Esistono molte cose nella vita
che catturano lo sguardo,
ma solo poche
catturano il tuo cuore:
segui quelle.
Churchill
Sono in bagno. Il bagno della mia stanza d’albergo.
Le mie mani
tremano come foglie; non riesco a fermarle.
Non ho il
coraggio di guardare quella busta bianca appoggiata sul lavandino. È arrivata
questa mattina. E io ho il terrore che contenga quelle
parole che ho cercato di dimenticare.
Ho paura di
veder sparire tutto quello che mi sono costruita. Di
ritrovarmi di nuovo proiettata in quel mondo. L’ho scelta io, quella
vita. Non ho rimpianti per questo. È la mia vita. La
amo. E la odio. Perché adesso ho paura che mi possa portare via lui. Questa
volta per sempre. Paura. Paura.
Alcune immagini
del passato bussano alla mia mente. Cerco di scacciarle; inutile. Rivedo il
triste corridoio incolore di un ospedale. Un medico dalla faccia altrettanto
incolore. Parlava, ma io non lo ascoltavo. Ero in trance; l’unica cosa che
vedevo era il letto oltre quel maledetto vetro. Non volevo perderlo…Non dopo
che era ritornato; che avevo ripreso la speranza. E che tutto era finito.
Chiudo gli
occhi. In realtà, ero sicura di averlo perso comunque. Un pensiero che mi
faceva gelare il sangue Cercavo di scacciarlo, ma in fondo sapevo che la realtà
non si può cancellare. E ignorarla non mi sarebbe servito a nulla. Dovevo
accettarlo. Anche per lui. Quello che aveva vissuto lo aveva segnato fin dentro
la sua anima. Nel profondo. Troppo. Ferite difficili da rimarginare.
Non ha mai
voluto parlarne, neanche con me. E io non l’ho
costretto. Sarebbe stata solo una violenza gratuita. Però
sapevo bene che nessuna delle mie supposizioni, neanche la più devastante,
poteva sfiorare la realtà di quello che aveva visto. E soprattutto di quello
che aveva provato.
Mi bastava
stargli accanto. Anche se il più delle volte sembrava smarrito in un mondo suo.
Era diventato l’ombra di se stesso. E mi faceva male vederlo così. Molto male.
Così, alla fine,
me ne ero andata. Mi ero convinta che fosse la mia presenza a impedirgli di
guarire, di tornare sereno. I ricordi che gli rievocavo. Non l’ho neanche
salutato. Non volevo più fargli del male.
Cinque minuti,
dieci minuti…Quanto tempo sarà passato? Non riesco
ancora a guardare la lettera. Perché prima vorrei mettermi d’accordo con me
stessa sulla decisione giusta. Ma cosa diavolo farei
se scoprissi che è ciò che temo? L’avrebbe di certo ricevuto anche lui.
Mentirgli quindi sarebbe inutile. E poi se ne accorgerebbe subito. Cosa farei, allora? Ce l’ho la
forza di vederlo soffrire di nuovo? Di rischiare di perderlo? Proprio adesso?
Soprattutto adesso?
No; non ce l’ho. So già che non che la farei ancora. Che sono
cambiata troppo per riuscire a sopportare di nuovo quell’angoscia. Ma so anche che lui andrebbe. Soffrirebbe ancora, ne è
cosciente anche lui, ma non rinnegherebbe quella vita. Quella vita… La sua vita. Che è
anche la mia.
Lui è così. È
determinato. Ma è anche tenero e dolce come una nuvola
di zucchero filato. Rosa per di più. Lo amo. Posso dirlo: mi sento di dirlo. Ma è anche un uomo che ha riconquistato con fatica il
suo equilibrio, maturando un senso del mondo tutto suo, una realtà dolce e malinconica.Ma estremamente viva e pulsante.
L’ho rincontrato
otto mesi fa, ad una festa per la presentazione del
cartellone teatrale. Mentre tutti cercava di parlare con tutti, lui scivolava
in silenzio in quelle stanza affollate, senza
partecipare a nessun tipo di conversazione.
L’ho
riconosciuto subito. Anche se era cambiato. Più alto,
pallido, con i capelli tagliati. Pareva ascoltare frammenti di dialogo,
lasciarsi attraversare dalle parole. Senza intervenire, senza
giudicare, solo ascoltando e accogliendo voci di altri dentro di sé.
“Cosa guardi, cosa ascolti ?Non si capisce se sei
distratto o attentissimo”. Quelle erano state le prime parole che avevo
rivolto al mio angelo. Dopo anni che non ci vedevamo, che non sapevamo nulla
l’una dell’altro. Ero agitata. Non mi aspettavo di incontrarlo in un’occasione
come quella. Anche se lo avevo sognato per tanto tempo. Voltarmi, e trovarmelo
di fronte. Però, soprattutto, in quel momento, avevo
paura che non mi riconoscesse. Che mi avesse cancellata
dalla sua memoria. Era la cosa più probabile. Perché me ne ero andata proprio
per quello. Ma faceva male pensarlo. Maledettamente
male.
“Hai ragione, sono entrambe le cose. Colgo farfalle
di dialogo qua e là, schizzi di conversazione, abbozzi di facce sconosciute,
per poi farne quello che voglio nella mia testa”, mi aveva risposto, voltandosi.
Avevo trattenuto
il fiato quando i nostri occhi si erano incrociati. Avevo davanti il ragazzo che mi aveva sempre confortato con un sorriso
quando ero triste e che aveva riso con me quando ero felice. Aveva il sorriso
negli occhi. Di nuovo. Era stato per far rivivere quel sorriso che me ne ero
andata. Per quello. E allora perché gli avevo rivolto la parola? Avevo sbagliato. Avrei dovuto lasciarlo andare, senza dire
niente. Saperlo di nuovo in piedi. Una boccata d’aria veloce
per la mia anima, e basta. Accontentarmi di averlo
rivisto, anche se solo per un istante, mescolato a una folla eterogenea; anche
se solo di sfuggita. Avrei dovuto annegare nell’emozione di una
sensazione; nel batticuore che mi dava il pensiero che fossimo entrambi lì,
nella medesima stanza, a respirare la stessa aria, anche se lui non lo avrebbe
mai saputo. E invece avevo rovinato tutto. Tutto.
Ma ormai non potevo più tornare indietro. E forse non lo
avrei mai voluto. Perché, in fondo, volevo quell’incontro. Lo avevo sognato
troppo per farmelo sfuggire. E forse era davvero solo un sogno; anche quello.
“Ti esprimi come un pittore”.
Indifferenza. Avevo deciso. Dovevo comportarmi come se niente fosse; come se
fossero passate solo poche ore dall’ultima volta che avevo guardato nei suoi
occhi.
“Infatti. Dipingo e non
faccio quasi nient’altro. Come vedi neanche parlare”.
Aveva sorriso. E aveva ricominciato a parlarmi. Tutti gli anni trascorsi
annullati in un istante, come non fossero mai esistiti. Aveva ricominciato a
parlarmi, quasi riprendendo un discorso interrotto poche ore prima. Senza astio
nella voce. La sua voce…Così calda, avvolgente, tranquilla…Ma
anche leggermente roca per la sorpresa, e malinconica. Non sembrava
realmente rispondere a me; sembrava conversare con un
fantasma della sua mente all’inizio.
Abbiamo
conversato tutta la sera, come quando eravamo ragazzi, respirando la notte
parigina, affacciati sul ballatoio di una casa di ringhiera. Andromeda mi ha
raccontato della sua vita in quegli anni. Della sua Parigi. Degli angoli della
città che lui dipingeva.
“…vivo in una mansarda, in affitto. Collaboro con alcuni
giornali per degli articoli e insegno poche ore alla
settimana, solo quel tanto che mi è indispensabile per pagare le spese. I
vestiti non mi interessano; li compro usati. Ho
perfino un amico panettiere che alla sera mi porta
pane e focacce avanzate”. Lo ascoltavo
attenta, rapita; non volevo perdere una sola emozione di quei momenti. Avevo
paura di sognare. E che mi sarei risvegliata, accorgendomi che era tutto falso.
“Ho ventitré anni e sono laureato in
giornalismo. Lo so: adesso mi dirai che dovrei trovare un vero lavoro,
che dovrei guadagnare. Ma io posso vivere solo così e , finché mi è permesso, è questo che voglio fare.
Dipingere. Far entrare il mondo nella mia anima, digerirlo,
trasformarlo e poi buttarlo fuori attraverso il pennello. Non voglio
molto di più. Solo essere libero. E vivere”.
Sorridevo un po’
incredula per quello che sentivo. Per la prima volta mi ero accorta di come lui
e suo fratello si assomigliassero. Rincorrevano
entrambi la loro libertà, anche se in modo diverso: Phoenix mostrandosi ribelle
e solitario; lui scrutando il mondo con quella sensibilità che è solo sua e che
avevo avuto paura avesse perso.
“Non ti dirò nulla di quello che ti aspetti o
di quello che altri ti hanno detto fino ad oggi. Per me sei
eroico. Dopo tutto quello che ti è successo…”. Non sono riuscita a finire la frase. Cosa ne sapevo, io, di quello che gli era successo? Io me ne ero
andata. Per lui, certo. Per non farlo soffrire. Ma se
lui in questi anni era rinato, io ero morta lentamente. Mi era mancato. Avrei
voluto essergli accanto. Ma non ne avevo la forza.
Questa era l’unica certezza. Io non ero un sostegno per lui, solo la fonte del
suo dolore. Così, mi ero buttata nel lavoro; avevo realizzato una fantasia di
bambina. Ma dentro ero vuota. Solo sul palco mi
sentivo rinascere. Perché la musica mi stordiva e mi faceva perdere contatto
con la realtà. Perché potevo illudermi di scorgerlo fra il pubblico.
Avevo sentito i
suoi occhi su di me. Si era voltato; ed era serio. Molto. E
io mi sono allontanata di un passo, istintivamente. Avevo paura. Non di lui. Ma ero certa che stava per accadere qualcosa che non volevo.
Era una sensazione sgradevole. Troppo. Come quando sai che sta per succedere
qualcosa, anche se non riesci a focalizzare cosa.
“Perché te ne sei andata?”.
Me lo aveva
chiesto a bruciapelo. Mi ero sentita morire. Potevo dirgli che lo avevo fatto
per lui? Perché mi sentivo responsabile del dolore che soffriva? Perché lo
amavo, e non volevo che soffrisse guardandomi e ricordando il passato?
Avevo aperto la
bocca per parlare, ma non ci ero riuscita. Mi sentivo gli occhi pieni di
lacrime e avevo abbassato la testa per nascondergliele. La
sua mano delicata sotto il mio mento e i suoi occhi verdi in cui affogare.
“Non farlo mai più. Io ho bisogno di te.”.
Mi aveva detto
in un soffio. E mi aveva baciata. Piano. Sfiorando appena le mie labbra con le sue, morbide e carnose.
Affacciati sul cortile di una casa di ringhiere. Dopo il bacio mi aveva
sorriso.
“Sai, anch’io dipingo…”. Una mezza verità.
Per allentare la tensione. Perché l’unica cosa che avevo sempre disegnato erano
stati scarabocchi che volevano essere il suo volto. Mi sembrava di poter
accarezzare i suoi lineamenti con la matita. “Ma solo per hobby. Perché non mi dai qualche lezione? Mi servirebbe anche per il mio lavoro”.
Una scusa, un pretesto. Per illudermi ancora un po’. Perché non se ne andasse
ancora. O almeno non subito.
Andromeda
continuava a sorridere. “Va
bene. Vediamoci domani al Jardin du
Luxembourg (1)
all’una esatta. Ci sarà una buona luce.”
E il giorno dopo
mi aveva fatto togliere le scarpe e inginocchiare sull’erba. Mi aveva fatto
dipingere così: inginocchiata sul prato a piedi nudi.
La serata
l’abbiamo trascorsa nella sua mansarda-studio. Nell’odore dei colori a olio.
Magia. Incanto. Gli ho raccontato del mio lavoro, della mia vita in quegli
anni, dei paesi che avevo visitato. Mi sembrava di essere tornata indietro nel
tempo. A quando eravamo ragazzi e ci confidavamo i sogni e le speranze. Quando eravamo l’uno il sostegno dell’altro. A quegli anni duri, ma felici.
Così, quando lui
mi ha chiesto di nuovo perché ero scappata, io gli ho detto
la verità: perché non volevo farlo star male ancora. Perché mi sentivo
responsabile.
“Mi dispiace. È stata tutta
colpa mia. Ti ho sempre fatto soffrire.” In questo non era cambiato. Sempre
pronto ad addossarsi colpe non sue. Improvvisamente, mi era sembrato
così piccolo e fragile; le spalle larghe si erano piegate come sotto un peso
opprimente. Avevo sentito una stretta al cuore nel vederlo così. Mi sono
avvicinata; volevo dirgli che si sbagliava, che lui non mi aveva mai fatto
nulla; che anzi era stato il suo ricordo a farmi andare avanti. La voglia di
ritrovarlo. Non mi ha lasciato parlare. Le sue braccia forti
attorno a me e le sue labbra sulle mie.
“Mi sei mancata così tanto…”.
Credevo di sognare di nuovo.
Poi però sono
dovuta tornare in me. Sono tornata in albergo e ho ricominciato la vita di
tutti i giorni: il lavoro, le prove, le serate passate a discutere. E ho
iniziato anche ad aspettare una sua telefonata. E lui mi ha chiamata,
infatti, ma non quando me lo aspettavo io. Andromeda è un uomo in grado di
regalare stupore e in questi otto mesi ho imparato ha sentire il mondo in modo
diverso. Sì: Andromeda mi ha regalato una nuova prospettiva dell’universo. La
stessa che si è creato per rialzarsi. E mi ha anche
abituato ad amare in modo più libero, spontaneo. Prima di lui, amore per me
significava stare assieme tutto il tempo possibile e condividere tutto. E ora
mi ritrovo innamorata di un uomo che non sai mai quando ti telefonerà. Però sai
con certezza che lo farà. E sai con altrettanta
certezza che sei l’unica per lui.
Ricordo, per
esempio, la prima volta che mi ha invitata a cena a
casa sua. Due giorni dopo il nostro primo incontro.
“Non portare nulla, penso a tutto io. Tu lavori già tanto; devi solo rilassarti”, mi aveva detto al telefono, invitandomi.
E quando sono
arrivata a casa sua c’erano perfino le candele. Mi
aveva preparato un ottimo risotto agli scampi, che ho divorato. Andromeda mi
allungava gli scampi con le dita e mi baciava, mescolando le sue labbra e la
sua dolcezza ai cibi che mi donava. Nessuno mi aveva mai trattata
così.
Oppure
quell’altra volta, quando si è presentato in albergo alle tre di notte,
invitandomi a uscire. “Ma
sei impazzito? Perché dovremmo uscire a quest’ora?”
gli ho chiesto stupita. Lui non mi ha risposto; ha solo
sorriso. Maledetto sorriso! Mi ha convinto a seguirlo e siamo usciti insieme
nella notte. Mi ha portato a Montmartre (2) e abbiamo aspettato l’alba seduti
sui gradini della Basilique du
Sacré-Coeur (3).
“Guarda, Nemes —
mi ha detto- guarda il rosa che squarcia i palazzi e s’insinua
nei vicoli”. Il rosa era il cielo che iniziava a illuminarsi. È stata
l’unica persona a rapirmi, in piena notte, e a farmi osservare la bellezza
della città dove mi trovavo.
Andromeda mi
ama. Ma lo fa in una maniera diversa da chiunque
altro. Non c’è nulla di programmato in lui.
E poi, in
realtà, Andromeda mi dà tanto ogni giorno, senza che io chieda. Accanto a lui,
mi sento l’esploratrice di un mondo nuovo. Perché grazie ad Andromeda sto scoprendo nella realtà tanti particolari divertenti,
coloriti, sorprendenti. Sono diventata capace di apprezzare e cogliere le piccole
magie del quotidiano. È questo che mi ha conquistata
di lui. La sua capacità di trovare sempre una scintilla
positiva in ogni cosa. È un dono che ha saputo
tenersi stretto; anche dopo aver visto l’Inferno.
Ho imparato, paino piano, a rispettare il suo modo di essere.
All’inizio, quando andavo a casa sua, notavo soprattutto la miriade di disegni
e schizzi. A penna, a china, a carboncino, a olio…Erano ovunque, confusi con
foto in bianco e nero, cartoline…Aveva rivestito una parete intera con del compensato
e vi aveva attaccato con gli spillini tutti quei
fogli. Un mondo intero. Un modo di percepire il mondo intero.
Poi c’erano le tele, i colori e il cavalletto, grande, di fronte alla finestra
dell’abbaino. Era un universo colorato, caotico, fatto di tutte le sue
emozioni; ma non era disordinato. Mi avvolgeva e mi cullava, e a me piaceva.
Certe sere, dopo
una giornata estenuante di prove, scappo da lui. Spesso lo trovo completamente
assorto nella sua pittura; così io mi limito a sedermi sul divano e a leggere.
Basta la sua presenza a rilassarmi, cancellando ogni preoccupazioni o
nervosismo. Oppure lo guardo; seguo i movimenti lenti e precisi del suo polso.
Una danza ipnotica che stordisce. Potrei restare a guardarlo per ore.
Ogni tanto, gli
chiedo se ha bisogno di qualcosa, vittima di quel micidiale desiderio di
prendermi cura di lui che ho sempre avuto. Ma lui
sorride, mi prende la mano e mi bacia; e poi sussurra sempre: “Sì…di te!”.
Ho imparato ad
amare Andromeda così com’è, senza pretendere di cambiarlo. Perché sarebbe come
togliergli l’aria che respira.
Ma adesso? Se dovremo tornare, cosa ne sarà di lui? Di noi?...Cosa ne sarà di me?...Non ce l’ho più la forza di
guardarlo andare e non sapere se lo vedrò tornare…Non ancora…Non di nuovo…Non
ora che l’ho finalmente ritrovato…La maschera…La mia maschera si è spezzata…E
io non voglio doverla riparare…
Ok: va bene.
Adesso guardo.
Apro la lettere, e …
Mi ripeto
mentalmente le parole che ho letto. Non può essere vero. Mi guardo in giro,
prendo fiato e aspetto: sento la paura a e la tensione scivolare via
lentamente, regalandomi una sensazione nuova, come un sorriso che parte da
dentro. Felice. Mi sento felice. Perché non lo perderò di nuovo.
Resto
paralizzata con un sorriso permanente da quando ho fissato il mio sguardo su
quel foglio. Da almeno cinque minuti sono bloccata in questo bagno dalle
mattonelle color smeraldo, con la testa che mi ronza e un sorriso ebete. Di
colpo, voglio vederlo. Assicurarmi che è tutto vero. Che niente è venuto a portarmelo
via.
Scendo di corsa
nella hall ed esco senza avvertire nessuno. Voglio vederlo. Prendo al volo la
metropolitana. Casa sua. Voglio andare a casa sua. Conto i minuti che passano;
mi sembra di non arrivare mai. Abesses. Finalmente.
Faccio le scale
di corsa, col cuore che mi scoppia. Ho paura di aprire la porta e scoprire che
lui non c’è più. Che è stato richiamato. O che questi otto mesi sono stai
semplicemente un sogno. Stupendi, Coinvolgenti. Magici. Ma
solo un sogno della mia mente.
Invece, lui è
qui. Come sempre. Sta dipingendo un volto; il volto di
una donna. Il mio.
“Perché?” gli chiedo, appena arrivata.
“Non lo so. Ma mi sono
svegliato questa mattina con il tuo viso in testa.” Si volta verso di
me e sorride. Non ce la faccio più. Mi rifugio nel suo petto e inizio a
piangere. Lui non dice niente. Si limita a stringermi forte e cullarmi.
“Cosa ti succede?”. Mi parla piano, e io inizio a calmarmi. L’ansia, la paura, tutti i miei
fantasmi spariscono, annullandosi nel profumo della sua pelle, nel calore del
suo respiro.
“Ho avuto paura di perderti” ammetto alla
fine. Tiro fuori la lettera e gliela metto in mano. La legge attentamente. Poi
mi guarda. E sorride. Un sorriso bellissimo, pieno di
orgoglio, infinitamente dolce. “
E’ meraviglioso!”mi dice stringendomi di nuovo a sé.
Già,
meraviglioso…Sono stata scelta per uno stage di danza di sei mesi in Russia, a
Mosca…Ho la possibilità di diventare una professionista affermata. Ma…
Rimaniamo
in silenzio per un quarto d’ora. E io non ho paura. So cosa voglio dirgli.
E sono decisa a seguire la mia scelta. Determinata
come poche volte in vita mia. “ Non ho intenzione di fare quello stage. Io non ti lascio di nuovo. Resto qui. Con te”. Ho parlato troppo in fretta. Ma
non volevo rischiare che mi interrompesse.
“Sei mesi in Russai ci faranno bene. E poi, d’estate Parigi diviene troppo caotica”, risponde lui, sorridendo alla sua solita maniera.
Resto basita:
non ha considerato neanche per un momento l’idea che io rifiutassi. Mi siede accanto
e mi abbraccia, attirandomi a sé. “ Non devi rinunciare ai tuoi sogni per me. Hai fatto troppi sacrifici. Non sarebbe giusto…”.
Tace per un attimo, affondando nei miei capelli, e poi
sussurra: “ Già una volta ho creduto di
averti perso, e mi sono sentito morire. Non commetterò due volte lo stesso errore…Tu hai il diritto di
volare, io voglio vederti volare…Ma non ti lascerò fuggire di
nuovo”.
So che Andromeda
non parla mai a sproposito. So che pensa veramente quello che ha detto; e che forse sta già pensando ad un modo per
mettersi in contatto con Crystal, perché ci aiuti quando saremo a Mosca. Ma non m’importa nulla di questo. Mi importa
solo che lui sarà accanto a me; che è disposto a seguirmi mentre rincorro i
miei sogni, donandomi sempre incanto e gioia di vivere.
Mi stringo a lui
e lo bacio, con passione e dolcezza. Non sono mai stata così felice in vita
mia. Perché sono certa che lui non mi lascerà mai sola.
Note:
1) Jardin du
Luxembourg: giardini dell’omonimo palazzo, situati sulla Rive
gauche della Senna, sono fra i più belli di Parigi, frequentati da migliaia di
parigini che, come Hugo, Baudelaire, Verlaine, Balzac, Gorge Sand e molti altri prima e dopo di loro, amano la
tranquilla atmosfera che li pervade. Tra le opere che li abbelliscono, da
citare
2) Montmartre: la
collinetta di Montmartre, il “Monte dei martiri”, ricava il proprio nome dalla
credenza popolare che su quest’altura vi fosse stato decapitato Saint Denis
(Dionigi), primo evangelista della città. La particolare atmosfera del
quartiere attrasse nel secolo scorso non pochi artisti, i quali vi stabilirono
la propria residenza, immortalandolo in celebri raffigurazioni. Ai mostri
giorni la collina conserva angoli pittoresche dai
quali traspare una capitale fin-de-siécle che si annida ancora qua e là nelle pieghe
dell’animo parigino. Cuore di Montmartre è Place du Tertre,
antica piazza alberata che conserva un aspetto paesano, luogo di ritrovo e di
svago grazie ai suoi ristoranti e al gran numero diartisti
e pittori che distillano la loro arte in ritratti, paesaggi e caricature.
3) Basilique du Sacré-Coeur: la basilica
si staglia al di sopra di una monumentale scalinata da cui domina larga parte
della città. I lavori di costruzione della chiesa si protrassero dal1876 al
1914. Costruita in marmo bianco, la basilica è il risultato di un incrocio di
stili, dal romanico al bizantino; col tempo, complice anche la sua posizione
dominante, è diventata meta tradizionale di passeggiate serali.
4) Abbesses: ventesima
fermata della linea metropolitana numero dodici, in direzione Sud-Nord (Mairie d’Issy-Porte de
Ripercorrendo
Una
storia vecchia.
Una
delle ultime che abbia scritto riguardante il fandom
dei Cavalieri. Un ricordo che ho voluto lasciare così,
anche se, adesso, a distanza di quattro anni, potrei/vorrei riprenderla in mano
e cambiare un po’.
Non
so.
E’
un altro stile; non così lontano da quello medio
(tralasciamo i deliri similpoetici, che è meglio) che uso adesso, ma nemmeno
quello delle origini. Una via di
mezzo, credo di poterlo definire.
E
a rileggere mi sono accorta di una cosa.
Di
solito, ci si mette a scrivere fan fiction per tanti motivi. Ma
uno di quelli più gettonati, statistiche sottobanco alla mano, sembrerebbe
essere l’insoddisfazione.
Ecco.
I Cavalieri sono il primo manga su
cui abbia mai scritto. E stranamente mi sono sempre rifiutata di inserire personaggi originali. Mi bastavano
loro. Così.
E’
un discorso che non c’entra molto; anzi: non c’entra affatto.
Risultato del post che sto scrivendo per il blog (ogni momento è ottimo,
per partire).
Comunque.
Una
vecchia storia. Proprio una storia vecchia. Forse un po’ ingenua e
melensa. Troppo melensa (?), ma non
cambio. Mi sembrerebbe di tradire un pensiero di tanti anni fa ( e adesso dove se n’è andato, quel pensiero?).
Con
questo, non vuol dire che rifiuto critiche e appunti. Al contrario! Sono
sempre, sempre, benvenuti (al maschile plurale,
come vuole l’italiano. Ah, il sessimo è anche
linguistico). Magari la riprenderò in mano. Non per
cambiarla. Ma proprio per riscriverla.
Completamente.
Intanto,
una piccola noticina finale. Non è una AU, anche se
dell’ambientazione tradizionale (mitica, fiabesca, eroica?) dei Cavalieri non
ha pressochè nulla. È il seguito, se volete. Una
parentesi dopo Hades; anni, dopo Hades.
Prima
che Kurumada riprendesse in mano il manga con gli
antefatti. Prima che le televisioni giapponesi trasmettessero
L’Overture al Tenkai.
Perdonate,
quindi, le eventuali incoerenze di trama con la continuità (devo decidermi a
imparare l’inglese) ufficiale.
Alla vostra gentilezza