Leto
aveva immaginato la sua immortale esistenza senza figli: un'anonima
quotidianità simile al tempo di Estia, così
virtuosa da bandire
qualsiasi emozione carnale per chiudersi in una rarefatta
realtà di
sentimenti freschi, rigeneranti come il vento estivo ed una parte di
lei quasi invidiava la comoda posizione della Dea del Focolare.
Lei
era conscia di essere diversa, di avere un sentiero opposto tracciato
dal Fato e quando Zeus era arrivato, aveva capito cosa le era
richiesto, aveva acconsentito ad essere posseduta dal più
potente
fra gli Dei, dal figlio che aveva vinto il padre e dato nuovo ordine
al mondo; gli era stata grata di averla scelta per dargli un erede
divino.
Era, che non vedeva oltre il vincolo matrimoniale, era di
differente avviso: gli accoppiamenti di Zeus erano vissuti come un
affronto al suo ruolo, pure se egli mai avrebbe rinunciato alla
regina che aveva scelto, che aveva posto al di sopra di ogni altra,
che amava per il temperamento focoso e per la sottile arguzia; Leto
sarebbe stata lieta di prostrarsi ai piedi della Dea implorando
perdono ma era consapevole dell'inutilità del gesto; Era
aveva già
scatenato la sua temibile ira su di lei.
Leto si era data alla
fuga, non aveva altra possibilità di salvezza e non aveva
avuto pace
o riposo per l'intera gravidanza, spesso fra le lacrime aveva
desiderato scambiare il proprio destino con quello di Atena, la
figliola prediletta di Zeus o con la dissoluta Afrodite, ma il suo
dovere era nascondersi, salvare se stessa e la vita che le era stata
affidata.
Il dolore di quei momenti ancora la tormentava, sentiva
l'angosciosa paura di essere punita serrarle il cuore in una stretta
crudele, anche ora che i suoi figli erano splendenti, portentosi
nella loro eccellenza, Leto avvertiva il passato raggiungerla,
soffocarla con l'antico terrore, infine guardando i ridenti occhi di
Artemide e i capelli biondi di Apollo, ritrovava il sorriso: loro
erano una prole che superava ogni speranza, ogni preghiera di madre.
Dal suo tempio, Leto
poteva
osservare le frecce scoccate da Apollo falciare sette bellissimi
fanciulli, guardava la malattia divorarne la carne mentre Artemide
colpiva delicate vergini, che si accasciavano al suolo come candidi
gigli recisi e nel seguire tutto ciò, il suo animo si faceva
leggero
mano a mano che lo strazio di Niobe cresceva.
La regina di Tebe, avrebbe
pagato per la superbia, per la superficialità con cui aveva
sottovalutato le fatiche di una madre, assai superiore a lei, piccola
morta e le sue grida raggiungevano l'Olimpo come ingiurie e
suppliche.
I principi e le principesse
spirando, scivolavano nel Regno di Ade, questi malinconico per
l'assenza di Persefone, scrutava accigliato la strage perpetrata dai
nipoti.
Leto ricordava che era stato rifiutato come un ragazzino alle prese col primo amore, malgrado l'orgoglio, aveva convenuto che quell'unione sarebbe stata infelice e nulla le aveva biasimato.
Ora, Niobe pregava inginocchiata con una bambina stretta al seno, esigeva una risposta dai Numi, conscia di averli oltraggiati ed era tipico degli Umani, riscoprire l'umiltà quand'era tardi per riparare a uno sbaglio.
«Il suo cuore non è spezzato.» interloquì Estia fra gli Olimpi: «Esso è continuamente trapassato da lame arroventate, un tormento che neppure le Erinni saprebbero infliggere con tanta asprezza.»
«Ha una voce così penetrante!» si lamentò Afrodite, il bellissimo viso era imbronciato: «Ci tedierà per moltissimo tempo con strilla volgari, ormai abbiamo sentito le sue lamentazioni: può tacere.» scosse il capo dorato
«Temo sia difficile controllarsi, quando coloro a cui hai dato la vita sono morti fra le tue stesse braccia.» prese la parola la Regina, altera ed insieme tranquilla: «Niobe non vorrà tacere neppure per prendere fiato, urlerà con tutta la sua anima sino a quando ne avrà una che possa soffrire.» concluse con un'occhiata eloquente al marito.
«Non potete mandare nell'Oltretomba ciò che vi indispone.» disse a bassa voce Persefone: «Siamo costretti a ospitare Ombre così petulanti da farci sperare che fuori vi siano altri col talento di Orfeo ansiosi di riscattarli.» tacque, quando Demetra le sfiorò il polso.
«Aspetterete invano.» si intromise Apollo: «I talenti musicali come il suo non ve ne saranno in futuro.» spostò lo sguardo su Dioniso, che sorrise serenamente: «Una mia freccia e...» stava per proseguire, ma Zeus li zittì con un gesto, poi emise un lieve sospiro.
Niobe non aveva più cuore per gridare: la sovrana di Tebe era un masso immobile, muto fra i cadaveri e il suo silenzio pesò più del pianto.
Leto dovette distogliere lo sguardo e con lei, ogni altro Dio; un fugace pensiero si affacciò nella sua mente, si impose di scacciarlo. La tristezza rischiò di avvolgerla ed era una coppa pesante da cui era arduo uscire, ma d'un tratto, volle piangere.
La
voce limpida di Artemide, la riscosse: «Madre»
chiamò
allegramente, era accompagnata da una muta di cani uggiolanti a cui
donava carezze e bocconi di carne; la sua bella figliola
gettò le
bianche braccia al collo di Leto: «Non
angustiarti: il
padre Zeus ha risolto tutto.» mormorò
con dolcezza.
Ella la
trattenne a sé, Artemide aveva il profumo del bosco sulla
pelle,
aveva l'odore inebriante della libertà che lei non aveva
conosciuto.
«L'avrei uccisa, non fosse stato per
Persefone.»
replicò Apollo: «Dioniso ha ancora il
coraggio di sorridere,
quando si nomina Orfeo. Hai notato?»
domandò piccato alla
sorella.
Artemide appoggiò la testa sulla spalla di Leto, i
capelli scuri come la notte coprirono il braccio materno: «Le
Menadi hanno detto...» cominciò a dire,
ma Leto le posò un
dito sulle labbra.
Apollo finse di non aver sentito: «Fai
tacere i cani, se rimani.» rilevò
atono: «Ho portato la
lira, intendo usarla» affermò,
come fosse annoiato: «Spero anzi che
le mie allieve
dilette interrompano il faticoso oziare per onorarci con una danza
che possa definire tale .» cercò con gli
occhi Leto per un
tacito assenso.
«Sarebbe cosa gradita.»
acconsentì lei,
allungò la mano libera per sfiorare il viso di Apollo: «Vai
in
giardino, figliolo e noi ti seguiremo: è tutto passato,
è tutto
risolto.» affermò con un'impercettibile
esitazione: «Non
sono più turbata.» mentì
Leto.