Disclaimer: I
personaggi citati appartengono a Masashi Kishimoto, che ovviamente si prende tutti i diritti del
loro uso. La canzone che dà il titolo, i versi e pure qualche
spunto all'intera storia è Pezzi di Vetro di Francesco De Gregori,
a cui non posso che inchinarmi per aver scritto qualcosa di così poetico ed
emozionante.
Pezzi di Vetro
L'uomo che cammina sui pezzi
di vetro
dicono ha due anime e un sesso di ramo duro e un cuore
e una luna e dei fuochi alle spalle mentre balla e balla,
sotto l'angolo retto di una stella.
"Kurenai, scendi!!!"
Era cominciata proprio così, con Anko giù in strada
che sbraitava a gola spiegata sotto la sua finestra assordando tutto il
quartiere.
Era cominciata in una sera in cui, per principio, giocavano ad
essere normali.
Tre giorni prima, quattro di loro erano tornati da una missione di livello S.
Avevano eliminato una cellula terroristica che agiva nel Nord, dalle parti
delle Nevi, ma solo un minuto prima di tagliare la
gola del capobanda si erano ricordati che i ricercati avevano tutti dai tredici
ai sedici anni.
S'intende naturalmente che la missione era stata
completata con successo: erano pagati per sgozzare quei ragazzini, dunque
l'avevano fatto senza esitare un istante di più.
Poi però - neppure il tempo di riporre il pugnale - era arrivato il fruscio
sinistro delle Erinni alle loro spalle, con quella nota dolente e serpentina di
stridore di denti e zanne affilate.
E Aoba, Raido, Genma e Yuugao avevano ripensato
ai loro tredici anni vissuti in un tempo perduto, forse neanche esistito:
perciò, per quanto ci avessero provato, non erano
riusciti a togliersi dalla testa quei visi distorti da una brutalità
animalesca, quegli occhi dai colori degli angeli che gelavano il sangue, quei
piccoli denti di demoni. Non li lasciavano in pace, non se ne
andavano, si nutrivano del liquame nero dei loro rimorsi e li tenevano
svegli, l'orecchio teso a cogliere le loro risate fanciullesche, gli echi di
quel "come sarebbero stati, se" che nessuno riusciva a fare a meno di
pensare. Almeno fino alla prossima missione.
Kurenai conosceva quel sentimento, l'aveva
sperimentato diverse volte: sapeva che l'unica cosa da fare in questi casi era
fingere, per una sera almeno, di essere umani, uomini e donne normali che
escono a cena, si ubriacano e talvolta finiscono a letto.
E, cosa più importante di tutte, dimenticano.
Non era essenziale tornare da una missione disumana per voler dimenticare a ogni costo, bastava guardare un po' più in là e c'era
sempre qualcosa da cui scappare.
Kurenai, prima di buttar giù la vodka, pensava a
tutti i suoi morti, che costellavano la sua mente con
un cimitero di croci fitte, poi serrava le palpebre e vuotava d'un fiato tutto
il bicchiere. Il liquore bruciava come fuoco vivo tra le labbra, ma funzionava,
lei riusciva a dimenticare.
Dunque, era cominciata in una sera sbagliata a
prescindere. Erano cominciate allo stesso modo tante altre storie effimere come
battiti di ciglia, storie che non arrivavano al mese,
perchè la commedia dei bravi ragazzi realizzati e moderni naufragava presto:
loro si stancavano di recitare, di imbastire conversazioni, di organizzare
uscite e cene, di comportarsi come giovanotti spensierati quando il loro lavoro
era l'assassinio a pagamento.
Dopo qualche tempo le missioni riprendevano gradualmente ad essere il fulcro
delle loro vite, ed era in fin dei conti meglio così.
Almeno fino alla prossima corsa fino all'orlo del precipizio, quando poi sarebbero tornati a casa con le facce scure e
un'inestinguibile voglia di sentirsi vivi, solo questo, solo vivi, uomini e
donne normali.
Erano cominciate così la storia interminabile di Anko e Kakashi, quella irrisolta
di Shizune e Genma, e
perfino un tocco di tragedia - Yuugao e Hayate - non era mancato.
Ma quella sera simili pensieri veleggiavano altrove,
sopra mari sconosciuti.
Il locale era il solito di sempre: tavolini d'un nero
brillante, fiori freschi in ogni vaso, ottima musica e una promessa di
normalità. Kurenai entrando non si era stupita di
sentirsi così bene, così leggera e sottile, vuota come una pagina bianca. Aveva
notato Iruka, Kakashi, Gai,
Ebisu, Genma, Raido, Aoba, Yuugao,
Asuma e perfino quel sadico di Morino, tutti seduti
al solito tavolo in fondo al salone.
Era rassicurante vedere tanti volti vivi e umani dopo le stilizzate fattezze
animali che indossavano in missione, era come sentirsi
di nuovo a casa (sempre che poi ci fosse stata davvero, una casa a cui
tornare).
E Kurenai, sorridendo, aveva
preso posto.
Seguiva un brusco blackout di un paio d'ore, che
poi svaniva nel sole che bruciava sul viso di Asuma: sigaretta tra i denti e mazzo di carte alla mano, le
sedeva di fronte (dov'erano gli altri?) con un ebbro ghigno di sfida
stampato sul volto.
"Ti leggo le carte, Emeraude?"
"Tu COSA?! Ehi, ma sei completamente sbronzo, non
stai dando il buon esempio adesso... Ma come cazzo mi hai chiamata?!"
"Emeraude a dire il vero era una zingara che
finì impiccata per stregoneria. Amò fino all'ultimo un uomo bellissimo, il
capitano delle guardie che la condusse al patibolo; e il vecchio gobbo dal
cuore d'oro che la idolatrava si gettò sul suo cadavere in una fossa comune di
Parigi e preferì morire lì..."
"...Ehi. Tu racconti strooonzate,
oh sì."
Il mondo di Kurenai girava. E anche il sorriso
di Asuma.
"E perchè sarebbero stronzate?"
"Donne così cretine non esistono."
"Non esistono donne che si innamorano?"
"L'amore... Dio, che nausea, non ti facevo così, così, così... Oh,
ma piantala di dire stronzate."
"Così come?"
"Così banale. Tu stai cercando di abbordarmi." Lo disse
proprio così, cantilenando una stramba melodia di sua invenzione, per poi
scoppiare in una fragorosa risata gorgogliante.
"Sei ubriaca."
"Oh sì. E pure tu, per questo stai cercando di
abbordarmi. Dammi qua, ti insegno io come si gioca
alle tre carte!"
"E se vinco?"
"Se vinci mi racconti un'altra storia."
"Non erano stronzate, le mie?"
"Lo erano così tanto che mi piacerebbe risentirle!" Kurenai rise forte un'altra volta, mentre le carte danzavano
colorate fra le sue dita.
"Allora diciamo che, se vinco, decido io."
"Oh oh oh! E decidi cosa,
Vecchia Scimmia?"
"Quello lo deciderò poi. Ora
giochiamo."
"Se perdi preparati a un giro per le strade del
villaggio con addosso le mutandine di Anko, urlando
che ce l'hai piccolo!"
Si conoscevano da anni.
Avevano visto le rispettive ferite suppuranti, i capelli sporchi, il viso
disfatto, i vestiti zuppi di pioggia, il corpo maleodorante per le malattie o
l'assenza di acqua; l'uno aveva conosciuto i momenti
più avvilenti dell'altra e viceversa, come spesso accade durante le missioni e
nei lunghi anni di apprendistato. Non c'era vergogna o imbarazzo che non avessero già sperimentato, compreso il rivolo di sangue che
una volta al mese macchiava l'uniforme di Kurenai o
la pelle verdastra di Asuma quando vomitava anche
l'anima.
Come poteva cominciare qualcosa fra due persone cui l'intimità era stata
svelata e preclusa già da molto tempo?
(Era semplicemente impossibile.)
Contro ogni aspettativa, fu Kurenai
a vincere.
Aveva gettato sul tavolo la combinazione vincente InoShikaCho
strillando di goia, giusto un
attimo prima di scaraventarsi nei bagni del ristorante dove, china sulla
tazza smaltata di un gabinetto, aveva svuotato lo stomaco di tutto il suo
contenuto. Il lato positivo era che, una volta
alleggeritasi di quella zavorra corrosiva, si sentiva molto meglio.
Una tazza di caffè amaro dopo, si era trovata a
barcollare fra le braccia di Asuma
lungo le strette stradine ritorte del villaggio addormentato, e le loro risate
ovattate si erano perse nella brezza azzurrina di quella placida nottata
primaverile.
Ancora piuttosto brilla, Kurenai
aveva armeggiato con la serratura arrugginita dell'appartamento, fra un
attacco e l'altro di risate convulse.
"Senti," si era voltata verso di lui con
occhi lucidi d'euforia, gli aveva intrecciato le dita dietro al collo, "Io
vorrei tanto che tu avessi vinto, sai com'è."
Asuma era rimasto in silenzio, poi era scoppiato a
ridere e la luna aveva brillato nel suo viso squadrato e in una risata bianca e
marrone. Kurenai allora lo aveva imitato gettando la
testa indietro, perdendosi nelle brume e nelle pagliuzze d'oro di quella notte
tiepida.
Tutto girava attorno a lei, la strada, il villaggio, le lampade ancora accese
che ronzavano, il cielo nero, la luna, la casa, un girotondo senza fine a cui
lei si abbandonava ridendo senza opporre resistenza.
Non era mica bello, Asuma.
Gli occhi opachi, gli zigomi marcati, le guance ispide, il
naso imponente, la pelle scura come vino e la fronte color cuoio incisa da
rughe profonde.
"Sembri un vecchietto. Un vecchietto ubriacone, sempre attaccato alla
sigaretta e alla bottiglia."
"E tu sembri una ninja in crisi di mezza età che
ha bevuto troppo. Siamo una bella coppia."
"Cos...? Ridillo!"
"Siamo una bella coppia. Perchè?"
"Siamo una bella coppia" lo schernì la donna scimmiottandolo,
"Tu racconti troppe stronzate."
"E tu invece parli un po' troppo, Kurenai."
Un bacio ebbro e ringhioso che sapeva di vino, di fumo ed
euforia, una porta che sbatteva e un coro di risate sguaiate: era così che era
cominciata.
*
Ino ha camminato a lungo.
Ha camminato fino a scordarsi del suo stesso nome, del sole che tramonta, del
bianco delle case che si fa sempre più indistinto. Ino scivola verso la notte
assieme al cielo, che con lei condivide senza rancore uno stupefacente color
azzurro mare.
Ino è molto stanca, ma non vuole fermarsi: ha perso il conto dei suoi passi, ha
perso il filo dei suoi pensieri, ha perso la direzione che per puro caso le sue
gambe hanno voluto imboccare.
Ino, semplicemente, ha perso.
Perfino Konoha, la sua Konoha,
le sembra estranea, irriconoscibile, come se non le appartenesse
più. Non è da lei sentirsi così sfiduciata, così abbattuta, così disorientata;
non è da lei sentirsi in bilico sull'orlo di un filo teso. Non è una funambola,
Ino, è un'attrice: è lei a catalizzare gli sguardi degli spettatori, è lei a
decidere ogni sua battuta, ogni suo gesto, è lei a
porsi prepotentemente nel cerchio abbagliante di un cono di luce.
Ma oggi Ino non si sente attrice, tutt'altro.
Si sente un burattino a cui una bambina dispettosa si diverte a tirare i fili,
si sente inutile, un poco fragile, sballottata qua e là senza alcuna
destinazione. Per questo ha deciso di scegliere una strada, una strada qualunque, e camminare finchè
le gambe non avessero deciso di fermarsi.
Camminare, camminare sempre dritto, ignorando i saluti di amici
e conoscenti, non vedendo neppure il tramonto che avanza a grandi passi sul
villaggio, non sentendo i morsi della fame o gli assalti del sonno. Ino cammina
coi larghi occhi di mare spalancati, perfetti e immoti
come la superficie dei laghi e quasi altrettanto azzurri. Ha dimenticato di
mettere le solite righe nere di kajal sopra e sotto
la palpebra, i tocchi di colore per evidenziare la carnagione luminosa, il
mascara per arrotondare le ciglia a mezzaluna e quel leggero tratto di matita
per affusolare le sopracciglia bionde: ha dimenticato tutte queste cose, che un
altro giorno giudicherebbe di vitale importanza, ma
non le interessa affatto, per lei non hanno alcun significato.
Conosce un solo modo per soffrire, Ino, ed è quello che saltuariamente la
colpisce e la costringe a camminare fino allo sfinimento, ad allontanarsi dagli
occhi altrui.
Non voleva vedere la commiserazione sul viso di Choji,
o la rabbia su quello di Sakura, o la rassegnazione
sulla fronte di suo padre. E Shikamaru,
beh, Ino voleva vedere lui più e meno di tutti gli altri.
Voleva e non voleva vedere Shikamaru,
Ino.
Ma bastava cercarlo con lo sguardo e l'ovvia risposta
che si presentava era una sola: non è qui.
E questo la faceva soffrire. E
quando il dolore diventava insopportabile, allora Ino camminava, come stava
facendo adesso.
Ino cammina e legge in ogni volto le stesse parole lievi come fumo, le stesse parole illusorie e gonfie d'amarezza, le stesse
parole che odia: non è qui, Ino.
Se ci pensa, le sfugge controvoglia un brutto sorriso pieno di
illusioni, perchè Ino non può davvero fare a meno di sorridere e
inchinarsi all'ironia della sorte.
Accorgersi di volere qualcosa.
Solo quando ormai è impossibile averlo.
C'è qualcosa di più divertente?!
Ino, in tutta sincerità, era certa di no. Ogni cosa,
giorno per giorno, non faceva altro che dimostrarglielo.
Posa gli occhi chiari sul muro bianco, quasi indistinto, che una volta era stato la parete di un salotto. Le finestre inondano la
casa disabitata di una colata di luce infuocata che le ferisce gli occhi, ma Ino non si protegge e a poco a poco si abitua alla
sciabola dorata che le balena ridente sulle ciglia.
Prende un pennarello, che non ricordava di avere con sé nella borsa, e in
perfetto silenzio traccia enormi lettere nere sulla parete intonsa.
Una frase che riempie tutto lo spazio vuoto, riempie
persino lei stessa, una frase che si gonfia e spicca il volo per esplodere sul
muro bianco: l'unico modo che conosce per liberarsi.
Guarda ciò che ha scritto in silenzio, lo legge più e più volte, ancora e
ancora, mentre il sole cala di fronte a lei in uno scoppio che insanguina il
cielo -Ino neppure ci fa caso.
I suoi occhi sono lì, fissi alla grande parete.
Adesso respira, Ino: il silenzio non potrà più schiacciarla, finalmente l'ha
detto. Ora può tirare un sospiro di sollievo.
Per una manciata di istanti, uno spazio di tempo
talmente effimero da venire presto dimenticato, Ino può sentirsi in pace.
Sulla parete, di fronte a lei, campeggia una frase scritta un po' storta, dai
caratteri nervosi e arzigogolati di chi voleva liberarsi di un peso, scrivendo.
Oh, come si sente bene Ino, adesso.
Libera, leggera, fatua. Vuota.
Forse è per questo che, senza accorgersene, Ino sta
piangendo.
Niente a che vedere col circo,
nè acrobata nè mangiatore
di fuoco,
piuttosto un santo a piedi nudi,
quando vedi che non si taglia, già lo sai.
Era successo ancora. E ancora. E ancora.
Fino ad assumere l'inquietante forma della routine.
L'odore penetrante di tabacco, i vestiti dimenticati, qualche libro, un
pacchetto di sigarette: Kurenai aveva cominciato a
trovare normali tutte queste cose, anzi, la loro assenza le donava un'inspiegabile senso di perdita. Quegli oggetti erano
tranquillizzanti, quasi consolatori.
(Dov'era Asuma,
quella, sì, quella era casa).
Gli altri Jonin li prendevano apertamente in giro, li
chiamavano fidanzatini, li sommergevano d'un'ironia bonaria
che non toccava nessuno dei due. Che tra di loro non
ne parlavano mai, un po' imbarazzati, intimiditi, confusi, incapaci di
affrontare un discorso del genere.
I ninja nascevano presto, ammazzavano presto,
morivano presto: l'amore non era contemplato, non aveva posto nelle loro vite. Quindi loro non sapevano come fare, preferivano affidarsi al
silenzio degli oggetti: era molto più rassicurante e non costringeva ad esporsi
-avevano paura, loro, di esporsi in campo aperto, significava sconfitta sicura.
Ma Kurenai, portando al naso
il pacchetto quasi vuoto di sigarette, sorrideva appena, gli occhi socchiusi.
Poi era arrivata la missione. Una missione banale che avrebbe
potuto svolgere anche da sola, ma per precauzione
Ecco, mentre scendevano lungo i cunicoli di roccia verso le carceri del
villaggio, un silenzio nervoso scoppiettava intorno a loro, un silenzio ricco
di tensione e agitazione, come se entrambi dessero
all'altro la colpa di vedersi in un ambito che annullava il loro legame-senza-nome, qualunque esso fosse.
Le torce facevano bruciare come lava lo sguardo
incendiario di Kurenai; gli occhi di Asuma, invece, erano foschi e ciechi come il fondo di una
caverna.
Erano diventati due predatori che si scrutavano guardinghi, restii a darsi le
spalle: sentivano di detestarsi, quasi di odiarsi. Ciascuno udiva riecheggiare,
nel silenzio compatto delle viscere della terra, il crepitio elettrico della
collera ingiustificata dell'altro.
Varcarono la soglia delle celle, sotto lo sgocciolio pietoso delle torce, e
l'aria satura di sangue li colpì con la violenza di un pugno.
Ma il pugno vero non tardò ad arrivare, questa volta duro
di carne, nervi e muscoli tesi.
Finirono a terra sotto la grandine dei colpi, storditi, stupiti di sentire sul
corpo le strette e i calci di un branco di sciacalli travestiti da uomini.
Una rivolta nelle prigioni di Konoha! E cosa c'entravano loro due? E
dov'era finito tutto l'astio che si erano gridati addosso scendendo nei meadri della terra?
L'aria era rovente, la pelle di Kurenai bruciava; ed
era quella fame cieca di violenza e libertà divampata all'improvviso che li
stritolava in un mare di fiamme gonfie di collera.
Asuma. Kurenai.
Si erano dimenticati di ogni cosa, salvo il nome
dell'altro.
E, risvegliandosi nel limbo fresco e asettico
dell'ospedale, il nome dell'altro era tutto ciò che Kurenai
era stata capace di pensare.
L'altro. Asuma.
L'altro che giaceva lì, sdraiato nel letto di fianco al suo,
il pallore disegnato su quella pelle di carbone (così familiare), gli
occhi di vetro sporco che non guardavano nulla e neppure l'ombra di una risata
sulla fronte. Inspiegabilmente Kurenai sentì
la gola arsa come quando aveva sete, solo che appena aprì la bocca le venne da
piangere. Per la missione fallita, ovvio, mica per altro, e
per il taglio sulla fronte che le faceva dannatamente male.
"Abbiamo fatto fiasco, Miss New Age" commentò distratto Asuma,
senza la perenne e familiare sigaretta fra le labbra.
"Oh," Kurenai si
morse le labbra, "Non siamo fatti per stare insieme" sputò gonfia di
rancore.
A quella constatazione seguì un lungo silenzio pensoso, che rievocò la loro ostilità mentre s'inoltravano verso le carceri. Lo
stillicidio delle gocce d'anestetico lungo i tubicini di vetro collegati ai
loro corpi fu l'unico rumore per molto, moltissimo tempo: un rumore
monotono, maniacale, che le dava sui nervi.
Kurenai desiderò spaccare qualcosa, un vaso, una
mattonella, un vetro, insomma qualcosa. Tempestare di pugni un muro, sfondare
una porta a spallate, spezzarsi le dita stritolando i sassi, purchè qualcosa soffrisse
come lei in quel momento -tutta colpa del male alla testa, ovvio.
"Miss New Age, mettiamo le cose in chiaro"
tossicchiò infine Asuma, col tono misurato e calmo di
chi risolve un'enigma:"Io
non ti dirò mai che mi sono innamorato di te. Quindi vedi di abituartici, ecco."
Lo sentì poi borbottare qualcosa sulle sue sigarette misteriosamente sparite
dal comodino.
"Non si può fumare in ospedale, Mr.Nicotine Packets."
"Al diavolo l'ospedale e le infermiere" si sporse dal letto e alzò la
voce rauca, spazzando via il silenzio della corsia vuota:"Chi
è il bastardo che ha tolto di mezzo le mie sigarette??!" gridò.
Kurenai non sapeva bene se ridere oppure piangere,
dunque decise per la prima opzione: rise, e le lacrime
le cadevano sulle gote confondendosi con la sua risata.
"Ti sta colando via tutto il trucco, Miss New Age."
"Non vedi che sto ridendo, stupido?!?"
"Raccontala a qualcun'altro" poi si volse verso il corridoio, dove la
sua voce rimbombò grave e profonda:"Allora!!! Ma si può sapere chi ha
preso le mie sigarette??!"
Kurenai continuò a ridere finchè
il gusto salato delle lacrime non le sfiorò le labbra, e le parve strano che le
sue risate suonassero come singhiozzi.
Rispose:"Invece io non ti dirò mai che ti
detesto. E che è tutta colpa tua se la missione è
fallita e siamo inchiodati qui."
Resosi conto che i suoi richiami venivano ignorati, Asuma
si lasciò cadere a braccia incrociate sul cuscino, esalando un respiro profondo
e rassegnato. La mancanza di nicotina lo esasperava.
Con calma si grattò il capo, roteò gli occhi e li fissò sul soffitto innaturalmente
bianco, poi sospirò con un'eco d'ironia nella voce:"Vorrà
dire che la prenderò con filosofia, Miss New Age."
*
Yamanaka Ino
aveva conosciuto Nara Shikamaru il primo giorno
d'Accademia.
Aveva già sentito parlare di lui dal padre, dato che le loro famiglie si
conoscevano da molto tempo, ma non le era mai capitato di incontrarlo: a ogni occasione lui si negava sempre, preferiva starsene
per conto suo. Ino aveva i suoi amichetti, i suoi
fiori, i suoi sogni, così non s'era preoccupata troppo di conoscere un bambino
che passava tutto il giorno in panciolle a guardare le nuvole.
Il primo giorno d'Accademia quindi l'aveva squadrato dall'alto in basso, aveva
arricciato il nasino e aveva sentenziato trionfante che era molto più brutto di
Sasuke-kun. Shikamaru le
aveva mostrato la lingua, offeso, e aveva replicato dicendole
che invece, riguardo alla stupidità, lei non aveva rivali. Gli altri bambini
avevano riso a crepapelle e Ino s'era sentita in fiamme per la rabbia e la
vergogna, perciò aveva battuto in ritirata verso le aiuole dove giocavano le
altre bambine, meditando propositi di vendetta.
Qualche anno dopo, una volta diplomati Genin, Yamanaka Ino, Nara Shikamaru e Akimichi Choji erano stati scelti
per formare
Il loro sensei Asuma Sarutobi, al primo incontro, li aveva
mandati a casa dopo neanche un quarto d'ora.
"Svogliato."
"Ingordo."
"Chiacchierona."
Questa era stata la sua sentenza, pronunciata con noncuranza puntando un dito
al petto di ogni ragazzino.
Al secondo allenamento, quando Ino per la rabbia aveva scagliato uno shuriken contro un apatico Shikamaru,
rischiando di ferirlo, Asuma-sensei l'aveva costretta
a cinque riprese di flessioni sotto il sole cocente
delle due del pomeriggio. Ino, il sudore che le scorreva a
fiotti ai lati del viso, il mascara che le impiastricciava le guance e le mani
insudiciate di fango, aveva giurato di rendere la vita impossibile a Nara Shikamaru. E, per i mesi a
venire, c'era riuscita: le litigate furibonde tra i due si susseguivano una
dopo l'altra.
"TU non mi piaci e IO non ti piaccio!!!"
sbraitava Ino, gli occhi fiammeggianti:"Quindi NON POSSIAMO stare
insieme!"
Fu l'unica volta in cui Shikamaru, guardandola di
sbieco, si trovò d'accordo con lei:"Hai perfettamente ragione", le
disse.
Stranamente Ino rimase spiazzata, senza fiato. Boccheggiò e deglutì, poi
riprese colore e, sacramentando a denti stretti contro l'idiozia degli uomini,
se ne tornò verso casa senza più degnare d'uno sguardo
il compagno di squadra.
Ci vollero mesi perchè imparasse a parlare con Shikamaru senza urlare dopo mezzo minuto.
Ci vollero mesi perchè si accorgesse lentamente delle
qualità dei suoi compagni e smettesse di paragonarli a Sasuke-kun.
Ci vollero mesi, i capelli tagliati di Sakura, la
fuga di Sasuke e l'Esame di Selezione dei Chuunin perchè Ino capisse che Shikamaru aveva avuto sempre ragione, fin dall'inizio. E che l'unica ad essere mortalmente, incredibilmente e ciecamente
stupida era una sola persona, lei.
Però, una volta ammesso con riluttanza il suo errore,
Ino Yamanaka non era il tipo da negarlo: errare humanum est, perseverare autem diabolicum.
Shikamaru, presagendo l'ennesima litigata isterica
per una sciocchezza, aveva alzato gli occhi al cielo quando
aveva visto la piccola figura bionda affrontare impettita la collina e aveva
considerato rapidamente l'ipotesi di una fuga. Scartata poi a
priori, dato che era convinto che Ino fosse lì col preciso proposito di
infastidirlo: pensare di sfuggirle era mera utopia.
Aveva strizzato le palpebre e inscenato un respiro profondo da addormentato in
fase REM, ma la ragazzina non s'era scomposta e s'era seduta accanto a lui.
"Sei sveglio" aveva puntualizzato
categoricamente Ino, dopo qualche istante di silenzio. Shikamaru
aveva grugnito un monosillabo sconosciuto e subito si era turato le orecchie in
vista della sfuriata imminente.
La cosa che lo stupì terribilmente, quasi paragonabile al crollo di una
montagna, fu che Ino cominciò a parlare. Pacata, la
voce melodiosa, cauta quando approdava nelle zone d'ombra della riflessione, il
tono appena vivace di chi chiacchiera con un amico, Ino parlava. Gli occhi che
si specchiavano nel cielo azzurro, Ino parlava con lui.
E, cosa ancora più sconvolgente, Shikamaru
volle risponderle.
Intimamente si corresse: il crollo di una montagna era
una bazzeccola al confronto.
Ma il suo stupore raggiunse vette inesplorate quando
Ino -sì, la stupida boriosa e superficiale Ino Yamanaka-
si scusò con lui. Per tutte le liti puerili, per non aver mai
creduto in lui e Choji, per non esserci mai stata sul
serio. Per non aver mai capito niente, soprattutto.
Gli sembrò anche di udire un singhiozzo camuffato da risatina nervosa mentre
Poi all'improvviso (ma era Shikamaru ad aver perso la
cognizione del tempo) Ino si alzò in piedi, lo salutò cortese e tornò verso il
villaggio.
Shikamaru contemplò pensoso il moto della coda bionda
che ondeggiando scandiva i secondi sulla schiena di Ino.
Gli venne in mente una sola parola: enigma.
E non si poteva dire che Shikamaru
Nara non amasse le sfide.
Ti potresti innamorare di
lui,
forse sei già innamorata di lui,
cosa importa se ha vent'anni
e nelle pieghe della mano,
una linea che gira e lui risponde serio
"è mia": sottindente la vita.
Kurenai aveva gli occhi spalancati e
il viso stupito di chi non crede a quel che vede. Le
labbra schiuse in un'infantile "o" di
meraviglia, aveva fissato il palmo della mano di Asuma
senza parlare, poi delicatamente con le dita aveva esplorato le linee curve
scavate nella pelle scura.
Una spirale.
"Hai... tu hai..."
"Lo so," Asuma
sorrise appena e nascose la mano, quasi fosse imbarazzato:"La mia linea
della vita è un po' particolare, Miss New Age."
Distesi nel letto sfatto dell'appartamento di Kurenai
in una mattina di sole domenicale, loro due giocavano ad essere normali, e quel
gioco ormai aveva finito per diventare la loro vita.
(Quella, quella era casa, quella era vita).
Kurenai gli prese l'altra
mano e, ignorandolo, la lisciò col taglio della sua. Seguì con la punta delle
dita il contorno di quei solchi concentrici duri e callosi, bruciati dal sole e
dai tanti sforzi, e sui polpastrelli le rimase la sensazione dell'infinito
intrappolato in quella mano. La mano di Asuma.
Spirale significava senza fine.
"Hai un cerchio nel palmo."
L'uomo si grattò meditabondo il mento con l'altra mano:"Sì,
beh... ci sono nato. Che vuoi che sia, c'è chi ha un neo a forma di stella o un
dito più corto dell'altro, io ho questa."
Kurenai rigirò la mano di Asuma fra le proprie, come se la stesse studiando con
meticolosità, poi alzò il capo e fissò il compagno dritto negli occhi:"E'
bellissima."
Asuma piegò il volto in un sorriso di terra bruciata
e foglie secche, tanto lo sbalordì l'espressione seria della donna:"Tu
trovi? Anche il Terzo l'aveva così, sai."
Qualcosa nel viso di Kurenai s'incrinò appena,
impercettibilmente, e lei strinse più forte la mano di Asuma tra le proprie. Un presentimento, una scintilla che
le passò attraverso il viso, un guizzo maligno del sangue di chi ha
dimestichezza con le Illusioni, un richiamo inascoltato dell'istinto di autoconservazione: qualunque
cosa fosse, nessuno dei due la riconobbe.
Non c'era tempo per pensare: l'appartamento di Kurenai era ingombro di scatoloni mezzi pieni; i
soprammobili, le stoviglie e i vestiti erano già stati portati altrove;
restavano le lenzuola, i libri, le armi ninja e
qualche mobile che non sapevano proprio dove mettere. Il frigorifero
vegetava ancora in cucina col suo monotono ronzio elettrico: quella mattina
avrebbero dovuto farsi forza e prepararsi ad imballare anche quello.
Canticchiarono una buffa canzone francese sbocconcellando una colazione
comprata al volo, accerchiati dalla confusione di scatole e nastro adesivo.
Kurenai non udì le voci di memorie passate passando
accanto alle pareti spoglie e ai cassetti vuoti: i ricordi dei sedici anni che
aveva trascorso in quella casa non vennero a tirarla per la giacca. La luce
color latte che inondava le finestre scivolava via in una sola direzione,
quella che lei intendeva seguire.
C'era tutta una vita davanti: una vita che profumava delle sigarette di Asuma, che aveva i colori delle
sue storie strampalate, che suonava allegra come le sue risate.
La chiave del nuovo appartamento penzolava appesa sopra la
porta e i raggi di sole giocavano maliziosi con la piccola piastra
metallica. Gli occhi di Kurenai e Asuma,
attirati da quello scintillio, correvano costantemente lì, come quelli
dell'avaro che vigila sul suo unico tesoro.
Non poteva essere altrimenti.
Quella sera Kurenai preparò la cena in una casa
sconosciuta, una casa piena di libri, una casa con una
regale scacchiera da Shogi che troneggiava in
soggiorno, una casa che odorava di fumo, con le finestre che si affacciavano
sull'alba liquida che calava sulle colline e su un piccolo giardino pronto per
i suoi fiori.
I suoi occhi incontrarono il viso di Asuma e pensò che quella, sì, quella era casa.
*
Guardavano una pietra su cui erano incisi un'infinità
di nomi, ma uno soltanto per loro aveva significato.
"Ha un senso che sia morto, Shika?"
"Ha un senso che voi siate stati lì e io, io non ero con voi?"
"Ha un senso raccontarci tutte quelle favole piene di speranza
quando siamo bambini, anche se poi non si avverano mai?"
Non l'aveva, no.
Gli occhi di Shikamaru erano aridi come la sua voce, erano una terra di nessuno. Ino smise di parlare e rilesse
il nome scritto sulla lapide per la centesima volta, come per stamparsi nella mente tutte le scanalature che rigavano la pietra
color ossidiana.
Il sole e il cielo turchino, quel giorno, si stavano facendo beffe di loro.
"Ha un senso, Shika, che Sasuke-kun abbia tradito il
villaggio, che una banda di criminali voglia Naruto
per non si sa quali scopi, che Asuma-sensei sia
morto? Ha un senso?"
Shikamaru chiuse gli occhi.
"No, non ce l'ha."
E se Ino si fosse soffermata a riflettere ancora un poco avrebbe trovato altre
cose prive di un senso, e ancora e ancora si sarebbe rifiutata di accettarlo.
In un istante Shikamaru sentì i capelli
biondi di Ino palpitargli sotto le narici, il suo viso
nascosto nel petto e le sue braccia che lo stringevano alla vita.
"Io non c'ero" Ino digrignava i denti,
furiosa, "Capisci? Tu eri lì e io non c'ero, Shikamaru. Non c'ero. Non ci sono mai stata."
La ragazza serrò le palpebre, anch'esse secche, come se questo bastasse per
annullarsi e svanire dal mondo.
Shikamaru, inerte, cercava le parole giuste e per la
prima volta nella sua vita non riusciva a trovarle.
"Non lo so" mormorò con voce strozzata, poco più di un sussurro,
"E' così importante?" Con un sorriso fioco tentò di minimizzare.
"SI', dannazione, sì sì sì!" Ino lo strinse ancora
di più e parve volersi seppellire per sempre in lui, "Sì."
"Era importante, sì. Per me era importante, maledizione, lo era
sul serio, e l'ho capito solo quand'era troppo tardi, io...
...Quello che volevo non è mai stato ciò di cui avevo realmente bisogno, mai, e
anche questo non ha... non ha senso!"
Shikamaru si accorse del suo
pianto perchè qualcosa all'altezza del collo gli bagnava l'uniforme e perchè le
spalle di Ino sembravano scosse da un perpetuo brivido
di freddo. Non emetteva alcun suono e, qualunque fosse l'espressione del suo
viso, la teneva ben nascosta nell'incavo della spalla di Shikamaru.
Sentiva la scia liquida del pianto lungo la linea della gota di
Ino aderire al tessuto ruvido della giubba da Chuunin.
E il fatto che non riuscisse a scostarla ma che, anzi,
desiderasse quelle parole sconnesse e il loro significato tutto per sé gli
sembrava, se possibile, la cosa che aveva meno senso di tutte.
"...La felicità è una cosa tanto fragile, non è
così, Shika? Un giorno l'abbiamo, il giorno dopo se
n'è andata e non si capisce neppure come..."
Shikamaru attese in silenzio che
la tempesta lasciasse il corpo della compagna di squadra. L'inverno
prima o dopo avrebbe abbandonato gli occhi di Ino, lo sapeva, e sarebbe
tornata l'estate amara dei suoi capelli biondi e delle sue risate vivaci di
cieli azzurri. Da piccolo gli avevano raccontato che nasceva una fata ogni
volta che un bambino rideva, ma lui era convito che le fate nascessero
solo dalle risate di Ino, così limpide, argentine, che cancellavano i cattivi
pensieri.
Quando il suo respiro tornò ad essere regolare e le sue spalle smisero di
tremare, Shikamaru prese fiato e parlò, il tono
sommesso:"Ino, andiamo a casa?"
La ragazza parve rifletterci un poco, il capo inclinato e gli occhi immobili che
si rifiutavano di staccarsi dal paesaggio pieno di sole.
Annuì, sovrapensiero.
"Sì," gli rispose.
Non conosce paura l'uomo che
salta
e vince sui vetri e spezza bottiglie e ride e sorride,
perchè ferirsi non è impossibile,
morire meno che mai e poi mai.
"Miss New Age, per caso hai visto il
disinfettante e il narcotico?"
Kurenai alzò i grandi occhi color sangue dalle pagine
di un libro e li fissò perplessa sull'andirivieni di Asuma, che vagava impaziente di stanza in stanza masticando
improperi tra i denti:"Il disinfettante o il narcotico?"
"Il disinfettante e il narcotico."
"Saranno nel posto in cui li hai lasciati" Kurenai
sollevò le sopracciglia e riprese la lettura con un lieve sospiro.
Asuma, l'immancabile sigaretta in bocca, svuotò un cassetto prima di lanciarle un'occhiata
indispettita:"Kurenai, se fossero stati dove li
avevo lasciati, non te l'avrei chiesto."
(Nome proprio: primo segno di nervosismo).
La donna sbattè le palpebre, un principio
d'irritazione a incresparle la fronte in una tela di piccole rughe:"Non
hai preparato l'equipaggiamento ieri sera?"
(Insinuazione: secondo segno di nervosismo).
"Sì," gridava la voce di Asuma dal
ripostiglio, "Ma ho dimenticato il cazzo di disinfet-"
Una roboante sinfonia di soprammobili che cadevano coprì l'ultima parte della
sua frase.
"Questo perchè sei stato sveglio fino a tardi per rintontirti a forza di
sigarette e partite di Shogi col tuo allievo,"
lo rimbeccò di rimando Kurenai, mentre per la decima
volta si trovò a rileggere la stessa frase sulla pagina e il suo occhio si
impigliava nei caratteri neri e minuti delle lettere.
(Recriminazione: terzo segno di nervosismo).
Seguì un intervallo piuttosto lungo di silenzio, rotto poi da una bestemmia
sputata in tono aspro e da una successiva cacofonia di tonfi -le lenzuola
invernali, riconobbe Kurenai- e da un boato più
forte, che doveva essere decisamente la panca per
addominali regalata loro da Gai quando si erano trasferiti nella nuova casa.
(Silenzio: apoteosi).
Udì infine i passi strascicati di Asuma
lungo il corridoio e sentì sulla fronte la potenza incandescente dei suoi occhi
neri:"...Se tu alzassi il culo da quella dannata
sedia e magari venissi a darmi una mano, dato che sono già in ritardo e dovrò
accompagnare due Jonin balordi e un Chuunin di quindici anni a spaccarsi le chiappe contro
quella merda dell'Akatsuki?!?"
Kurenai alzò il capo, fiera.
Non era il tono né la volgarità gratuita a
infastidirla, era la parola sbagliata al momento sbagliato, quando
semplicemente era terrorizzata.
Ogni sforzo del suo corpo era teso a controllare e disciplinare il respiro
impazzito, il sangue che batteva furioso nelle vene e l'incapacità dei pensieri
di seguire un filo logico, ogni cosa in lei premeva per sovrastarla e
annientarla. Si sentiva soffocare, Kurenai, soffocare.
"Non sono la tua balia, Asuma" gli rispose,
con più acredine di quanto desiderasse.
Asuma le regalò un'occhiata sarcastica
mentre si accendeva una nuova sigaretta:"Hai ragione, quello è il
mio ruolo quando devo ripescarti nel fiume dopo che l'Uchiha
ti ha mandato a dormire coi pesci."
Gli angoli della bocca di Kurenai si strinsero; la
donna serrò le dita attorno al ripiano del tavolo finchè
le nocche non le sbiancarono:"Non ho mai chiesto il tuo aiuto, mi
pare."
"Appunto, per una volta te l'ho chiesto io e questa è stata la tua
risposta" ribattè l'uomo, prima di voltarle le
spalle e proseguire la sua ricerca verso la camera da letto.
Cazzo, fu l'unica cosa che Kurenai
riuscì a pensare sul momento.
(Assenza di pensieri coerenti: fine).
Si sentiva come congelata, le sembrava di vivere la scena con un paio d'occhi,
mani e un viso che non erano i suoi. La sua mente, la sua concentrazione e il suo interesse erano altrove, si dibattevano in un mare
vischioso di contraddizioni.
Si alzò in piedi e camminando con passo meccanico spalancò l'anta del
frigorifero.
Prese il flacone di disinfettante, adagiato con noncuranza di fianco a un barattolo di salsa wasabi, e
la boccetta di narcotico, che Asuma la notte
precedente doveva aver scambiato per una delle birre che si era scolato con Shikamaru -e infatti il narcotico si trovava proprio lì, in
mezzo alle lattine variopinte.
Con molta più veemenza di quanto avesse voluto, poggiò
le due bottigliette sul ripiano del basso mobile dell'ingresso e in un sibilo
ringhioso rese noto al frastuono che proveniva dalla camera da letto che la
ricerca era conclusa. E che sbronzarsi il giorno prima
della partenza era da pazzi incoscienti.
Kurenai, fredda come una pietra, vedeva rosso, una
gigantesca colata di rosso che traboccava dalle pareti -i suoi incubi
peggiori.
Ritornò al suo libro con lo stesso passo gelido da automa,
priva del calore e dell'irruenza focosa che spesso trapelava da quei
suoi occhi in cui esplodevano piccoli obici di porpora.
Udì lo sbattere eloquente della porta d'entrata e le parve che la
terra si spaccasse in due.
Non leggeva più, Kurenai. Le righe le
scorrevano addosso come rivoli d'acqua, inconsistenti.
Chiuse il libro.
Pensò al viso allegro di Shizune mentre le comunicava il risultato delle sue analisi, a
tutte le sciocche fantasie che aveva immaginato tornando a casa, alla mano
gelida della paura che le stringeva la gola, all'eterno dilemma che
qualcun'altro aveva risolto per lei.
Lo dico o non lo dico. Lo dico o non lo dico. Lo dico o non lo dico.
E Asuma se n'era andato, così da
toglierle ogni dubbio.
Era così semplice adesso darsi della stupida idiota egoista, così elementare,
veniva naturale piantarsi le unghie nel palmo e dirsi
che erano stati due grossi bestioni testardi per litigare per una stronzata del genere, incapaci di capirsi, incapaci di
andare oltre al fottuto orgoglio, tutti e due fermi
sulle rispettive ridicole posizioni, tutti e due avvelenati dal nervosismo e
dal rancore che avevano scaricato sull'altro senza nessuna ragione apparente.
Stupidi. Idioti. Deficienti. Teste di cazzo. Tutti e due, loro.
Kurenai lesse e rilesse il patetico titolo del libro,
"Sarò madre", finchè non riuscì più a
distinguerne le lettere per colpa del velo di neve che le era calato sugli
occhi.
Si accorse delle lacrime solo molto tempo dopo, quando di sfuggita passò
accanto allo specchio e vide la sua immagine riflessa, prima di uscire in
giardino e prendersi cura dei suoi fiori.
Kurenai non
sapeva che quella sarebbe stata l'ultima volta che avrebbe visto Asuma da vivo.
Una settimana dopo Shikamaru Nara sarebbe venuto a
chiederle perdono per la morte di Asuma
Sarutobi, caduto in missione contro un criminale
dell'Akatsuki.
(E il mondo di Kurenai avrebbe semplicemente
collassato, sarebbe imploso come tutto ciò che lei e Asuma
erano stati).
Soprattutto Kurenai non sapeva che quelle sarebbero
state le ultime parole che gli avrebbe detto, parole rancorose,
colleriche, parole di chi si aspetta una seconda occasione per rimediare. Parole sbagliate, insomma, che si sarebbe rimproverata per il resto
della sua vita.
Non sapeva che non gli avrebbe mai, ma proprio mai
detto che era rimasta incinta di suo figlio.
E non sapeva che, ovunque fosse, Asuma
le avrebbe sorriso e si sarebbe scusato per essersene andato via senza
salutare.
*
Ino è tornata nella casa disabitata un pomeriggio della settimana seguente,
quando la consueta morsa allo stomaco l'ha di nuovo costretta
a camminare fino ai confini del villaggio.
E' rimasta per qualche minuto a dondolarsi indecisa assieme ai cardini
arrugginiti della porta, la cui serratura è stata asportata via chissà quanto
tempo fa, ma poi ha mosso le gambe ed è entrata.
Un passo dopo l'altro, ha cercato la solitudine di un guscio vuoto, un posto
tranquillo in cui rifugiarsi e attendere il passaggio del temporale, un
asettico non-luogo privo di odori e colori come le
stanze d'albergo, il grembo materno o come probabilmente doveva essere il
limbo.
Si è seduta sul pavimento, Ino, ha poggiato il mento sulle mani e si è lasciata
scivolare nel biancore distante delle pareti che si chiudono sopra di lei come
un oceano di neve. Il bianco la rassicura, la conforta, la abbraccia, quando
non desidera nessun essere umano che lo faccia (o forse no?).
Il bianco rompe con discrezione la sua solitudine, il che è più di quanto ogni
altro individuo riesca a fare.
E' un bianco pulito, avvolgente, senza odore né scalfitture, un bianco uniforme
e rassicurante come la volta sempre uguale del cielo. Un
bianco di nuvole che scorrono lontane e indifferenti, eteree nel loro candore
di spuma.
Un bianco così non può che entrare silenziosamente in lei, calmarla e curare la
sua gigantesca ferita.
Respira piano, Ino. Non sente dolore adesso.
Ma quando è entrata nella grande stanza che una volta
doveva essere il salotto è rimasta interdetta, come chi ha appena ricevuto uno
schiaffo in pieno viso.
C'è un'altra scritta, sempre in inchiostro nero, appena sotto quella che lei aveva vergato giorni prima:
IL DOLORE
NON E'
DI CHI RESTA, MA DI CHI
PARTE.
Una calligrafia quasi incomprensibile, le sillabe come cera nera accatastate una sull'altra e il tratto pigro di chi fatica
anche a tenere in mano la penna.
Adesso non pensa affatto, Ino.
Scrive.
DI SICURO NON E'
DI CHI HA GIA' DIMENTICATO
Ed è come gridare correre o
gettarsi nel vuoto, liberarsi del fardello del corpo e sentire sulla pelle il
respiro ridente della libertà.
E' come sentirsi bene, non è vero, Ino?
E all'improvviso l'aria, le
pareti, la pelle, ogni cosa si era riempita dell'odore di fumo.
Ino già lo sapeva, prima ancora di voltarsi verso la porta, prima ancora di
vederlo stagliarsi in piedi contro le ombre che serpeggiavano nel corridoio
vuoto, prima ancora di capire: Shikamaru.
(Lui la vide lì, accanto al muro, col
pennarello ancora in mano e gli occhi come cristallo, e gli parve più bella che
mai, più bella dei sogni e dei suoi stessi ricordi).
Ino impiega giusto quei due secondi per elaborare una reazione che possa definirsi intelligibile. Quei due secondi in cui può permettersi di pensare di tutto, abbassare il penarello, riporlo con calma nella borsa che porta al
fianco e sbattere lentamente le palpebre.
Quando ha elaborato una frase coerente, si accorge del
movimento delle labbra di Shikamaru, che deve averla
preceduta.
"...Eh?" Domanda inebetita, senza aver sentito una sola parola di ciò
che ha detto.
"Dicevo che allora eri tu" ripete paziente
lui.
"Io cosa?"
"Giravano voci su strani rumori e presenze avvistate in questa casa. Kurenai-san mi ha chiesto di controllare."
Dalla gola di Ino sfugge un buffo suono
derisorio:"Certo, come no."
Shikamaru le mostra un cipiglio seccato:"Cos'è,
non mi credi?"
"Non ho mai detto questo" ribatte lei, osservando come incuriosita la
parete.
"L'hai pensato."
"Vuoi farmi credere di essere nella mia testa, Nara? Ma che colossale stronzata!" sbotta sarcastica Ino,
un ghigno asimmetrico disegnato sul viso.
Shikamaru adesso tace. Le risa sguaiate di Ino mandano in frantumi l'atmosfera bianca della
casa disabitata; stranamente sembrano stonare con quell'ambiente
e quella situazione. In effetti sembra che ogni cosa
stoni fra loro due, che ogni cosa occupi puntualmente il posto sbagliato.
Ino si accorge troppo tardi che gli occhi scuri di Shikamaru
guardano dietro di lei, verso la grande parete
straziata di lettere nere.
Lo sguardo che le rivolge infine è più eloquente di
qualsiasi parola.
"Chissà chi è lo stupido che ha scritto queste cose" dice poi.
Ino lo corregge, puntigliosa:"Ma non vedi che ci
sono due tipi di calligrafie?! Gli stupidi sono due."
"Un po' come noi."
"Un po' come noi."
Altro sguardo che, come l'orizzonte, comprende tutto. La
fine, l'inizio, anche le cose che non esistono.
Ino sente la lingua incollarsi al palato, le labbra farsi secche e i denti che
involontariamente affondano nell'interno morbido della gota. Quasi nello stesso
istante stringe i pugni e tende i muscoli delle braccia, pronta a un impeto di rabbia capace di devastarla con la violenza
di un terremoto.
Scatta in piedi, il capo affondato nel petto e la voce piena di veleno.
"...Me ne vado. Ci vediamo."
"Non andare via."
"...Eh?"
"Hai capito benissimo. E non lo ripeterò un'altra volta."
Non si sposta di un centimetro, Shikamaru. Sempre
sulla soglia, non fa un passo in avanti né uno indietro, è perfettamente a metà
di qualunque decisione.
Ino si risiede, questa volta volge il viso verso di lui e dà le spalle alla
parete e alle finestre, così non può vedere le colline inebriate del rosso
arancio del tramonto. Può vedere solo Shikamaru, a quanto pare è l'unica cosa in quella stanza che veramente
le interessi.
Ino guarda quegli occhi di fumo e ancora una volta la rabbia l'invade. Non
riesce a trovare una spiegazione, un appiglio, qualcosa che le dia abbastanza forza da lasciare quella casa e non tornarci
mai più. Qualcosa che soprattutto l'aiuti a disfarsi
di quell'ingombrante peso che preme lì, dove si
suppone si trovi il cuore. Shikamaru non vuole aiutarla in questo senso, nessuno vuole aiutarla.
"Che cosa ci fai qui?" gli domanda infine, la voce graffiata e roca
che finge di essere seria.
"Te l'ho detto, Kurenai-san parlava di fantasmi
e voleva che controllassi."
"Kurenai-san non vive più qui
da tanto tempo. E neanche tu."
"Sembra quasi che ti dispiaccia" osserva Shikamaru,
una lieve nota ironica nella voce. Si è appoggiato allo stipite adesso, ha
incrociato le braccia sulla giubba dei Chuunin di Konoha e continua a guardarla fisso, gli occhi così
profondi da spaventarla.
Ino abbassa il viso, osserva le linee nette delle assi del pavimento di legno e si diverte a seguire con le dita la loro ruvida
silhouette.
"Perchè forse è così, non credi?"
Ci è riuscita: l'ha zittito. Anzi, le pare quasi di
aver sentito qualcosa di simile a un sospiro.
Lui non le risponde, troppo pigro anche solo per pensare. Ed è questo a
soffiare sulle braci della collera di Ino, che divampa
di nuovo nelle scintille di un grido strozzato:"Non dici più niente, eh?
Certo, logico.
...Il sole di Suna forse
scotta? Cos'è, Shikamaru, ti è venuto a noia e ti sei
voltato indietro, per vedere se qui era rimasto qualcosa di divertente?!?
Mi spiace deluderti, dovevi rimanere là. Con Temari."
"Ino."
"Ma, voglio dire, io l'ho capito non appena ti ho conosciuto, ricordi? 'NON POSSIAMO STARE INSIEME' ed è
così, è così, non vedi come... come finiamo per rovinare ogni cosa quando siamo
insieme, non sappiamo parlare, non sappiamo chiarirci, siamo solo capaci di
guardarci negli occhi e rovinare tutto, senza avere il coraggio di cambiare le
cose, noi..."
"Ino."
"Non possiamo stare insieme, noi due non possiamo, non possiamo, non
saremo mai felici, e poi è giusto che tu sia innamorato di Temari, è giusto che tu l'abbia seguita a Suna, è giusto che io faccia la cretina con Sai;
capisci, tutti si aspettano che la storia segua questa direzione, è così che le
cose devono andare, è così che sono sempre andate da una vita intera, perchè
mai innamorarsi di uno come Shikamaru Nara, perchè
prendersi il disturbo di cambiare le cose, per quale scopo, dico io, per
quale..."
"Ino."
"Non so neanche cosa dirti, non so nemmeno... Con te è sempre stata
un'eterna partita a scacchi e ho rinunciato alla vittoria quando sei partito
per Suna, sai? Ma già quando hai pianto per la prima
volta, in ospedale, ricordi, già allora avevi detto
che avevi trovato un buon motivo perchè la tua vita fosse diversa e io... era Temari, il motivo, no? Io non sono mai stata tanto
importante, io sono sempre stata quella che capiva soltanto dopo, è
stato così per il tradimento di Sasuke-kun, per la
morte di Asuma-sensei, per
quel fottuto giorno in cui mi hai detto che tu e Temari sareste tornati a Suna
insieme..."
"Ino, finiscila!"
La ragazza tace di colpo.
Non era tanto il tono imperioso di Shikamaru o la
decisione che vedeva brillare nei suoi occhi, quanto quel singolo, unico,
esplosivo passo in avanti, quello che faceva riconsiderare tutte le posizioni.
Shikamaru infatti aveva
varcato la soglia ed era entrato nella stanza.
Un passo avanti aveva tanti significati, soprattutto se era un passo verso di
lei.
"Tu hai perfettamente ragione."
(E gli occhi di Ino in un istante si erano fatti
liquidi).
"...E sei venuto fin qui per dirmi questo?! Ovvio che lo so, dannato Nara,
lo so da sempre, cosa credi!?"
"Fammi finire."
Ino tace di nuovo, disorientata.
"Tu dici che non possiamo stare insieme. E hai
ragione, forse. Ma a dire il vero un legame tra noi
esiste, lo sai bene. C'è sempre stato, per quanto lo si
voglia ignorare o cancellare. C'è. E' la nostra realtà, Ino.
E' ridicolo continuare a fingere che non esista."
Ino annuisce lentamente, come una bambina che piano piano
sta cominciando a capire quella nozione così difficile.
A fatica riprende a parlare, con un filo di voce arrocchita:"...E tu, tu sei venuto fin qui da Suna
solo per dirmi questo?"
"Non solo." Un altro passo avanti.
Shikamaru è di fronte a lei,
dondola un'usurata chiave di metallo davanti ai suoi occhi.
"Sai chi ha vissuto qui?"
"Sì."
"..."
"Dunque?"
"Te lo sto chiedendo, Ino."
Tende la mano verso di lei, come per aiutarla ad alzarsi, e tra le pieghe color
bronzo del palmo spicca il luccichio argenteo della chiave d'acciaio.
Ino riflette, i grandi occhi spalancati, il tramonto che le inonda i capelli di amaranto.
"Non farmelo dire a parole, per favore" aggiunge lui, piano.
Come poteva esistere qualcosa fra due persone così, due
persone col viso segnato dal passaggio degli anni, due persone che avevano
conosciuto i momenti più umilianti l'uno dell'altra, come poteva nascere
qualcosa dalla Morte dell'Intimità, dall'Antitesi del Romanticismo, dove a suo
tempo tutto quanto era già stato svelato e conosciuto?
(Era semplicemente impossibile.)
Ma ad Ino, mentre le sue dita andavano ad intrecciarsi con quelle di Shikamaru, tutto ciò aveva smesso di interessare da tanto, tanto tempo.
Lui ti offre la sua ultima
carta,
il suo ultimo prezioso tentativo di stupire,
quando dice "È quattro giorni che ti amo,
ti prego non andare via, non lasciarmi ferito".
E non hai capito ancora come mai,
gli hai lasciato in un minuto tutto quel che hai.
Fin
Nota dell'Autrice
Gah. Io la amo, questa
storia <3.
Forse è confusa e poco chiara, ma ci sono dentro tante cose, tante
canzoni, tanti momenti che mi fanno stringere il cuore di tenerezza e
commozione. A partire da Pezzi di Vetro di De Gregori, che consiglio a tutti di ascoltare. Il dettaglio
della linea della vita a spirale di Asuma è ovviamente preso da questa canzone :).
Poi, vediamo. La frase "La tua semplice assenza si sente molto più della
presenza di chiunque altro" ha una lunga storia.
Era scritta su un muro di Assisi ed è stata scoperta
da una mia amica in gita scolastica. Io la trovo una frase splendida, sincera;
visto che mi manca sfortunatamente qualcuno a cui dedicarla, l'ho regalata a Ino perchè la scrivesse a Shikamaru.
A lei almeno è servita :).
Invece il momento in cui entrambi sono abbracciati
sulla tomba di Asuma è nato da questo disegno:
http://rurounigochan.deviantart.com/art/ShikaIno-Long-Goodbyes-18403598
Non conosco l'autrice, però al ringrazio comunque per aver dato l'immagine
reale a una proiezione della mia immaginazione.
Infine, la cosa che in fondo mi piace di più di questa storia
è il parallelismo: Asuma e Kurenai
avevano cominciato bene e sono finiti male, Shikamaru
e Ino avevano iniziato male e sono finiti... beh... Checchè
ne pensi Kishimoto, io credo bene.
E queste coppie sono accomunate dalla Morte del
Romanticismo, appunto: relazioni nate da rapporti cementati da anni di
conoscenze, una volta che tutto era già scoperto. Qualcuno, non ricordo chi, disse che l'amore nasce solo dalla curiosità di scoprire
l'altro, dunque qui ho voluto rappresentare l'esatto contrario: persone che
lottano ostinatamente per trovare l'inusitato anche in chi conoscono da molto
tempo. Ce l'hanno fatta, no ;)?!
Spero che tutti quanti comunque siano IC, ecco u.u Asuma e Kurenai soprattutto, dato
che li conosco un filino meno di Ino e Shikamaru. E spero anche che si sia capita bene l'implicazione con la
casa disabitata, che era un vincolo obbligatorio del Concorso.
Comunque ShikaIno IS LOVE. E anche AsuKure, dai.
A parte questo, "Pezzi di Vetro" si è
classificata PRIMA al Contest "Scegli
il tuo Pairing", rendendomi immensamente
felice. Grazie a Wishful e MillyMalfoy,
le due giudici, che sono state davvero gentilissime e professionali, grazie
alla mia Chaos che è arrivata seconda -e non
vedo l'ora di leggere ciò che la tua piccola mente malvagia ha partorito *_*-,
a Queen_of_Sharingan91 con cui ancora una volta mi sono misurata in un
contest, a Inochan, a
V@le e a Binky.
Come si suol dire, poche ma buone, ragazze ;)!
Grazie dell'attenzione,
Hipatya