Mastro Calicchia.
“Non dite così, padre” disse Adriano “Non potevamo permettere che Mangiapelo vincesse così facilmente, vi pare?”
“Figli miei, apprezzo la vostra lealtà, ma ho messo a repentaglio la vostra vita in un’impresa folle, dettata solo dalla mia ambizione. Se vostra madre mi avesse visto non avrebbe avuto remore a darmi dello sciocco asino vanesio” disse con un sorriso amaro.
Anche i ragazzi sorrisero: “Era il suo insulto preferito” disse Adriano.
Piero tossì di nuovo, molto più forte. Mastro Calicchia si avvicinò al figlio: “Appena spiove torniamo. Ormai abbiamo fatto tutto il possibile. Il resto sarà nelle mani di Dio.”
“E del vescovo” interloquì Francesco.
“E del vescovo” ripeté Mastro Calicchia “Ora riposate, vi chiamo io quando è ora.”

Alla fine tornarono a casa all’ora prima. Nel giro di due ore misero Piero a letto, gli prepararono un brodo con il pollo rimasto, pulirono la casa, misero in ordine le scorte, radunarono i documenti e si vestirono con i loro abiti migliori (di lavarsi, dopo tutta la pioggia che avevano preso, non ce n’era proprio bisogno).
Quando arrivò il vescovo, lo salutarono con mille inchini e gli offrirono un po’ di brodo, che lui educatamente rifiutò: gli fecero vedere la casa, il luogo dove preparavano la calce, gliene mostrarono una parte, gli fecero vedere come la preparavano, gli spiegarono i tempi, le procedure, i materiali che usavano. Mastro Verrucchio, un uomo che, nonostante fosse sulla quarantina, aveva una folta chioma di capelli bianchi, chiese al maestro calcinaio: “Sapevo che avevate quattro figli. Dov’è l’ultimo?”
“A letto malato, signore” rispose Mastro Calicchia “Ieri ha insistito per lavorare sotto la pioggia, nonostante fosse domenica. Ci teneva molto che aveste l’accoglienza migliore.”
Il vescovo annuì: “Un proposito lodevole. Spero che non sia un’abitudine” disse con aria inquisitoria.
“Oh no Vostra Eccellenza, solo in occasioni speciali” rispose lesto il calcinaio.
Il vescovo annuì di nuovo, soddisfatto.
Quando se ne andarono, Mastro Verrucchio promise loro che gli avrebbero fatto sapere al più presto.
“Quando fa comodo al vescovo” rispose il mastro calcinaio, inchinandosi mentre Sua Eccellenza si allontanava per recarsi da Mangiapelo.

Era appena passata l’ora sesta, e Adriano stava imboccando Piero con del brodo caldo, quando Mangiapelo fece irruzione nella loro casa: “DOV’È?” gridò come un forsennato.
“Non so di cosa stiate parlando” disse Mastro Calicchia, seduto al tavolo con Francesco a redigere dei conti.
“Dov’è tutto il marmo? Lo so che lo avete rubato voi! DOV’È?” gridò di nuovo Mangiapelo, precipitandosi su Mastro Calicchia e tirandolo su per la collottola, gli occhi dilatati e i capelli stopposi che volavano da tutte le parti.
“Vi ripeto” disse Mastro Calicchia, allontanando l’uomo da sé con forza “che non so di cosa stiate parlando.”
“Sì che lo sapete, sudicio infame! Volevate mettermi in ridicolo con il vescovo, vero? Facciamo sparire tutto, così quando Mangiapelo porterà qui sua Eminenza potremo farci QUATTRO RISATE!” gridò, e spintonò Mastro Calicchia, che gli afferrò le mani e le tenne strette in una morsa.
“Attento amico mio, non sapete quello a cui andate incontro” rispose l’uomo, che per contrasto abbassava sempre di più la voce.
“VOI MI AVETE ROVINATO! Ora come farò ad andare avanti, eh? Come farò a nutrire la mia famiglia, me lo spiegate?” gridò Mangiapelo, ormai sempre più disperato.
“Mastro Mangiapelo” una voce piccola e incerta dalla base delle scale attirò l’attenzione dei due “io so dove si trova il marmo.”

“Piero, no!” disse Francesco, correndo a sostenere il fratello minore, che sembrava stare in piedi a fatica. “Piero, torna a letto, devi riposare” fece per dire Mastro Calicchia, ma il ragazzo lo interruppe: “No padre. La colpa di tutto questo è solo mia, e io devo porvi rimedio”
Piero si rivolse nuovamente a Mangiapelo: “Io amo vostra nipote. Quando ho saputo dell’offerta del vescovo ho sperato di poter guadagnare abbastanza denaro da chiederla in sposa, e ho detto a mio padre della città. Ma in questo modo ho tradito la fiducia di Federica: non sono più degno di essere il suo sposo. Preferisco che quel marmo resti a lei, piuttosto che nelle mani di chi l’ha tradita.”
Mastro Calicchia guardò il figlio con un senso di orgoglio e commozione. Alla fine si rivolse a Mangiapelo: “Lo rivolete il marmo o no?”
I due mastri calcinai erano inginocchiati nel fango, basiti: “Dov’è finito il marmo?” dissero all’unisono.
Davanti a loro, al posto della conca dove i Calicchia avevano nascosto le statue, c’era un pantano profondo quanto due uomini. Di marmo, neanche l’ombra.
“Che cosa è successo? Possibile che la pioggia abbia fatto tutto questo?” chiese Adriano.
“Mi chiedo se sia trattato di semplice pioggia e non di un castigo divino” disse Guido con timore reverenziale.
Mangiapelo scosse la testa sconvolto: “Niente marmo…sono finito…morto…sepolto…” continuava a ripetere tra sé.
Mastro Calicchia si rivolse a lui: “Sembra che dovremo iniziare a lavorare insieme” disse.
Mangiapelo lo guardò allibito. Calicchia continuò: “Stiamo per diventare un’unica famiglia, non possiamo continuare a farci la guerra. Senza contare che non posso permettere che la mia futura nuora e il mio futuro consuocero muoiano di fame, ne andrebbe del mio onore.”
Mangiapelo continuò a guardarlo allibito: “Niente marmo” si limitò a ripetere.
“Su amico mio, alzatevi” disse Calicchia, tirandolo su per le spalle “andiamo a farci un bicchierino, in onore dei nostri due giovani. E non vi preoccupate per il marmo, si vede che era destino.”
I due mastri calcinai, insieme con Adriano e Francesco, si avviarono su per la salita, verso il villaggio.
Solo Guido rimase vicino al pantano, a scrutare quelle acque profonde. D’improvviso notò qualcosa di bianco vicino alla riva: quando si avvicinò, vide la statua di una giovane donna senza un braccio che sembrava sorridergli.
Guido si guardò intorno furtivo, e con un unico calcio rigettò la statua nell’acqua, dove scomparve alla vista. Soddisfatto, si avviò sulla scia dei quattro uomini, lasciando per sempre nascosto il pantanello e i suoi tesori.


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