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Autore: Bloomsbury    06/04/2014    10 recensioni
[Storia in revisione] Capitoli revisionati: 14/35.
Jay era un ragazzo come tanti, con qualcosa in più o in meno degli altri, un ragazzo normale, un ragazzo omosessuale: particolare insignificante per ogni persona di buon senso.
Si vergognava di tante cose, tranne che di questo.
Jay bramava la luce, la libertà.
Fece la scelta sbagliata nel contesto meno appropriato e quel particolare insignificante diventò la spada che lo uccise, la macchia scura che lo inghiottì.
«Mio figlio è morto il giorno stesso in cui ha tradito la natura che gli ho donato con orgoglio.»
«La natura che mi hai donato è quella che ti ho confessato…»
«È una natura che mi fa ribrezzo!»
Così comincia la storia di Jay Hahn, fatta di dolori, di abbandoni, di amore, di amicizia, di segreti, di bugie, di tempesta.
E le tempeste intrappolano nel proprio occhio ogni cosa, risputandoti fuori lacerato, diverso, un mostro.
Jay uscirà ed entrerà da quelle raffiche di vento, diventerà lui stesso la tempesta e annienterà ogni cosa al suo passaggio.
Compreso se stesso.
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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"The love for what you hide
The bitterness inside
Is growing like the new born
When you've seen, seen
Too much, too young, young
Soulless is everywhere

Hopeless time to roam
The distance to your home

Fades away to nowhere."

New Born- Muse



13. New Born



Stare senza Jay, per i primi momenti, non era stato poi così difficile.
La rabbia per ciò che era successo durò per giorni, quindi la nostalgia era stata sepolta sotto un cumulo di macerie causate dall’ultima sfuriata che aveva reciso di netto il legame che li aveva uniti da sempre.
Le giornate passarono, dapprima, molto velocemente, poi il rimpianto prese il sopravvento appesantendo ogni cosa. Anche solo uscire di casa e puntare gli occhi sulla strada che l'avrebbe portato da lui risultava doloroso.
Non avrebbe mai più percorso quel tragitto per raggiungerlo 
soprattutto per vergogna  e sebbene Jay fosse stato dignitosamente accondiscendente durante la discussione, Chaz era perfettamente consapevole di averlo squarciato da parte a parte, lo aveva giudicato con rabbia e, ancora peggio, aveva sporcato ciò che c'era stato mettendo in dubbio il loro rapporto, non solo i suoi comportamenti di quell’ultimo periodo. Gli aveva rinfacciato ogni cosa, compreso il proprio sostegno, negando con forza ogni sentimento che li aveva uniti fino a quel momento.
Se fosse andato da lui non sarebbe stato più credibile.
Chaz non l'avrebbe mai odiato e nonostante ce la stesse mettendo tutta per dimenticarlo ne sentiva la mancanza.
Sarebbe arrivato presto il Natale e si chiese se le sue intenzioni fossero davvero quelle che aveva dichiarato con arroganza davanti agli occhi in lacrime del suo migliore amico.
Camminava avvolto da una sensazione costante di malinconia e dal continuo senso di colpa per averlo sbattuto al muro, urlandogli contro parole sudicie con il fine di ferirlo a morte. Non le pensava quelle cose e sapeva di non essere mai stato nella posizione di poterlo giudicare, eppure lo aveva fatto e non si sarebbe mai perdonato.
Arrivato alla fine della strada si sedette sul muretto dove era solito fermarsi con Jay per l’ultima sigaretta prima di tornare a casa e non appena la fiamma sfiorò i filamenti di tabacco, lo scoppiettio lo riportò a ricordi neanche troppo lontani.
La prima sigaretta della loro vita l’avevano condivisa, scandendo i passaggi da mano a mano con colpetti di tosse sommessi che rimarcavano la loro inesperienza.
Sorrise rievocando quel ricordo che, seppur piccolo e apparentemente senza alcuna importanza, racchiudeva un mondo di cose, un’amicizia intera.
Chaz e Jay avevano condiviso tutto dal primo momento, ogni esperienza, dalla più insignificante alla più importante, e prendere coscienza del fatto che non avrebbero mai più potuto farlo fu insostenibile, perché Jay era insostituibile. Ormai, abbandonato dall’ira, quella conclusione si fece sempre più nitida ponendolo davanti ad una certezza che fino a qualche giorno fa non avrebbe mai ammesso: Jay era davvero tutta la sua vita.
Per anni aveva dato per scontato la sua presenza, sminuendone l’importanza. In realtà, quel ragazzo era stato tutto, più di qualsiasi altro amico e a volte anche più della sua stessa famiglia, non avrebbe mai permesso a se stesso e ad un momento di follia di cambiare questo dato di fatto.
Si accorse di star correndo solo dopo qualche metro. Aveva abbandonato quel muretto mosso dal puro istinto e non appena vide le scale della metro ci si fiondò senza pensarci, conoscendo già la sua destinazione.
Avrebbe fatto l’ultimo e disperato tentativo di riprenderselo, cercando il più possibile di mettere a tacere l’orgoglio e la vergogna. Sarebbe ritornato in quel bar e avrebbe lottato per riaverlo.

***

«È inutile che lo cerchi. Jay non è qui» rispose Lizzie alla tacita domanda che Chaz le aveva rivolto.
Solo con la sua presenza aveva chiesto di lui, ignorando Izaya che, chino sul cellulare, sembrava non lo avesse neanche notato.
«Sai quando viene? Posso aspettarlo qui?»
«Se vuoi aspettarlo qui, accomodati». La freddezza di Lizzie non fece altro che accrescere il disagio di Chaz che, già dal momento in cui aveva fatto capolino nel bar, aveva percorso il tragitto fino a lei con enorme difficoltà.
Si accomodò qualche tavolo più lontano, cercando di mimetizzarsi con l’ambiente senza neanche ordinare qualcosa da consumare nell’attesa.
Fissò la vetrata sperando di scorgere Jay, ma un colpo secco richiamò i suoi occhi verso Izaya che si era alzato adirato, facendo sbattere la sedia al muro dietro di lui.
«Cazzo, non risponde. Vado a cercarlo». Prima che potesse compiere ulteriori passi verso l’uscita, la ragazza lo frenò di scatto ponendosi davanti a lui, sbarrandogli la strada. «Non sai dove cercarlo. Anche io sono preoccupata, ma potrebbe essere ovunque. Aspettarlo qui è la cosa più ragionevole».
Un senso di panico prese le gambe di Chaz che, istintivamente, si alzò dirigendosi verso loro. «Che succede?»
«Non ti riguarda!» rispose Lizzie con fermezza.
Il ragazzo abbassò la testa, d’altronde, non aveva più alcun diritto su di lui, se ne era lavato le mani nel momento stesso in cui l’aveva lasciato solo nel bar.
«Non troviamo Jay. Stamattina ci siamo sentiti, mi aveva chiesto di vederci qui al bar, ma ho dovuto rimandare per una questione di lavoro. Ci siamo dati appuntamento qui tre ore fa e non è mai arrivato, non risponde al telefono.» Il tono della voce di Izaya arrivò all’orecchio di Chaz come un pugno: era preoccupato e rassegnato. Jay lo aveva chiamato quella mattina chiedendo di lui, aveva percepito qualcosa di strano nella sua voce, ma aveva scelto di prenderlo sottogamba senza indagare oltre.
Izaya sembrava non volesse dare peso ai trascorsi tra Chaz e Jay proprio perché, in quel momento, c’era in ballo qualcosa di molto più importante di una bega tra ragazzini, quindi lo coinvolse nel discorso sperando avesse delle informazioni su di lui.
Lizzie scosse il capo come a voler levarsi dalla mente un brutto presentimento e cercando di assecondare i propositi di Izaya, fissò Chaz con preoccupazione. «Tu sai dove potrebbe essersi cacciato?»
«Non lo so.» Il dispiacere e la preoccupazione ingurgitò in un sol boccone la voce del ragazzo che rispose confuso e sottovoce, come se l’inquietudine gli avesse cancellato i ricordi, confondendolo inesorabilmente. Non sapeva dove potesse essere o, forse, non riusciva a trovare la lucidità giusta per poterci pensare a fondo.
La tensione che aleggiava nel locale enfatizzava maggiormente l’assenza di Jay portando i presenti a pensare qualsiasi cosa.
La chiamata di quella mattina prendeva sempre più i connotati di una richiesta d’aiuto, ma nessuno immaginava da cosa volesse essere salvato.
«Dobbiamo andare a cercarlo» insistette Izaya, ignorando categoricamente i consigli di Lizzie che, afflitta, si abbandonò sulla sedia accettando passivamente la decisione del ragazzo.
Se avesse aspettato il suo arrivo senza fare niente sarebbe impazzito. Izaya, infatti, cominciava a dare segni di impazienza e Chaz, alimentato dalla sua risolutezza, strinse i pugni permettendo alla mente intorpidita dalla paura di riflettere, mettendo in moto il cervello.
Lui poteva trovarlo.
«Credo che potremmo andare a cercarlo a casa sua, per prima cosa. Una volta accertata la sua assenza potremmo provare altrove».
Izaya, senza farselo dire due volte, raggiunse la porta con passo deciso e Chaz, ancora incerto, lo bloccò: «Che diremo ai suoi?». L'altro si voltò e i suoi occhi parlarono più delle parole. Era arrabbiato con se stesso per aver preso alla leggera Jay ed era ancora più adirato con i genitori di lui perché, quasi certamente, erano stati la causa dei suoi ultimi problemi.
«Cosa gli diremo? Esattamente quello che si meritano. Avrei dovuto farlo già da tempo.»

***

I passi decisi di Izaya presagivano l’inizio di una tempesta che, molto probabilmente, Chaz non sarebbe mai stato in grado di innescare.
Lo seguiva come un’ombra incerta sulla strada che li avrebbe portati verso un incontro risolutivo e certamente non privo di sorprese.
Le spalle di Izaya sembravano più imponenti del solito, come se si stesse caricando di una fermezza che Chaz non avrebbe mai sostenuto sulle proprie. Più si avvicinava l’obiettivo da raggiungere, più il ragazzo sentiva le gambe cedergli, se avesse seguito quell’uomo si sarebbe definitivamente scoperto e i genitori di Jay avrebbero potuto pensare di tutto.
Per un attimo si arrestò seguendo con lo sguardo l’incedere sicuro dell'uomo davanti a sé che, indecifrabile, accorciava le distanze con audacia, tanto da far immaginare con nitidezza l’impatto che sarebbe avvenuto a breve.
Si chiese se per Jay ne valesse la pena.
Richiamò l’attenzione di Izaya che, ormai, stava di qualche passo lontano da lui.
Non appena si voltò poté percepire l’insicurezza di Chaz e capì che le perplessità del ragazzo non avrebbero portato nulla di buono né per lui né per Jay, così non si fece trattenere lungamente e lo lasciò indietro avvicinandosi, da solo, alla porta di casa Hahn.
Chaz l’aveva piantato in asso, ma nonostante ciò non riuscì a prendersela con lui.
La sua giovane età lo giustificava e quasi poté intravedere un se stesso lontano anni luce da quello che era diventato col tempo.
I ragazzini, il più delle volte, tendono ad essere egoisti, lui stesso lo era stato, ma adesso,
da adulto, da uomo  non poteva più permetterselo, perché la stessa indole ribelle che l’aveva mosso da ragazzino scalpitava sotto le sue suole, spingendolo ad affrontare quella famiglia così ipocrita da lasciare interdetto ogni uomo di buon senso. Lui lo era diventato e se prima aveva accettato la situazione sperando potessero ammorbidirsi, stavolta l’impellenza di affrontarli era diventata incontenibile.
La rabbia, più di tutto, animava la sua foga.
L’amore per Jay lo spingeva a reagire e ad opporsi.
La preoccupazione gli infondeva sicurezza.
Prima che potesse realizzare con lucidità aveva già suonato il campanello, aspettando con impazienza che qualcuno di quell’indegna famiglia si presentasse alla porta, alimentando l’odio che già da tempo covava nei loro confronti.
Ciò che vide lo colse impreparato perché due occhi verdi, limpidi come una quieta laguna, si mostrarono con disarmante pacatezza.
Le labbra di Emma, schiuse dalla sorpresa di trovarsi difronte ad una figura particolare ed eccentrica perciò
così lontana da lei, pronunciarono parole affettate e gentili come si confaceva ad una donna adulta di quel calibro.
Dopo aver superato il primo momento di stordimento dovuto alla sorpresa, i ricordi di Izaya lo riportarono a quel ragazzino così somigliante a quella donna che, incomprensibilmente, nonostante la similarità, si discostava interamente dalla creatura che aveva concepito. Due persone così simili, eppure così discordanti nell’essenza, combattevano nei suoi pensieri e, per un attimo, vacillò chiedendosi se il comportamento che aveva scelto di adottare sarebbe stato davvero quello più consono.
«Jay è qui?» chiese gentilmente ma con decisione.
Lo sguardo di Emma mutò come vivificato da un’incontenibile biasimo, divenne severo, inflessibile, facendo soccombere quel minimo di amabilità che aveva lasciato scorgere inizialmente.
L'uomo, cogliendo il cambiamento così repentino, ebbe la conferma di ciò che aveva sempre pensato di lei: era una donna ipocrita e debole, vittima dell’apparenza, dell’etichetta, una donna che aveva costruito un’immagine ben precisa ma che, in realtà, divergeva con ciò che era veramente. Jay rappresentava, per lei, la mano che avrebbe stracciato con violenza lo stereotipo eretto a sostegno della sua facciata di cartone finta e patinata.
«Jay non è qui» rispose con fare altezzoso.
Quella donna racchiudeva tutto ciò che Izaya odiava a morte, così bloccò con mano ferma la porta che lei, senza alcuna delicatezza, stava per chiudere lasciando fuori l’ennesimo e insidioso insetto che avrebbe sconvolto la sua tranquilla e morigerata esistenza.
«Signora, non è qui o semplicemente non si è curata di accertarsene?»
Emma sapeva di avere davanti un uomo e non un ragazzino da poter contrastare con facilità, eppure non si arrese e con più convinzione tentò di chiudere la porta. «Non so chi è lei e non sono tenuta a risponderle.»
Izaya, senza usare più alcuna gentilezza, spalancò la porta per dimostrarle che non era di certo la sua resistenza ad ostacolargli l’ingresso. Benché l’entrata fosse sgombra da qualsiasi ostacolo non entrò, ma attese che Emma potesse convincersi del fatto che mai se ne sarebbe andato senza una risposta precisa.
«Sto cercando Jay da più di tre ore. Voglio solo sapere se è qui.» Gli occhi di Izaya non lasciarono scampo alla donna, così la sua sicurezza si sgretolò sotto gli occhi scuri che la fissavano disapprovanti.
Si ravvivò i capelli per darsi un contegno e approfittando della sua posizione di vantaggio
rispose con fare minaccioso d’altronde si trovava nella sua dimora e avrebbe potuto giocare la carta della padrona di casa disturbata da una visita inaspettata e infelice. «Le ho già risposto alla domanda. Jay non è in casa e, come spesso accade, non mi ha fatto sapere nulla dei suoi spostamenti. Ora, la prego, se ne vada prima che chiami la polizia».
Emma non sapeva chi fosse Izaya, come non conosceva quanto quel tipo di atteggiamenti potessero infierire sui nervi scoperti del ragazzo. La supponenza di quella donna non lo intimidì affatto e non convinto della risposta salì i gradini che gli rimanevano per varcare la soglia.
La donna, spaventata, si retrasse urlando frasi di rimprovero e panico. Lui, di contro, spalancò la porta e fece ingresso nella casa, percorrendo il corridoio che dava alle scale inseguito da Emma che tentava, per quanto le fosse possibile, di ostacolarlo: «Ma si rende conto? Chi è lei? Come si permette di entrare a casa mia? Se ci fosse stato George…»
Izaya si voltò accostando il viso a quello di Emma e con tono canzonatorio la provocò: «Suo marito non c’è? Che peccato! Avrei tanto voluto confrontarmi con lui. Sarebbe stato interessante vedere chi dei due è più uomo». Continuò per la sua strada, salendo i primi gradini.
«Ecco! Tutto chiaro adesso. Lei è uno degli amici di mio figlio. Lei è come mio figlio.»
Il tono della voce di Emma inchiodò i piedi del suo interlocutore che, senza voltarsi, rispose lentamente, senza alzare la voce: «Non osi offendermi e, soprattutto, non si azzardi a fregiarsi ancora una volta del titolo di madre quando si parla di Jay. Lei non è una madre, lei è una persona vergognosa e viziata e mi chiedo ancora come sia stato possibile che una donna indegna come lei abbia potuto portare in grembo un ragazzo dignitoso come Jay.» Continuò a salire le scale percependo lo sgomento alle sue spalle. Non se ne preoccupò, qualsiasi cosa avesse fatto o detto non l’avrebbe fermato.
Non appena giunse al piano di sopra rallentò il passo, scorgendo in ogni piccolo particolare la natura falsa di quella famiglia.
Le foto di famiglia, sfoggiate su una consolle antica in legno, tradivano un’inquietante mancanza di un componente. In nessuna foto compariva Jay e finalmente, con grande dolore, poté capire a fondo l’inferno nel quale stava vivendo, ormai da troppo tempo, il ragazzo che amava.
La famiglia non voleva abbandonarlo, voleva coartare i suoi desideri.
Capì al volo le dinamiche con il quale avevano scelto di risolvere il problema “Jay”.
Facendogli mancare ogni cosa 
l’affetto, gli agi, le sue stesse radici  speravano di  farlo rinsavire così da costringerlo a ritornare sui suoi passi.
Sentì una morsa nello stomaco nel momento esatto in cui comprese il sottile ricatto al quale lo avevano sottoposto e senza più tentennare aprì ogni porta sperando di trovarlo.
Capì subito quale fosse la stanza di Jay e un brivido di paura lo sorprese nel momento esatto in cui appurò la sua assenza.
Non era neanche lì.
Avrebbe voluto soffermarsi su altri particolari, ma gli occhi si posarono sul letto sfatto che nascondeva tra le sue pieghe il cellulare abbandonato di Jay.
Si avvicinò tempestivamente, afferrandolo.
Cercò di trovare qualsiasi indizio utile che gli avrebbe suggerito qualcosa, così visualizzò la sua ultima chiamata e vide il proprio numero. Era stata l’ultima persona che aveva cercato di contattare e un colpo cupo al centro del petto lo costrinse a stringere nelle mani quell’unico piccolo oggetto che avrebbe potuto dargli una minima speranza. Esaminò gli ultimi dati con impazienza e la ricerca giunse al termine non appena trovò l’ultimo sito internet consultato. Sperò che quella fosse stata la sua destinazione e cacciando il cellulare nella tasca dei jeans si guardò intorno ancora un attimo. Libri, vestiti, videogiochi, computer: lì c’era il piccolo mondo di Jay custodito in una stanza sola.
Corrugò la fronte chiedendosi se lui meritasse davvero di rimanere chiuso e nascosto in una camera, senza sentirsi libero di poter vivere nel resto della casa tra le risate e la leggerezza che ogni ragazzo della sua età ha il diritto di avere.
Si avvicinò alla scrivania e prese velocemente lo zaino sulla sedia. Freneticamente raccolse tutto quello che c’era da raccogliere e senza alcuna cura, per la fretta, lo riempì di vestiti, qualche libro e altre piccole cose.
Chiuse con decisione la zip racchiudendo oggetti e speranze.
Scese le scale di fretta ignorando Emma che parlava al telefono, fece per uscire ma lei lo bloccò, chiudendo la porta davanti a lui. «Mi ascolti bene, non la passerà liscia. Ho già messo al corrente mio marito dell’accaduto e farà il possibile per trovarla e fargliela pagare.» Infastidita dall’espressione tendente al riso di Izaya 
che la fissava come se fosse l’essere più ridicolo al mondo  abbassò lo sguardo per ritrovare un briciolo di calma, ma non appena si accorse dello zaino alzò gli occhi di scatto, incredula: «Cosa ha preso?»
«Jay non tornerà mai più in questa casa. Sono i suoi bagagli» rispose monocorde, pronto a farsi carico di ogni responsabilità.
«Ma che diritto ha di venire a casa mia, scombussolare tutto come il peggiore degli animali e portare via Jay? Chi è lei?»
Izaya, in un gesto di stizza, scosse il capo, rassegnato davanti a tale imbecillità ed estraendo il suo biglietto da visita glielo porse: «Izaya Hayes. Sono avvocato presso lo studio Carver & Carter LLP, dica a suo marito di farmi visita.»
«Cosa vuole da Jay?»
«Voglio che viva. Lei, cosa vuole da Jay? Vuole vederlo sopprimere la sua identità, rovinare la sua esistenza, vuole vederlo infelice? Se ha un briciolo di affetto per quel ragazzo lo lasci andare senza fare altre storie. Le sconsiglio di alzare polveroni perché è questa merda di famiglia ad avere segreti da nascondere, non io e neanche Jay. Buona giornata.» Ruggì quelle ultime parole con estremo rancore per poi scostarla dalla porta e uscire.
Si fermò di spalle per un breve istante e sospirando alzò gli occhi verso la strada, scorgendo l’immagine vaga e non reale di Jay che camminava su quella via, verso casa sua. Non era mai più stato felice, anzi l’aveva conosciuto come un ragazzo disperato e rifiutato dalla sua famiglia ed ora era arrivato il momento di cambiare le cose.
Si voltò ancora verso Emma che lo scrutava in silenzio come presa in ostaggio da un turbinio di riflessioni, e quasi con tono benevolo la onorò del suo più sentito augurio: «Spero che lei possa vivere altri cento anni senza mai dimenticarsi di avere un figlio che lei stessa ha messo al mondo e negato. Le auguro di arrivare ai suoi ultimi anni di vita in salute e saggezza così da rendersi conto del male che ha fatto quando, ormai, sarà troppo tardi per rimediare».
Si allontanò speditamente 
non avrebbe mai più dedicato altre parole a quella donna  e con passo rapido e deciso si avvicinò a Chaz che lo aspettava lontano abbastanza da non farsi scorgere.
Lei, rassegnata, lo lasciò andare senza ostacolarlo.
Rimase immobile davanti alla porta per qualche minuto; era consapevole del fatto di non essere stata una buona madre per Jay, ma non si sentiva affatto in colpa perché ogni sua azione era stata dettata dal disperato desiderio di proteggere suo figlio da una vita immorale. Accostarsi alla disapprovazione di suo marito fu la cosa più naturale del mondo per lei. George aveva dimostrato, più di una volta, di non accettare gli omosessuali, motivandone le ragioni e come uomo di gran giudizio e di elevata cultura Emma lo ascoltava, convenendo con lui su ogni punto.
Loro figlio non poteva essere un omosessuale, uno dei tanti personaggi frivoli in cerca di sesso, ma Jay sembrava non voler cedere, quindi, a malincuore, lasciò che Izaya glielo portasse via per sempre, dicendosi che quella sarebbe stata la soluzione giusta.
Jay avrebbe vissuto la sua vita lontano da loro senza metterli in una condizione di imbarazzo e questo non era altro che un motivo di sollievo.
Suo figlio gli mancava, ma quel maledetto giorno l’aveva definitivamente perso e la sua presenza a casa non era altro che la proiezione falsata del suo bambino che, ormai, viveva solo nei suoi ricordi perché, nella realtà, quel figlio non esisteva più.

***

«Dove stiamo andando?» chiedeva Chaz cercando di tenere il passo.
Non sapeva cosa fosse successo e nonostante morisse dalla voglia di saperlo preferì dedicarsi alla ricerca di Jay.
«È a Bloomsbury. Lo troveremo lì».
Gli occhi di Chaz si posarono sullo zaino che Izaya portava aggrappato alla sua spalla e una morsa allo stomaco provocò ogni possibile deduzione.
Era arrivato il momento di dire per sempre addio a Jay, sempre se fossero riusciti a trovarlo.

   
 
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