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Autore: funklou    11/04/2014    35 recensioni
Hepsie e Luke Hemmings sono due gemelli, legati da un rapporto unico, figli di un latitante. Hepsie è pura, forte, di pietra. Luke è vissuto, fragile, di vetro. Ma qualcosa non va, ultimamente. Perché Luke, la notte, torna tardi, e l'azzurro dei suoi occhi non è più lo stesso di Hepsie. Ashton Irwin lo sa bene, cos'è che non va.
Tratto dal testo:
"Lo guardo. Lui smette il suo teatro che consisteva nel battere le mani, abbassare il collo ed esplodere dalle risate e ricambia il mio sguardo.
"Hai finito?" gli chiedo, retoricamente e con l'acido nelle parole.
Sulla sua faccia si dipinge un ghigno e "Abbiamo una nuova mafiosetta a scuola" afferma.
Il ronzio che si era creato cessa.
Vedo Luke di fianco a me e so che non vorrebbe vedere ciò che sto per fare. Mi avvicino al ragazzo ed alzo decisa il braccio, ed ho la mano rigida che si sarebbe schiantata contro la sua guancia se solo lui non avesse fermato il mio schiaffo, stringendomi forte il polso, ancora alzato."
[21272 parole] [129kb]
Genere: Angst, Azione, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ashton Irwin, Luke Hemmings, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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A Lorenzo, mio fratello solo di sangue, il mio niente.
Perché il vetro quando si rompe fa male, ed io volevo dirglielo così.

Di pietra e vetro.

Settembre 2000.
Eravamo i gemelli spavaldi, senza un'educazione, con una parlantina instoppabile, troppo vivaci, troppo curiosi. Ma noi, di sicuro, non ci volevamo andare, all'asilo. Parlo al plurale perché io e Luke avevano gli stessi gusti per quanto riguardava il cibo, i cartoni animati e le fiabe, anche se ce ne avevano raccontate davvero poche; ci piacevano gli stessi colori, gli stessi giochi, gli stessi posti. E l'asilo, proprio, non potevamo accettarlo. 
Mia zia, presa dalla disperazione, aprì la porta enorme dell'edificio e, dopo esser stata sulla soglia per minimo quindici minuti con noi attaccati alle sue gambe, scappò letteralmente via, assegnandoci alle povere donne che avrebbero dovuto sopportarci per gran parte della giornata. Tirò velocemente fuori dalla borsetta le chiavi e, correndo verso la macchina, aprì la portiera e la vidi premere il piede con prepotenza sull'acceleratore.
"Certe cose le si ha proprio nel sangue" commentò la maestra, seguendo il tragitto di mia zia. 
Quando l'auto sparì, mi girai verso Luke. Aveva gli occhi rossi e lucidi, le guance segnate dalle lacrime e la bocca semiaperta, che accompagnava un pianto che non sarebbe mai finito. Anche io, probabilmente, lo rispecchiavo parecchio. 
La maestra mi si avvicinò. Poi mi posò le mani sotto le ascelle, contrasse il viso in un'espressione di sforzo e cercò di sollevarmi da terra e prendermi in braccio. Ma non ci riuscì. C'era Luke, ancora scosso, che aveva intrecciato la sua piccola mano nella mia. Sapevo che non mi avrebbe mai lasciata. 
"Luke, lascia la mano di Hepsie" gli ordinò, ma sentii la sua mano stringere ancora di più la presa. 
La donna sbuffò e si arrese. Io andai ad abbracciare quello che era il mio gemello in ogni modo, e "Io vado dove va la mia sorellina" affermò lui, guardandola, torvo.
Quelli come noi non potevano stare rinchiusi in quattro mura, anche se quelle appartenevano ad un asilo. Quelli come noi, non lo sapevamo ancora, ma non avrebbero mai potuto stare lontani dalla libertà.
E lui sarebbe sempre andato dove sarei andata io. 

Settembre 2009.
Ero allo Year 8. Un grande passo per me, ma anche per Luke che, sebbene ripudiasse un po' meno la scuola di me, era piuttosto disinteressato a tutto ciò che ci veniva insegnato. Lo vedevo addormentarsi sul banco e, in un modo o nell'altro, cercavo sempre di coprirlo, o di svegliarlo, prima che i professori se ne accorgessero. Lui trovava sempre un tempo, seppur ristretto, per farmi copiare i compiti o per mettermi in testa qualcosa sulla lezione che avremmo avuto. Ci aiutavamo così, io e lui. 
Eravamo ancora gli stessi. Adesso avevamo tredici anni e li sentivamo tutti. Forse ci sembrava di averne anche di più. 
"Non ci pensare nemmeno, Hepsie" mi intimava lui, quando adocchiavo qualche sigaretta. 
Ci controllavamo a vicenda. Perché, quando si ha a disposizione troppa libertà, si rischia di cadere nell'illegale. Un po' come quei cantanti famosi che c'erano al tempo: diventati popolari e con un sacco di soldi, finivano nel circolo della droga e non ci uscivano più.
Così, io e Luke ci rimettevamo in riga da soli. 
Da soli, da sempre.
Una madre non sapevamo nemmeno cosa fosse. Morta durante il parto, non l'avevamo mai conosciuta.
"Ma non ti manca neanche un po'?" mi chiedevano i miei compagni di classe.
Io restavo ferma per un po', a pensarci. Non capivo perché avrebbe dovuto importarmi. Come fa a mancarmi una cosa che non ho mai avuto e conosciuto?
Invece, Luke me ne parlava spesso. A lui mancava. Mi raccontava di quelle cose che sentiva durante la lezione di Rogers. Mi diceva di aver paura di essere malato o diverso, perché aveva sentito che la presenza della madre in tenera età portasse emozioni, empatia, curiosità, che era fonte di conoscenza, e facilità nell'instaurare relazioni nella vita sociale. E lui temeva di non avere tutte queste cose.
Poi scoppiava a piangere tra le mie braccia e "Mi sarebbe piaciuto conoscerla" mi sussurrava. 
"Mica ci serve una mamma, a noi" ribattevo io. 
Probabilmente gli mancava perché, anche se c'era, mio padre non c'era. Mi sa proprio che eravamo abbandonati a noi stessi. A me non dispiaceva più di tanto. Mi dispiaceva solo quando mio padre tornava a casa sbronzo e si accaniva su Luke. 
Era sempre una sera di quel settembre del 2009 quando, finito di lavorare e rintanatosi in un bar del centro, sentii una chiave cercare di infilarsi nella toppa. 
Ci sono rumori che non si dimenticano. 
E quello era un rumore che avrei sentito rimbombarmi nel labirinto dell'orecchio fino alla mia morte. Perché, quando la chiave non veniva infilata subito, io sentivo già l'odore di alcool nell'alito di mio padre. 
Allora mi alzai. Nel buio, tastai ogni mobile e, trovato il letto, mi infilai sotto le coperte di mio fratello. 
Io stavo crescendo, così come lui. Non mi cambiavo più davanti a Luke, ma ci dormivo ancora insieme, perché non mi andava di perdere questo rapporto che ci regalavamo a vicenda. 
Lui emise un verso di disappunto, ancora immerso nel sonno, quando il rumore delle dita che accendevano e spegnevano tutte le luci per trovare quelle del salotto si mescolavano con il mio battito cardiaco. Stava arrivando e non avevo mai sentito il mio cuore battere così. Batteva davvero forte. Abbracciai Luke, e la porta si aprì. Un pugno sbatté contro l'interruttore e la luce si accese. Io socchiusi gli occhi, alzai la testa e vidi mio padre appoggiato allo stipite della porta.
Captai il suo avvicinamento e "Luke, svegliati!" strillai, scuotendolo più forte che potessi. 
Luke fece uno scatto disumano e, resosi conto della situazione, spalancò gli occhi.
"Cosa c'è, papà?" gli chiesi, col respiro accelerato.
"Spostati" mi ordinò, autoritario. 
E il suo alito che sapeva solo di alcool lo percepii chiaro. Io odiavo vederlo così. Odiavo vederlo incazzato e ubriaco, perché la sua pelle in viso assumeva un colorito che tendeva al bianco, i suoi occhi si tingevano di un nero senza alcuna tonalità e sulla sua fronte si formavano tante pieghette.
Lì bisognava avere paura.
Ma io non mi spostai.
Allora lui ci strappò via le coperte, afferrò la mia caviglia e mi fece cadere sul pavimento freddo. 
"Lasciaci in pace!" urlai, eppure lui ormai aveva già stretto il polso di Luke ed ora lo stava guardando negli occhi.
"Sei uno stronzo" gli soffiò in faccia, e vidi mio fratello tremare sotto la sua presa.
Mi alzai dal pavimento. Gli posai una mano sul bicipite e lo scossi. Mio padre si girò, e quel colore pallido mi fece una paura assurda. Luke, nel frattempo, si mise a gattoni e scese dal letto. Si postò di fianco a me e quello schifo di uomo si affrettò ad andare a prendere la sedia della nostra scrivania.
La alzò.
Passò davvero poco, e quella sedia fu scaraventata addosso a Luke. Spalancai la bocca, ma non potevo chiedergli come stava, se si era fatto male. Non aspettai altro, ed aprii la finestra della stanza. Eravamo al secondo piano, ed eravamo gli unici ad avere un balcone, in quella corte. Così, mentre a mio padre stava salendo un conato di vomito, aiutai Luke ad alzarsi e ad uscire dalla finestra. Quando fummo sul balcone, iniziammo a correre per le scale. Luke si teneva la mano sulla parte dolente e non parlava. Quella notte, gli ruppe il braccio e mio fratello non si lamentò nemmeno un secondo. Non sapevamo che ore fossero, sapevamo solo di dover correre. E le nostre gambe ci assecondarono fino all'alba.
Stavamo fuggendo. Io non lo sapevo ancora, ma da queste cose non si sfugge manco a morire. Dalla malafama, dalla corruzione, dall'illegalità non si scappa, se tutto ciò apparteneva a chi ti ha cresciuto. 

Febbraio 2014.
Certe cose le si ha nel sangue.
Conficco i denti nel labbro inferiore e afferro il bicchiere di vetro che era ancora nel lavandino, in attesa di essere lavato. Mi dirigo ad ampie falcate alla finestra, la spalanco e lo scaravento in mezzo al cortile. Non prendo la mira, perché forse non voglio.
"Pazza!" urla Luke, dopo che il rumore del vetro che si infrange bruscamente risuona tra le mura grigie che ci circondano.
Luke mi guarda, sputa a terra e riprende a camminare. Lo vedo finché non sbuca sul marciapiede, poi me ne ritorno con la testa dentro casa.
Siamo al quinto piano di uno dei tanti palazzi affollati del sobborgo di Brookvale. Qui le ville non ci sono ma, ovunque guardi, trovi solo un'infinità di edifici ammassati. Sono quelli di colore grigio macchiato, o beige sbiadito, coi muri ricoperti di crepe, dai quali si affacciano file continue di finestre minuscole. 
Riconosci, quelli come noi. Ci riconosci dal modo deciso ma lento di camminare, dal modo strascicato ma non intimorito di parlare, dal modo di osservare, con una tale impassibilità da far credere a tutti di aver già visto ogni cosa, di ogni tipo. Perché noi, queste caratteristiche, ce le abbiamo nel sangue.
I denti mi battono per il freddo, ma le mani mi tremano per la rabbia. Sono viola, quasi prive di circolazione e so che, se Luke fosse ancora qua, lo riempirei di schiaffi.
Poi la maniglia si abbassa e la porta si apre. Vedo prima un ciuffo biondo, poi Luke scavalca la soglia e si ferma. Ha le braccia che gli ricadono sui fianchi e gli occhi che cercano i miei. Ha lo stesso azzurro acceso del mio e io so che, se mi guarderà in quel modo per altri secondi, inizierò a piangere. Si smuove da quella posizione, fa esattamente quattro passi e, prima che il mio cuore inizi a dar di matto, mi circonda con le sue braccia, molto più protettive e muscolose delle mie. Sento di non aver più freddo.
"Scusami" mi dice sottovoce, ed io odio quando fa così, perché la sua voce diventa mascolina e sommessa, e mi rendo conto che diciassette anni non sono più tredici, e diciassette sono troppi da controllare. "Devo solo uscire con Calum e poi andiamo al Block. Non farò tardi." 
Mi stampa un bacio in fronte e posso sentire il suo piercing premere contro la mia pelle.
"Fammi vedere cos'hai in tasca, allora" pretendo e lui mi asseconda.
Infila le mani nelle tasche, tenendo i suoi occhi incastrati nei miei e mi porge un cellulare e un pacchetto di Marlboro. Ha l'espressione seria e in questi casi non posso fare niente. Così sbuffo. "Vai, ma non tornare tardi. Domani dobbiamo alzarci presto, non penso che faremo una bella figura presentandoci in ritardo in quella scuola. Non facciamoci riconoscere anche in queste circostanze." 
Luke alza gli occhi al cielo e, prima di uscire un'altra volta di casa, riapre bocca. 
"Non ci voglio andare in una scuola a spese di un mafioso" afferma, impassibile.
Se ne esce, sbatte la porta ed io sento un peso nel petto. 
Non facciamoci riconoscere, mi rimbomba nella testa. Ma Luke non lo capirà mai, questo mio desiderio di scappare da quello che siamo destinati ad essere. Io sono forte, lui no. Io posso farcela, lui no. Ma non andrei mai da nessuna parte senza lui. 
Mio padre, un mafioso, era e lo sarà sempre. Ma non mi voglio far più condizionare da questo. Voglio andare a scuola, avere degli amici, vivere una vita normale. 
Io, Hepsie Hemmings, voglio essere ciò che mi merito.

La sveglia mi suona alle 7:30. Apro piano gli occhi, ma la luce mi acceca ugualmente.
Segno che Luke è già sveglio. 
Mi tiro su e lo vedo in piedi, di fianco al suo armadio, intento ad infilarsi un paio di jeans stretto. Illuminato dalla fioca luce che penetra dal vetro rotto della finestra, mio fratello mi sembra bellissimo. Il petto nudo con esposte cicatrici innumerevoli, lividi bluastri, scottature e tatuaggi lo fa apparire vissuto. 
Mi piace pensare di assomigliargli un po'. Mi dicono sempre di avere i suoi stessi occhi, le sue stesse espressioni, i suoi modi di fare, e questo lo so. Eppure, io non sono vissuta. Non lo sono per niente. La mia pelle è liscia, e sul mio corpo non c'è alcun segno. Io sono pura, Luke no. Lo so perché la notte lo sento arrivare e, mentre lo scruto nel buio, li vedo, quei succhiotti sul collo. 
Mi piacerebbe sapere a chi si è concesso, questa notte. Ma probabilmente non avrò mai il coraggio di risultare così apprensiva. Così mi alzo, gli stampo un bacio sulla guancia, al quale lui risponde con un "Buongiorno", con quella voce roca che io odio tanto. 
Mi preparo in un quarto d'ora, cercando di farmi bella. Vorrei essere come Luke, vorrei esser bella senza neanche impegnarmi. Scendo le cinque rampe di scale, e mi fermo ad aspettare Luke davanti al portone. Lui arriva dopo alcuni minuti, ed io nel frattempo mi prendo il freddo gelido di Brookvale. Ha l'aria distratta e il viso serio, perché so che non vorrebbe darla vinta a mio padre e vivere a spese sue. 
Faccio finta di niente.
Luke si accende una sigaretta, e ci dirigiamo verso la scuola privata della città.
Arriviamo lì dopo pochi passi e la struttura mi sembra grande quanto il mio palazzo. Il che è davvero assurdo. Non osservo tutti i dettagli perché, se sono in questa scuola, è solo grazie ai soldi di mio padre. E i suoi non sono altro che vite spezzate a causa del piacere di possedere sempre più denaro. Chiudo gli occhi e cerco di dimenticare.
Entro nel parcheggio con a fianco Luke, che si guarda spaesato intorno. 
"Quanti borghesotti e raccomandati" lo sento commentare.
Noi, invece, siamo il degrado di Sydney. Ma Luke non lo sembra affatto, coi suoi jeans stretti e neri, le sue canottiere enormi e larghe, e le sue felpe dei suoi cantanti preferiti.  
"Stai zitto" gli dico, e lui alza le spalle.
Sento la campanella suonare, proprio quando sto attraversando la soglia d'entrata. Gli studenti, prima di passare avanti, mi dedicano sguardi interrogativi, critici e curiosi. Perché io non sono come loro, che sono tutti coordinati, con un passo deciso e ordinato, i vestiti abbinati e l'aria felice. Io sono solo me stessa. 
Mi dirigo in segreteria, trascinando con me anche Luke e "Salve" cerco di attirare l'attenzione della signora dietro al bancone. 
Questa mi fa segno con la mano di aspettare, ed io mi giro ad osservare l'interno della scuola: è davvero enorme, con quattro scale che portano al piano di sopra e quattro che portano al piano di sotto. Ne ha tre, di piani. Non oso immaginare la quantità di studenti che la frequentano. 
"Buongiorno signorina" richiama la mia attenzione la stessa donna di prima, che adesso ha smesso di scrivere. 
Io e Luke la guardiamo. "Avremmo bisogno dei nostri corsi."
"Cognome?"
"Hemmings."
Lei inizia a prendere e metter via delle cartelle, ad osservare dei fogli e, solo dopo svariati minuti, ci porge due fogli.
"Ecco a voi, buone lezioni e benvenuti" ci augura con un sorriso.
Luke ricambia il sorriso, io no. Do uno sguardo ai fogli che ci ha consegnato e mi accorgo di non avere le stesse lezioni di Luke. Cerco di calmare la mia voglia di urlare e poggio i fogli sul bancone. La signora mi guarda ancora con quel sorriso e "C'è qualche problema?" mi domanda.
"Sì. Io e mio fratello abbiamo ore e lezioni diverse." 
"E il problema quale sarebbe?"
"Questo."
Lei osserva prima me, poi Luke. Ha una faccia visibilmente confusa ed io mi sto irritando.
"Ha capito?" la sprono a rispondere, alzando di un'ottava il tono.
"Ho capito, ma non si può di certo far qualcosa." 
"Beh, invece deve far qualcosa perché io e mio fratello dobbiamo stare in classe insieme." 
Luke mi si avvicina di più, mi prende il braccio e mi allontana. Solo ora mi accorgo di aver urlato e che attorno a me gli studenti si sono fermati e mi stanno puntando gli occhi addosso.
"Calmati, Hep" mi dice Luke, perché lui è debole e non sa imporre proprio un cazzo. 
Butto i fogli a terra, scosto il braccio dalla sua presa e me ne vado. Ma, proprio mentre sto uscendo dalla folla che mi si era radunata attorno, lo vedo. 
Un ragazzo, sicuramente più alto di me ma meno di Luke, dai capelli mossi e biondi, sta ridendo. Sta ridendo di me, e la sua risata è la cosa più irritante che possa esistere al mondo. Acuta, forte, spinta, quasi femminile. 
Lo guardo. Lui smette il suo teatro che consisteva nel battere le mani, abbassare il collo ed esplodere dalle risate e ricambia il mio sguardo. 
"Hai finito?" gli chiedo, retoricamente e con l'acido nelle parole.
Sulla sua faccia si dipinge un ghigno e "Abbiamo una nuova mafiosetta a scuola" afferma. 
Il ronzio che si era creato cessa. Io mi sento il cuore sbattere contro la gabbia toracica forte come la sera in cui mio padre ruppe il braccio a Luke, e so che questa non è affatto una cosa positiva. Il petto mi si alza ed abbassa velocemente, e sento il mio corpo infuocato.
Vedo Luke di fianco a me e so che non vorrebbe vedere ciò che sto per fare. Mi avvicino al ragazzo ed alzo decisa il braccio, ed ho la mano rigida che si sarebbe schiantata contro la sua guancia se solo lui non avesse fermato il mio schiaffo, stringendomi forte il polso, ancora alzato. 
Lo fisso negli occhi, che sono di un verde oliva mischiato all'ambra. Io questo colore non l'ho mai visto in nessuno nel mio palazzo, nella mia via, nel mio sobborgo. Sono luccicanti, acquosi, rari, ipnotizzanti. Questa tonalità non esiste nel degrado. So che questo ragazzo potrebbe rubare tutto ciò che sono solo guardandomi con quell'ambra.
Ora inizia a farmi male, percepisco le ossa che scricchiolano. Poi Luke mi si avvicina e "Ora basta!" ordina, staccando la mano del ragazzo dal mio polso. 
Mi faccio più indietro, e Luke e quello stronzo mi guardano. Mi fanno male, queste tonalità di colori. Questi occhi lucidi, così giusti e mai visti, mi fanno male perché capisco che io non sarò mai come loro e non sarò mai un pezzo di un qualcosa che non sia il degrado. 
Mi tremano le mani e questo vuol dire che non c'è rimedio alla mia rabbia. Così me ne vado, con ancora il ghigno di quel ragazzo stampato in testa. 
Torno a casa perché non posso fuggire da ciò che sono e ciò che sono destinata ed obbligata ad essere. 
Alcune cose le si ha nel sangue.

Luke rincasa dopo un'ora. Sento il suo passo strascicato attraversare il salotto e vorrei solo che camminasse più deciso, perché sono proprio i passi che eseguiva nostro padre. Lui non si impegna nemmeno a scappare dal suo stesso sangue, a lui non importa, non ha voglia di lottare. Lo vedo dal divano mentre si toglie la felpa e la maglia e butta tutto sul tavolo. Si osserva un po', poi sputa, senza neanche farci caso, nel lavandino. Lo fa quando è incazzato. 
"Dici tanto di non volerti far riconoscere e poi fai di tutto per restare sulle orme di nostro padre" mi rinfaccia, con un tono calmo, dall'altra stanza.
Io non rispondo perché ha ragione.
Poi mi passa davanti, non degnandomi di alcuno sguardo.
Siamo gemelli, ma quando fa così mi sento la persona più diversa da lui. L'ho ferito, comportandomi così, e nemmeno ci ho pensato. 
Siamo così, io e lui: di pietra e vetro.

Quella sera, Luke era tornato a casa alle quattro di notte. Io l'avevo aspettato sveglia, analizzando ogni rumore. Ma i palazzi di questo sobborgo sono troppo movimentati, troppo urlanti, per riuscire ad isolare i passi di mio fratello. Siamo tutti uguali, qui. 
Poi la serratura era scattata e Luke, come ogni notte, era tornato in camera. Io avevo chiuso gli occhi, presa dall'orgoglio, perché non volevo che sapesse della mia notte insonne. Avevo sentito il suo piercing premere contro la mia fronte, si era spogliato e si era sdraiato sul letto.
Questo è ciò che successe, ma anche quello che accadde per tutta la settimana. Ha iniziato a parlarmi di meno, e non so se il motivo sia quella piccola discussione avvenuta sette giorni fa. Non mi guarda più in faccia, ed io non so più il colore dei miei occhi. Io non posso sopportare che Luke diventi qualcosa che non sia me. 
Qualcuno suona il citofono ed io spero solo che non siano i carabinieri che mi svelino ciò che Luke sta facendo a mia insaputa. Mi affaccio alla finestra e vedo Calum, quel suo amico d'infanzia con cui non ho mai parlato. 
"Può scendere Luke?" grida dal cortile per farsi sentire.
"Non c'è" gli rispondo, nascondendo tutta la mia preoccupazione. 
Lui abbassa la testa, io la alzo. Lui se ne va, io prego Dio che mi dia la forza di restare. 

Quel lunedì, mi sveglio con l'intento di andare a scuola. Cammino al buio nella camera e mi preparo in bagno. Faccio tutto in religioso silenzio, perché Luke è di là che dorme profondamente. Probabilmente è in quel letto da nemmeno due ore.
Resto lì, davanti allo specchio, e mi accorgo di vedere solo me stessa, e non più anche Luke. Mi sciacquo la faccia due, tre volte. E quella sensazione non va via. Esco dal bagno sbattendo la porta e, proprio quando sto prendendo lo zaino, dalla stanza esce Luke. 
Mi guarda, mentre si gratta il fianco, con gli occhi socchiusi e stanchi. Un paio di boxer è tutto ciò che ricopre quel corpo che è testimone delle sere di mio fratello, che riporta ogni graffio e segno. 
"Hep, dove vai?" mi domanda, con quella voce che non lo lascerà più.
Io non rispondo e gli esamino il taglio che ha al petto. 
"Non mi fa male" mi dice lui, seguendo il tragitto del mio sguardo. 
Faccio un cenno con la testa, che non so neanche io cosa voglia significare, e me ne esco di casa. Per ogni rampa che faccio, sento il cuore farmi male. Sono fuori dal cortile, quando penso di volermene tornare da Luke. Mi fermo.
Io ci vorrei tornare da te, Luke. Ma il colore dei tuoi occhi è un azzurro diverso dal mio, ora. 
Così mi allontano definitivamente e cammino, cammino fino a quando non vedo quella che adesso è la mia scuola.
L'aria che respiro è più leggera, rispetto a quella della mia via. E' tutto nuovo, giusto, mai visto. Resto appoggiata al muro della struttura, aspettando la campanella, che suona dopo qualche minuto.
"Ehi, ma lei è quella..." sento dire quando passo di fianco alla segreteria.
Faccio finta di niente e, dopo aver tirato fuori il foglio con gli orari, mi accorgo di avere storia alla prima ora. Sbuffo, perché storia è la materia più noiosa al mondo.
Salgo le scale, alla ricerca della mia classe. Mi guardo intorno, rendendomi conto della grandezza di questo posto, e capisco che non arriverò mai in tempo di questo passo. Così mi avvicino ad una bidella, che sembra piuttosto occupata a gridare dietro a qualcuno.
"Mi scusi" la chiamo, e lei si gira e si ferma per qualche secondo a guardarmi. "Sa dirmi dov'è la 4C?"
La donna congiunge le sopracciglia e, sempre con quella smorfia, "Sta lui in quella classe, fatti accompagnare da questo disgraziato, così almeno evita di sporcare il pavimento che ho appena lavato!" sbraita, indicandomi qualcuno.
E io lo guardo anche, quel qualcuno. Ha il viola e il nero mischiato tra i capelli, la pelle che definirla pallida sarebbe sminuente, e gli occhi, risaltati dalla matita, in cui verde e azzurro fanno a gara per dominare. E mi passa per la testa che questo qualcuno abbia anche una bella bocca. 
"Michael Clifford" mi dice, porgendomi la mano.
Michael Clifford risalta.
"Hepsie Hemmings." 
Gli stringo la mano e mi immergo in quello stravagante colore. 
"Ah, ma tu sei la tipa tosta che ha provato a dare uno schiaffo ad Irwin!" trilla, guardandomi con un misto di stupore e divertimento. "Penso se la sia legata al dito. Sarà anche il mio migliore amico, ma è proprio fuori di testa" aggiunge e la bidella, dopo essersi lasciata sfuggire un commento di approvazione, se ne va. 
A me, quel cognome dice qualcosa. Però non dico niente, faccio segno con la mano di lasciar perdere, perché di quell'Irwin non voglio sapere niente, e "Andiamo in classe, ché forse è meglio" consiglio.
Michael si passa una mano tra i capelli, annuisce e mi fa strada.
La 4C è una classe come tutte le altre. Fogli e cartelloni attaccati al muro, banchi sparsi in uno stato confusionale, lavagna con scritte tralasciate dalle bidelle... Ed io mi sento semplicemente stretta.
Michael entra prima di me, io lo seguo e, non appena metto piede dentro, venticinque paia di occhi si posano su di me. Me ne frego. Perché io sono di pietra, e la pietra non ammette emozioni.
"Buongiorno" mi limito a dire, passando davanti alla cattedra della professoressa di storia.
Quest'ultima distoglie per un secondo gli occhi dal registro, mi sorride e "Benvenuta" mi saluta. 
Mi siedo in un banco a caso e, con mio grande stupore, Michael prende posto di fianco a me. Posa lo zaino sul banco, scivola sulla sedia, assumendo una posizione più comoda e, dopo aver tirato su il cappuccio, incrocia le braccia al petto. Chiude gli occhi ed io lo esamino sbalordita.
Questo Clifford è buffo e mi intriga. Mi dà l'idea di uno che faccia un po' ciò che gli pare, ma è anche innocuo. 
La professoressa si alza, dà un'occhiata a Michael, alza gli occhi al cielo e inizia la sua lezione. Io, nel frattempo, mi becco gli sguardi incuriositi dei miei nuovi compagni. Allora mi viene in mente che sarebbe tutto più facile fare come Michael e dormire, per non affrontare così direttamente il mondo. Penso anche a Luke, che mi sta poco a poco martoriando. 
Lui è il vetro: è fragile e basta cadere, per rompersi. E quando si rompe, le sue schegge fanno male, e lui nemmeno se ne accorge. 
L'ora di storia passa. Così come passa quella di matematica, di storia dell'arte e di chimica. Seguendo gli orari che mi erano stati consegnati una settimana fa, la mia giornata scolastica finisce qua. La campanella suona e tutti i miei compagni si affrettano ad uscire dall'aula per non perdere il pullman.
Michael è ancora qui, seduto, ed io non so se stia ancora dormendo o no. Sto per scuoterlo con la mano, quando una voce irrompe nella classe, ormai silenziosa.
"Ci penso io" afferma, deciso.
Mi giro di scatto, e un po' il cuore fa qualche battito in più. Quello che vedo è il ragazzo dell'altro giorno, che ho capito chiamarsi Irwin. Mi stringo nelle spalle, perché non mi importa realmente. Mi metto lo zaino in spalla ed esco, passando di fianco a lui. 
Ma io lo sento, quel bisbiglio.
Mi volto un'altra volta.
"Ripetilo" gli ordino, fredda.
Lui sorride e so che lo farà. "Malafemmina" sputa con una cattiveria che non capisco.
Rimango ferma lì, in mezzo al corridoio, ad osservare quel verde ambra dei suoi occhi. La mano mi prude e l'unica cosa che ora vorrei fare è fargli del male fisico, per stabilizzare il mio mentale. 
Michael si sveglia.
Penso alle parole di Luke e controllo me stessa. Così me ne vado, fuggendo un'altra volta da ciò che sono.
"Scappa, scappa come fa quel latitante di tuo padre!"
E qua mi blocco, e i miei passi si interrompono. Ci guardiamo, in silenzio, e mi sembra che tutto si sia improvvisamente sospeso. Non so se dar per scontato che sia vero, oppure se negare ciò che ha detto e farlo passare per assurdo.
"Merda" sussurra poi. "Non avrei dovuto."
Io sto lì, con le palpitazioni e le lacrime agli occhi, a fare i conti con chi sono.
Questo Irwin sa della latitanza di mio padre. Questo Irwin, quindi, sa. 
Io voglio solo sapere quanto dista da me quell'uomo che ha il mio stesso sangue, o con che nome va in giro adesso. Così risalgo le scale, cammino verso lo sconosciuto e "Dov'è?" gli chiedo, fredda e impassibile.
E sta semplicemente zitto, mentre non stacca gli occhi dai miei. Sento il mio azzurro consumarsi.
"Ne fai parte?" gli domando ancora.
Sul suo viso si forma un sorriso di scherno, che dura massimo due secondi, perché poi si trasforma in una maschera seria. E' un attimo: infila la mano nella tasca, cerca qualcosa, ed una punta in metallo si intravede dal tessuto in jeans.
"Ashton, non fare il coglione" interviene Michael, che lo affianca.
Ha un coltellino, che ripone immediatamente al suo posto. Faccio lo stesso un passo indietro, perché questo ragazzo è pericoloso più di quanto pensassi. Guardo sconcertata Michael, e lui scuote la testa, come a dire che è un caso perso. 
"Stai lontana da questa questione" mi intima Ashton.
Lo oso guardare un'ultima volta. Poi torno a casa, e scopro un nuovo colore del degrado: il verde oliva mischiato all'ambra.


Luke mi abbraccia forte, come non faceva da tempo, prima di lasciarmi ed entrare nella sua classe. Oggi ha deciso di venire anche lui. Io vedo gli sguardi affamati delle ragazze della scuola, e mi viene voglia di non lasciarlo più. Luke è di vetro, vissuto, bello. Luke è così bello che ogni tanto mi viene proprio da piangere. Ho deciso di non dirgli niente di Ashton, perché lo farei preoccupare per niente. 
"Luke!"
Lui si gira, con quell'aria distratta che mi fa sorridere.
"Ci vediamo a casa." 
Ed entro nella mia classe, prevedendo già un Michael Clifford con la testa sul banco. E infatti è lì, ma io non ho il coraggio di sedermi vicino, non dopo ieri. Così prendo posto in qualsiasi altro banco, e mi ritrovo di fianco ad un ragazzo di cui ricordo il nome. Si chiama Stephen e non guarda in faccia a nessuno. Sembra vivere solo per se stesso ed io le conosco, queste persone, sono quelle che non ti rivolgeranno mai la parola per prime. A me sta bene così. 
Intanto fa la sua entrata la professoressa di matematica, e a me cade l'occhio su Michael. Mi fissa anche lui. Non sono mai stata una molto empatica, però quel verde che gareggia con l'azzurro so che vorrebbe dirmi qualcosa. Lo so perché non sono tranquilla ora, perché quello sguardo mi trafigge così tanto che sono costretta ad abbassare il mio. 
E la professoressa spiega, spiega i sistemi di disequazioni come se qualcuno la stesse realmente ascoltando. Io sto ferma lì, occupata a non guardare alla mia destra, senza muovermi di un centimetro, e quasi mi sembra di essere per un secondo Stephen.

La campanella suona. Riecheggia come il suono più bello che io abbia mai sentito, e quella a cui ho assistito è stata la più interessante lezione di sempre. La professoressa esce e saluta. Suonano altre cinque campanelle, ed entrano ed escono professoresse dello stesso numero. Michael sta lì, con la testa sul banco rivolta in mia direzione. Ogni tanto chiude gli occhi, poi li riapre, come se si fosse imposto di non addormentarsi.
Striscio la sedia sul pavimento, metto tutto nella mia borsa e me ne vado. Faccio in tempo a raggiungere solo il corridoio, perché qualcuno mi prende per il braccio e mi ferma. Non smetto di camminare, so già chi è.
"Puoi ascoltarmi un attimo?" mi chiede, ma appare più come una supplica.
"Per favore, Michael..."
"E' vero che sei figlia di un latitante?" domanda, abbassando la voce.
Stringo i denti e prendo un respiro profondo, continuando per la mia strada.
Michael sbuffa e "Ascolta," continua a non demordere. "mi dispiace per la scena di ieri. Ma io non sono come lui ed Ashton non è sempre così."
A me non importa di ciò che ha da dirmi, perché non voglio avere a che fare con gente che è tutto ciò da cui sto scappando.
Michael lascia trascorrere del tempo in silenzio, mentre scendiamo le scale e poi la mette giù così: "E' figlio di un pentito."
Mi fermo, lo guardo. E lui sembra proprio sicuro di ciò che ha detto. 
"I clan calabresi si sono stanziati in Australia già tempo fa, agevolando i gruppi già presenti qua. Suo padre si occupava del traffico di ogni tipo di droga, ma poi, quando è stato preso, ha deciso di collaborare con la giustizia ed ora è a tutti gli effetti un pentito. Penso sia per questo che conosce tuo padre." 
Questa confessione mi fa tremare le gambe. La mafia mi spaventa. Ma trattengo il fiato, faccio finta di niente. 
"Sai tante cose." 
E Michael annuisce. "Ma tu non dirai niente. Sono cose importanti. Te le ho dette solo per stare attenta."
Mi chiedo come faccia un figlio di un pentito ad essere come Ashton, così insolente, pericoloso, inquietante. Dovrebbe essere pentito, dovrebbe rinnegare ciò che ha fatto il padre.  
Faccio come se non fosse successo niente e riprendo in direzione dell'uscita. Vorrei andarmene a casa, ma c'è qualcosa che non va. Mi sembra quasi di sentire il rumore del vetro che si infrange. Mi giro verso il corridoio a sinistra dell'uscita e capisco.
C'è Ashton, appoggiato al muro, di fianco ai bagni, che parla, ride, gesticola. E la persona con cui sta parlando è mio fratello. Mi viene voglia di urlare il suo nome e farlo rimbombare dentro di me, come se Luke potesse stare con me un altro po'. 
Invece no. 
Mi avvicino lentamente e, quando capisco di essere ad una distanza adeguata, gli dico la stessa frase di questa mattina: "Ci vediamo a casa." 
Luke pare proprio prendersi un bel colpo, sorpreso dalla mia voce e presenza vicina. Io spero che capisca. E sembra proprio farlo perché, dopo un primo momento di disorientamento, il suo volto si tramuta in un'espressione di puro panico. 
Ingoia la sua saliva e "Va bene" mi dice.
"Cos'è, ti controlla la tua sorellina, Hemmings?" domanda Ashton retoricamente, con quel ghigno cucito sul viso. 
La rabbia mi acceca. Mi viene una gran voglia di sputargli addosso, e infatti lo faccio. Ashton rimane per i primi secondi sconcertato, poi sembra riprendere contatto con la realtà. Si alza il maglione, portandoselo sulla faccia e si pulisce dalla mia saliva. Mi guarda inespressivo e a me questa impassibilità inizia a stare scomoda. Vorrei che facesse qualcosa. Vorrei che reagisse. Invece Ashton non fa niente. Lo sguardo mi cade lì, altezza della tasca, e vedo la sagoma del coltello. Mi chiedo perché non lo stia prendendo. Poi la vedo, la mano di Luke, che gli stringe il polso per placarlo da qualunque cosa lui vorrebbe fare. 
E dopo questa visione, sento il viso andarmi a fuoco. Non mi va giù, mi viene quasi da piangere. Ma non lo farò. 
"Vai, adesso vengo" afferma Luke. 
Io semplicemente mi giro e me ne vado. Me ne vado a casa pensando al fatto che non ho mai visto mio fratello così autoritario, così forte. Diciassette anni iniziano a diventare davvero tanti, e mi fanno un po' paura. Capisco che non servirà tirargli addosso bicchieri dalla finestra, urlargli addosso, o picchiarlo. Capisco che Luke sta andando avanti e non mi sta aspettando. E a casa mi addormento così, con qualche lacrima riuscita a sfuggire al mio orgoglio. 

Mi sveglio di soprassalto, sentendo dei rumori provenienti dall'altra parte della stanza. Socchiudo gli occhi, e vedo Luke tapparsi la bocca probabilmente per non imprecare. Vedo il letto spostato e capisco che ci è appena andato addosso, e mi esce una piccola risata. 
Luke si gira, e si avvicina al mio letto zoppicando. 
"Fai un po' di spazio."
Io mi faccio più in là, mentre lui si intrufola sotto le coperte. E' senza maglietta, e il contatto con la sua pelle fredda mi provoca i brividi. 
"Ma non hai freddo?" gli chiedo. 
Chiude gli occhi e scuote la testa, però la coperta se la tiene su lo stesso. Poi mi abbraccia, ed io lo osservo in volto. 
"L'hai disinfettata?" gli domando, riferendomi ad una scheggiatura sopra al sopracciglio. 
Luke scuote un'altra volta il capo. 
"Se te l'ha fatta quello stronzo di Ashton giuro che... E' figlio di un pentito, tu lo sap-" ma mi ferma, ponendomi il suo indice sulle labbra.
"Stai tranquilla."
"No, seriamente, Luke. Devi dirmi cosa sta succedendo, perché... Perché sì." 
E qui Luke apre gli occhi, e prende a scrutarmi con le sue iridi azzurre.
"Perché? Continua."
Mi sento totalmente fragile, ora. "Perché sei mio fratello, e non voglio perderti così. Non voglio che cambi qualcosa" ammetto, e un po' me ne vergogno.
Luke non dice niente. Scuote la testa, con un piccolo sorriso.
"Sei scema, tu" mi dice, e poi si perde a guardare il soffitto. Io lo imito, mentre penso che non importa se non capirà questo mio senso di smarrimento senza lui, questa mia anima ansimante sorvegliata dalla paura di perderlo.
Passano minuti, e Luke si alza. Guarda l'ora: sono le 21:33. Raggiunge il suo letto, sul quale c'è la sua felpa con la scritta Haterproof. E' la sua preferita, lo so. La indossa e "Oggi papà ci ha spedito altri soldi" mi informa. "L'ha fatto sotto un nuovo nome, chissà quanti ne avrà cambiati in questi ultimi anni."
Io non ho nulla da ribattere. Lui se ne va in bagno, si sistema i capelli, si spruzza un po' di profumo, si fissa negli occhi. E dopo torna, torna da me, e mi guarda. 
"Comunque, mi dispiace per oggi. Non badare ad Ashton. Io ora però esco, non aspettarmi. E se puoi domani mattina svegliami, provo a fare presenza a scuola."
Va bene, non fare tardi. Un bacio sulla guancia. Ciao, Hep. Ciao. E Luke esce di casa. 
Io mi tolgo in una frazione di secondo le coperte, mi alzo, mi vesto con un'enorme felpa che copre parzialmente i leggins, e non mi importa più di niente. Mi sembra di correre per non sfregiarmi la pelle coi pezzi di vetro rotto. Ed esco di casa, ed accellero il passo coi battiti a mille. Il cortile non è mai vuoto. C'è sempre qualche ragazzino con un pallone da calcio o da basket, che mi lanciano sguardi che trapassano l'anima. 
Ma non ho tempo da perdere.
Seguo Luke, per evitare di perderne le orme in futuro. Quando lo vedo, sta già svoltando nel vicolo a sinistra e scompare. Ha una sigaretta in bocca e il cellulare in mano. Sto sui suoi passi, cercando di non badare al freddo che mi si insinua dentro. 
Cammino fino a quando Luke non si ferma, fino a quando non arriviamo davanti ad un posto con l'insegna Block. Un posto già sentito. Poi lo vedo entrare, sicuro, e senza badare a tutto ciò che ha intorno. 
Mi fermo ed osservo a lungo il locale. Non lo so più, se voglio davvero arrivare alla verità. Perché la verità spesso è pericolosa. Fisso un'ultima volta il punto in cui mio fratello è sparito e sì, decido di poter sopportare un'altra verità scomoda. Allora entro dentro al Block, e non mi sorprende niente. E' un posto come tutti gli altri: flash e luci che ti tolgono la capacità di spostarti decentemente, una pista da ballo, le persone così appiccicate da soffocare l'evidente solitudine che primeggia sempre. E c'è puzza, puzza di sudore, di baci scambiati troppo velocemente, notti bruciate, alcool come tentativo di dimenticare. Io lo odio, questo odore. Io mica lo vivo così, il mondo. Forse non lo vivo e basta. 
Mi passa un ragazzo di fianco e mi ritrovo un bicchiere in mano, contenente un liquido arancione. Ne passa un altro e mi guarda sorridendo, ed io mi sento scema, perché credo di avere un aspetto piuttosto spaesato. 
Intanto Off The Night, straremixata, invade tutto il locale, e il mio battito cardiaco si sincronizza con il suo ritmo. Bevo l'alcool nel bicchiere, giusto per levarmi questo senso d'ansia che mi corrode e cerco Luke con lo sguardo. Qualcuno mi urta, senza chiedermi scusa, e a me non importa. Luke non c'è. Mi inoltro tra la gente, ricevendo tocchi poco casti, e quei capelli biondi non sono da nessuna parte.
This is the rhythm of the night, the night...
Destra, sinistra, Luke non c'è.
"Stai bene?" mi chiede una ragazza.
Annuisco a malapena. Setaccio tutto il posto, alla ricerca dell'unica persona che vorrei che fosse qui. 
This is the rhythm of my life, my life...
Il pavimento sotto di me trema. Raggiungo un posto più appartato, dove c'è anche la porta secondaria. Un ragazzo, sicuramente non più grande di me, la spinge, ed io lo seguo. Mi ritrovo finalmente al di fuori di quell'inferno, e mi accorgo solo ora che no, il mio cuore non stava seguendo il ritmo della canzone, perché i battiti sono più accelerati rispetto alla melodia.
Dopo tanti anni, io, Hepsie Hemmings, credo di aver paura. 
Nel frattempo, quel ragazzo spalanca una porta bianca e malridotta, segnata da un cartello vietato entrare. Fa sempre parte della stessa struttura, ma è situata verso la fine del muro. 
Aspetto che il tizio se ne sia andato, e mi avvicino alla porta. Mi affaccio direttamente su delle scale, che sembrano risalire al medioevo, che potrebbero cedere da un momento all'altro. Le pareti sono grigie, piene di crepe e scritte. Qui la musica arriva ovattata, ma riesce comunque a far tremare i muri. In compenso, c'è odore di vecchio, di chiuso. La luce non riesce a penetrare, e tirando conclusioni posso dire che questo strano posto sia alquanto inquietante.
Ma non fa niente. Scendo le scale, fino ad arrivare ad un corridoio poco illuminato, silenzioso, circondato da vari tubi. Credo di essere nel piano sotto del Block. Svolto a destra, e davanti mi trovo un'altra porta bianca, uguale a quella di poco fa. 
Sento dei grugniti, dei gemiti, dei rumori strani, degli oggetti che cadono a terra. La curiosità prevale sulla paura, e allora poso la mano sulla maniglia. L'entrata si apre di poco. Giusto una fessura. 
Dalla mia postazione vedo ben poco: alcune sedie in plastica messe a casaccio, ancora pareti crepate e per terra due spranghe, una chiave inglese e vari oggetti in ferro. Sussulto, ma giusto poco, quando il verso strozzato di qualcuno mi raggiunge l'udito. 
"Continua, cazzo!" grida quel qualcuno. "Quando ti trovi davanti ad un avversario per strada e cadi a terra, non ti risparmia. Continua, fino anche ad arrivare a massacrarlo! Cristo santo." 
Ed ora quella voce mi è chiara. Quella è la voce del diavolo, quella è di Ashton. 
Un altro gemito. 
E i miei occhi si inumidiscono, al pensiero di un ragazzo per terra che continua ad essere malmenato. Apro di più la porta, e la mia vista si allarga. A terra c'è un ragazzo, che si tiene una mano sul collo. Sta soffocando, ma nessuno lo aiuta. In piedi, non poco lontano, ce n'è un altro, e c'è Ashton. Ashton che si guarda intorno, ma attorno ci sono solo altri giovanotti, messi a coppie, che si tirano pugni in pancia a turno. 
Deglutisco piano. 
Poi Ashton posa gli occhi su qualcuno di preciso. Seguo il suo sguardo, e mi sembra di non ricevere più ossigeno. Sento il cuore battere piano, ma forte. 
Perché quello in fondo alla palestra, che pare voler ammazzare un sacco da boxe, è mio fratello. Ashton lo raggiunge. Gli dice qualcosa, e Luke si ferma. 
Quello è mio fratello, continuo a ripetermi mentre Luke riprende. Colpire con il palmo della mano, gomitata, toccare, tornare indietro, spostarsi e ripetere il tutto. Me lo sono imparato a memoria. Continua a girare intorno al sacco in questo modo, con Ashton di fianco che lo osserva.
E' una furia, Luke. Paonazzo in viso, sudato in tutto il corpo, lui non si ferma. Respira faticosamente, si muove su un piede all'altro, fissa in cagnesco il sacco. 
Ho scoperto qualcosa di davvero troppo sporco.
"Porca troia!" e mi sembra di averne appena ricevuto la conferma. 
Dopo aver tirato quell'urlo, Michael si alza da una sedia. 
Michael?
E sta camminando sicuramente verso di me. Il corpo non me lo sento più. Alcuni ragazzi si fermano, e girano le loro teste. Chiudo la porta rapidamente, con le mani che sembrano non rispondere ai miei comandi. Ho il panico che inizia a nutristi di me mentre inizio a correre per il corridoio. Mi concentro sui passi, a respirare correttamente, a battere sul tempo Michael. Sto per salire sul primo gradino quando mi sento tirare all'indietro e sarei caduta, se solo lui non mi avesse presa in tempo. Mi prende dalle spalle, mi sbatte al muro. 
"Cosa cazzo ci fai qua?!" sbraita, e la sua voce si propaga per tutto il sotterraneo. 
Io non so cosa rispondere. Vorrei urlare tante di quelle cose che me ne sto zitta. Michael ha gli occhi puntati nei miei, non ha intenzione di smetterla. Il suo petto segue il mio, alzandosi ed abbassandosi velocemente. 
"Rispondimi!" 
E penso di non aver mai visto questo suo lato, che non riesce però ad incutermi paura. Ora chiude gli occhi, prende un respiro profondo, forse per calmarsi. Invece tira un urlo, questo sì che è pauroso, e il suo pugno va a sbattere contro il muro. Parte della vernice cade a terra, e alcune crepe si espandono. Io trasalisco, e lo osservo mentre fa un passo indietro. Le sue nocche sanguinano. 
"Sei un pazzoide!" 
"Sarò quello che vuoi, ma tu non puoi stare qui!" 
E, detto questo, mi afferra prepotentemente il braccio con la mano sfregiata e mi riporta con forza nella stanza di prima. Le nocche insanguinate sporcano la mia felpa, ma non dico niente. Penso che vorrei solo prendere Luke e portarlo a casa con me. 
Michael mi conduce all'interno e passiamo al centro. Tutti i ragazzi mi fissano, abbastanza atterriti, poi riprendono la loro sessione di calci e pugni e gomitate. Luke è ancora lì, sudicio di sudore, che scaglia tutta la forza che ha sul sacco. Michael mi porta vicino a lui, e quindi anche vicino ad Ashton. Io non ho paura. 
"Ci stava spiando" esordisce Michael, attirando l'attenzione di Ashton. 
Io lo colgo, quell'attimo di sorpresa nei suoi occhi verdi ed ambra, non appena mi vede. Poi la sua espressione si trasforma e prende le somiglianze di quelle di mio padre quando tornava ubriaco ed incazzato. Ma io non voglio che Ashton diventi un fantasma del mio passato. No. 
"Lasciala. Ci penso io" afferma, serio. 
Luke adesso si è fermato. Gli ci vuole qualche secondo per mettere a fuoco la situazione, per mettere a fuoco me. Michael si allontana. Mio fratello cammina veloce verso di me, infuriato, e mi prende il viso in una sua mano. 
"Hepsie!" grida, digrignando i denti. "Che cazzo fai qua? Chi ti ha fatta venire?" 
E mi passa per la testa di non averlo mai visto così, mai così severo o incazzato con me. 
"Lasciala, me ne occupo io" ribadisce Ashton. 
Luke si gira, lo fissa intensamente. Poi ritorna da me. 
"Chi ti ha fatto questo?" mi domanda, più a bassa voce, posandomi la mano sul fianco. 
"Niente. Non è mio sangue." 
Sembra tirare un sospiro di sollievo, come se ora si potesse fidare di loro. 
"Dove la porti?" chiede infatti, guardando me, ma rivolgendosi ad Ashton. 
Io perdo un po' la percezione di tutto ciò che ho intorno. Lo sto vivendo, tutto questo casino, ma non ne sono più molto consapevole. Come se fossi la spettatrice di me stessa. 
"In sala" suggerisce Ashton.
Luke ci pensa un po'. Ma non faccio niente, io, perché il contatto con il mondo mi sembra quasi inesistente. 
"Va bene. Ma fatele una sola cosa e... Insomma, non fatele del male. Mi cambio e la porto via. Risolveremo più tardi" dice mio fratello, e vedo Ashton annuire. 
Intanto il rumore dei gemiti, dei pugni sugli addominali e tutto il resto non lo sento più. A volte, da quanto la realtà è cruda, la si rifiuta. 
Luke mi guarda un'ultima volta, come a rimproverarmi. Io, invece, lo guardo come a dire: "Le cose ce le abbiano nel sangue, Luke, lo sappiamo. Ma a volte le si può nascondere, e tu non lo stai facendo."
Poi Ashton mi si avvicina, mi posa una mano dietro alla schiena e mi conduce nella stanza collegata a quella in cui ci si allena. E' la sala. E' buia anche questa, illuminata solamente da una piccola lampada sul tavolo, messo al centro. Probabilmente è il posto in cui si riuniscono per discutere di qualcosa di cui io non voglio sapere. Alle pareti non c'è appeso niente, e sono bianche, così come il pavimento. Ci sono quattro siede intorno al tavolo, ma Ashton non sembra intenzionato ad usarle. 
Mi ci vuole davvero tanto, per capire cosa è appena successo. Quando mi si irradia il dolore alla schiena, capisco che mi ha sbattuta al muro, con più forza di Michael. Chiudo gli occhi, e mi sento priva di forze. Ashton è proprio davanti a me, più vicino che mai. Io non faccio niente. Senza indugiare, le sue labbra catturano le mie. Lo fa con prepotenza, con forza, con rabbia. L'unica mia reazione è solo il battito cardiaco a mille, forse per lo stupore, e questo congelamento che provo alle gambe. Non me le sento più. E lui continua, fino ad approfondire il bacio. Ha le labbra screpolate, e un sapore di fumo di sigarette misto a qualcosa di dolce. La sua lingua prende ad inseguire la mia, sempre con la stessa ferocia. Il suo respiro sbatte prepotentemente sul mio viso, ed io vorrei far qualcosa, qualsiasi cosa, ma non posso. 
Non posso perché, nonostante tutto, penso che questo sia forse il bacio più erotico che mi sia mai stato dato. 
Mentre la sua mano si posa sulla mia guancia, la mia si insinua con un gesto automatico tra i suoi capelli, e mi sembra che sprigionino un profumo buonissimo, che mi urla di non andarmene per continuare a respirarlo. 
Quelli che sento dopo sono due pugni sulla porta. Ashton si stacca immediatamente, si sistema i capelli, cancellando ogni mia, o forse nostra, traccia. Io sto ancora lì, attaccata al muro, quando Michael fa irruzione nella sala. Scambia due parole silenziose con lui, e poi mi riporta fuori, mi riporta da Luke. 
"Non può girare come se nulla fosse, ora che sa" ammicca Ashton, rivolgendosi a mio fratello. 
"Non sa. E comunque sta con me." 
"Tu lo sai in che casini ci mettiamo se apre bocca, vero? Perché quelli potrebbero scendere qui giù con le armi e ammazzarci tutti quanti. Ché hanno le armi, quei figli di puttana."
"Stai zitto, cazzo. Risparmiati queste cose davanti a mia sorella."
A me non viene fuori proprio nessuna parola. Mi sento ubriaca. Mi sento staccata dal mondo e messa in una bolla. Non collego niente. Fisso solo Ashton, con quel cipiglio di preoccupazione e serietà, e non fa niente di tutto il resto.
"Ormai potremmo dirle tutto" si immischia nella discussione Michael. 
Passano alcuni secondi. 
"No," Decreta infine Ashton. "non possiamo."
E infine io e Luke ce ne torniamo a casa, in silenzio, tra il buio che rispecchia ciò che abbiamo dentro. E' una notte tormentata, quella che sono costretta a vivere oggi. E' una notte dove la pietra si mette a fare i conti con la presunta resistenza che ha e no, scopre che non è più sicura della sua forza. E no, non ci sarà nessun vetro rotto a farle compagnia perché, questa volta, è solo lei, quella rotta.


E' passata forse una settimana. Ed io ho questo peso nel petto. Uno di quelli che stanno lì fermi, che non fanno poi così tanto male ma, semplicemente, ti fanno capire che qualcosa non va. E poi ti si infuoca il viso, e gli occhi diventano lucidi, ma non ti va di piangere. Sai che stai perdendo, perdi sempre di più, e niente può tornare indietro. E qui ti viene quasi da soffocare. 
E' una brutta sensazione, vedersi scivolare dalle mani ciò che ti tiene in vita, sapendo di non poter riparare nulla. 
"Buongiorno." strascica Luke mezzo addormentato, che entra nella cucina. 
"Ciao." gli concedo, mentre poso il mio bicchiere di latte sul tavolo. 
"Oggi vengo anch'io a scuola." mi informa.
Alzo le spalle e "Dopo una settimana, mi sembrava anche l'ora." gli dico, per poi dirigermi in camera. 
Luke sbuffa. "Si può sapere per quanto tempo mi terrai il muso?" 
Io nemmeno gli rispondo, perché lui lo sa bene. Raccolgo le ultime cose e chiudo la mia borsa. Gli sto passando davanti quando "Se vuoi andiamo insieme." mi propone. 
Ora, quella a sbuffare, sono io.
"Hep..."
Ma io mi chiudo la porta alle spalle, per poi scendere le cinque rampe di scale. Attraverso il cortile e "Hep, pensavo fossi tu quella a non voler perdermi e perderci!" sento urlare da Luke, affacciato alla finestra.
E' una frase di non poco valore, una di quelle che ti fanno rimanere con l'amaro in bocca, che ti si imprimono su pelle per davvero troppo tempo. 
Non mi giro, nemmeno stavolta, e me ne vado a scuola, sperando di reprimere l'insensato senso di colpa. 
Non appena arrivo nel parcheggio, mi accerto che Ashton non ci sia neanche oggi. E infatti quegli occhi verde oliva mischiati all'ambra non sono da nessuna parte, così come da una settimana, ed io posso dare pace a me stessa.

Ormai, le abitudini di questa scuola le conosco. Alle 10:55, quando suona la campanella dell'intervallo, i corridoi e i bagni si riempiono di studenti.
Alzo la mano e, quando il professore di inglese mi nota, abbassa gli occhiali.
"Sì, Hemmings?" 
"Potrei andare in bagno?"
"Se proprio deve... C'è già fuori il suo compagno."
"E' fuori da quasi quaranta minuti, prof. Non penso tornerà ora."
Gli lascio un sorriso un po' leccaculo, mi alzo ed esco dalla classe. Stephen, il mio ufficiale compagno di banco, è un tipo alquanto bizzarro. Non mi stupisce il fatto che stia fuori quasi tutta l'ora. Probabilmente lo troverò in giro per i corridoi a far niente.
Ho un quarto d'ora, prima di essere investita da un esercito di studenti maneschi. I corridoi sono deserti, e si sente solo qualche voce in lontananza di professori che, giustamente, fanno lezione.
Cammino distratta, e finalmente avvisto il bagno. Faccio solo in tempo ad arrivare alla soglia dell'entrata. Una mano, che chissà da dove proviene, mi si posiziona sulla bocca, impedendomi di urlare anche solo per lo spavento, mentre l'altra mano la sento stringere il mio polso. Dalla confusione chiudo gli occhi e, l'attimo dopo che li riapro, mi è tutto più chiaro. Tra i miei ansimi e le mie braccia che si agitano ovunque, riconosco che questo è il bagno dei maschi. E quello davanti a me non è altro che Ashton. Io non lo so perché, ma mi calmo e smetto di dimenarmi. 
Ma gli ansimi continuano. 
Allungo lo sguardo e più in là, seduto a terra, appoggiato alle piastrelle, c'è Stephen. Lui non ricambia il mio sguardo.
"Ora puoi andare." gli dice Ashton, senza distogliere gli occhi dai miei.
Stephen si alza velocissimo e se ne esce dal bagno, come se volesse scappare. Scappare dal ragazzo che ora mi sta tenendo ferma. Quella era l'ultima volta che lo avrei visto.
Ashton poi mi leva la mano dalla bocca. 
"Cosa gli hai fatto?" gli chiedo, con fare accusatorio.
Lui si stringe nelle spalle, restando serio. "Avevo solo bisogno di alcune informazioni, tipo quando esci dalla classe." 
"Sei uno stronzo." 
E qui indurisce lo sguardo, ed io capisco di non aver pensato prima di parlare. La presa sul mio polso aumenta, ma non demordo. Solo quando mi lascio sfuggire un gemito di dolore, Ashton si ferma. E' proprio per questo che "Lo sei anche tu." afferma. Perché non riesce ad assistere alla mia sofferenza. 
E qualcosa non va, ed io lo capisco bene, perché Ashton, un attimo dopo, si fionda sulle mie labbra. 
Hepsie, rifiutalo.
Hepsie, scappa.

La voglia di fuggire viene annebbiata da queste labbra che sembrano l'unica cosa esistente, che fanno anche scomparire il peso nel petto che da giorni mi tormenta. E' una bella sensazione, ma non mi sembra del tutto vera, perché lui è Ashton. Ashton che oggi si avvicina all'aggettivo bello, che appare strano vicino al suo nome. Ha una semplice maglietta nera, che si intravede da una giacca di jeans, e un paio di skinny jeans neri. Forse non me ne vado proprio per questo.
E' proprio bello, continuo a pensare, mentre Ashton preme ancora di più il suo corpo contro il mio. Si stacca per un secondo dalle mie labbra, e mi lascia uno sguardo, di cui io non interpreto il significato, ma che mi fa crescere un'insensata e burrascosa sensazione nello stomaco. Mi dà il tempo di riprendere fiato, e poi riprende a baciarmi, facendo iniziare una seconda guerra tra le nostre lingue.
I baci di Ashton rispecchiano la sua personalità. Sono prepotenti, dati con foga, come se ci fosse sempre qualcosa a metter fretta. Eppure, non si scappa, dai suoi baci.
E' distante, il suono della campanella, ma lo sento lo stesso. Abbandono la sua bocca, ma Ashton mi posa le mani sui fianchi, facendomi rimanere lì. Cattura il mio labbro inferiore tra i suoi denti, e posso scorgere un suo sorriso di malizia. Quando poi mi lascia, mi accorgo di essere ancora immersa in un mondo che non è il mio. 
"Vieni con tuo fratello, questa sera." mi sussurra, con una voce che è completamente diversa da quella roca di Luke, che mi dà rabbia. Ashton è già avanti, Ashton ha già la strada segnata. 
Due ragazzi entrano nel bagno, lanciandoci sguardi curiosi. Nello stesso momento Ashton se ne va, senza farmi aggiungere una sola parola.
Resto lì per un po', sconcertata e persa, fin quando il mio battito cardiaco non si riprende e le mie gambe diventano stabili.
Io non so più scappare.

"Hep, per favore." mi ripete, con una voce lamentosa, Luke. E' seduto sul ripiano della cucina, già pronto per uscire, mentre osserva ogni mio movimento. 
"La smetti di preoccuparti di me? Dovrebbe essere il contrario, per quanto mi hai dimostrato." ribatto, e intanto mi infilo l'ultima vans. Ashton potrebbe essere una scusa per vigilare mio fratello, e lui non lo saprà mai. Come è giusto che sia.
"Non puoi venire con me. Mi sentirei troppo responsabile."
"E non lo sei."
Si viene così a creare un interminabile vuoto di silenzio, che si conclude con un "Vaffanculo, Hep. Fai come vuoi." di Luke. 
E' in questo modo che riemerge il suo nuovo lato, quello contaminato da Ashton, quello di un Luke con l'azzurro negli occhi diversi dai miei, ma più simili a quelli di nostro padre.
Io sussulto un po', non per lo spavento, ma per il male che mi dà questo suo comportamento. Lui scende con un gesto abile dal ripiano e, prima di uscire di casa, mi lancia la sua felpa. Senza aggiungere altro, senza dire una parola, la indosso e iniziamo ad incamminarci verso quell'ormai noto locale: il Block.
Arriviamo lì che sono le ventidue inoltrate.
"Non allontanarti. Stammi vicina." mi ordina Luke, poggiandomi una mano dietro la schiena, mentre passiamo l'entrata. 
Attraversiamo tutto il posto, devo dire difficilmente, fino ad arrivare alla stessa seconda porta dell'altra volta. Mi risuona nelle orecchie Show Me di Kid Ink e Chris Brown, e nel frattempo Luke prende il suo cellulare ed invia un messaggio. Mi guardo intorno, scorgendo il mondo a cui io non appartengo. Tanta spavalderia, poca prevenzione. 
Poi finalmente qualcuno apre la porta, che Luke fissa assiduamente. E dalla porta esce Ashton, affiancato da Michael e seguito da altri tre ragazzi, che ricordo aver visto combattere nella stanza sotterranea. Mi dico di rimanere calma, di mostrare indifferenza ed al contempo prendo ad agitarmi dentro. Ashton mi fa un effetto strano, forse nemmeno positivo. E' un misto di urla interne e rabbia. E' che il suo sguardo che fluttua avanti, da una persona all'altra, e quell'aria distratta, che è solo una finta, perché lui vede tutto, mi fa dare di matto. Ed ora è il mio turno, e il suo sguardo mi consuma da testa a piedi. Mi assaggia, senza esprimere realmente qualcosa, e ritorna a sé. Poi è il turno di Michael, in cui leggo stupore e rimproveri. 
"Qualcosa di sospetto?" sento domandare da Ashton a Luke, e questi scuote la testa.
"Niente. Possiamo stare qua." accerta mio fratello.
Michael si fa avanti e "Ma lei no." interviene.
Ashton gli posa una mano sul petto e annuisce. "Non c'è alcun pericolo, stiamo qua. Oggi niente allenamenti per noi. Ho lasciato gli altri ad esercitarsi in mia assenza." 
Michael, semplicemente, mi osserva. Ma poi è Luke a rimettere la mano dietro alla mia schiena, come protezione, e a condurmi lontana da lì. Lo vedo girarsi e "Facciamo un giro?" chiedere agli altri. Quando arriviamo al bancone, capisco che fare un giro ha un significato abbastanza diverso da come credevo. Luke posa il braccio sul marmo e "Tre birre." ordina al ragazzo. 
Io mi volto, forse per controllare la situazione instabile di questo posto e, oltre a notare la scomparsa degli altri tre ragazzi che accompagnavano Michael ed Ashton, mi accorgo dell'insistente sguardo di quest'ultimo su di me. Non è malizioso, o assente. Oscilla tra il normale e il serio. Mette un po' i brividi, infonde un po' di insicurezza. Allora mi rigiro, e le tre birre sono già pronte. Luke prende la sua, e passa una per volta le rimanenti agli altri due. A me l'alcool non interessa, e Luke lo sa. Decidiamo di spostarci più in là. Luke, davanti a me, cerca di far spazio, per lasciar libera e più facile anche la mia, di traiettoria. Un po' della sua birra cade accidentalmente su una delle mie vans, ma faccio finta di niente. Il casino si dissolve ai margini della pista da ballo, dove sono presenti dei tavoli, tutti ovviamente quasi occupati.
Luke sembra riconoscere qualcuno, cominciando a camminare in una precisa direzione. 
"Ehi Cal!" urla, per rendere riconoscibile la sua voce in mezzo al resto. 
Ora che i suoi lineamenti si fanno più chiari, lo riconosco: Calum Hood, vecchio amico di Luke, sempre sereno, capace di aspettare ore nel nostro cortile malfamato, pur di vedere mio fratello. Sono, o forse erano, forti, quei due insieme. Calum è, semplicemente, il ritratto che vorrei di Luke. 
"Chi si rivede!" e una serie di saluti con mani e pugni mi si presenta davanti. "Siediti pure. Anzi, sedetevi pure. Ciao Hep!" 
Io gli sorrido, e lui si fa un po' più in là, strusciando sul tessuto in pelle del divanetto. Non è solo al tavolo, ci sono forse altre cinque persone che non conosco. Luke le saluta tutte. 
"Piacere, Calum." si presenta ad Ashton e Michael, e questi rispondono alla sua presa di mano, andandosi a sedere di fianco a lui.
"Vieni, siediti in braccio a me." mi dice Luke. Aspetta la mia risposta. 
In effetti, il posto rimanente è solo uno. Faccio un cenno con la testa, che potrebbe acconsentire a ciò che mi ha detto, e allora si siede di fianco a Michael. Io prendo posto sulle sue gambe, sotto lo sguardo di tutti. Ma a Luke non importa. 
"Loro sono vecchi amici." Calum introduce gli altri presenti, che io non ho mai visto. 
Noi annuiamo, sorridiamo un po'. 
"Posso offrirvi un giro? Buttate via quelle birre, dai." parla sempre Cal, con fin troppa euforia. Ora che ho scoperto cosa davvero significa giro, taccio. Ma tutti accennano un sì. Gli alcolici arrivano dopo pochi minuti, e un bicchiere contenente un liquido sconosciuto viene posato anche davanti a me. Osservo prima quello, per poi passare a Luke. Anche lui mi guarda, come a cercare di capire cosa farò. Poi alza le spalle, e chiude gli occhi in un modo veloce, ma al contempo estremamente calmo, come a darmi il via libera. Sta per prendere in mani il suo, di bicchiere, quando un "No!" di Calum lo ferma. 
"Cosa?"
"Potremmo giocare." gli spiega, e Luke compie uno dei suoi soliti gesti, alzando quasi impercettibilmente le sopracciglia, come se non avesse capito niente. "Conoscete il Non ho mai...?" 
"Sì." risponde uno dei ragazzi che sta dall'altra parte del tavolo. 
Qualcuno gli fa eco, confermando. Tutti lo conosciamo. Ashton si gira, per una frazione di secondo, verso di me. E' lì che mi ricordo di lui, in questo posto. 
Luke poi mi posa una mano leggera sulla coscia, come a dire: non te ne vai. Non è una domanda, nemmeno una constatazione. Non te ne vai da me, ecco. E che ho paura, a mostrarti a tutta questa gente che non ci somiglia.
E' qui che prendo il mio primo sorso dal bicchiere. E' come una scarica elettrica che ti si irradia dalla gola allo stomaco, e ti viene da tossire, ma non lo vuoi fare. 
"Non ho mai pensato di masturbarmi pensando a mia sorella." afferma a mo' di annuncio Calum. 
Tutti fissano Luke con dei sorrisi sghembi, ma lui, per fortuna, non beve. Nessuno beve, a questo giro, e tutto si svolge in religioso silenzio, accompagnato solo dalla musica. 
"Non ho mai baciato un ragazzo." 
E Luke e Calum, imbarazzati, bevono. Tutti li fissiamo, perplessi e stupiti, compresa me. 
"No, no. Possiamo spiegare. Era un gioco alla bottiglia, verso i tredici anni. Una cosa da niente, ve lo giuro!" si giustifica Luke, paonazzo in viso, e tutti tentiamo di non ridere. 
Ashton, però, è serio. Ed è proprio lui che interviene.
"Non ho mai baciato un amico di mio fratello." 
E, mentre lo dice, mi guarda dritto negli occhi. Il mio cuore prende a martellare, e la mano che ho posato sul tavolo mi inizia a sudare. E' un silenzio unico. 
Luke tira via lentamente la sua mano dalla mia coscia e si lecca rapidamente il labbro. Sta aspettando. Io il bicchiere lo prendo, sì, ma subito dopo lo sbatto con forza sul tavolo.
E' così che la mia rabbia si scaglia. E' così che il mio controllo va a farsi fottere. 
"Non ho mai portato un coltello in tasca." ribatto io, alzandomi con un gesto secco dalle gambe di mio fratello. 
Anche Ashton si alza, sbattendo un pugno sul tavolo. "Io, con quello, ci difendo i miei fedeli compagni." urla. Ha urlato e l'attenzione ora è su noi due. 
"Non me ne frega un cazzo, sai? E' che sei uno stronzo con ideali del cazzo, ecco cosa sei." 
A questo punto, Luke mi prende dai fianchi e mi fa risedere sulle sue gambe. Non mi dimeno. Ashton, in risposta, butta a terra il suo bicchiere. Un rumore che nemmeno si sente, annullato dalla musica. 
Ashton non conta niente. 
Luke gli fa un segno, che nemmeno mi va di vedere, ma sta di fatto che Ashton non si sente più. E mi abbraccia. Mi accarezza il braccio, nel tentativo di calmarmi, e io mi sono già dimenticata di tutti gli altri. 
"Dimmi che non l'hai fatto." mi sussurra, guardando avanti qualcosa di non preciso. 
Io sto zitta. Lo sento respirare forte e "Scusa." mi viene da dirgli.
Per noi, ora, è come se non ci fosse nessun altro. 
"Dimmi il nome."
E' la voce roca, quella con cui mi sta parlando. E a me passa la voglia di rispondergli. Così Luke non parla più, facendo alzare la tensione che si era creata. Calum prova a risanare la situazione parlando con i suoi amici, ma Michael no. Lui mi incatena con gli occhi. 
Michael è il mio radar dei peccati. 
Da Michael non si fugge. 
"Vado un attimo giù. Tu cosa fai?" mi risveglia Luke dai miei pensieri. 
"Vado a casa." affermo, senza pensarci troppo. 
Perché non so ancora delle condizioni con cui verrà a casa il giorno dopo. Perché non so ancora che Luke non scapperà mai da se stesso. 
A scuola, io e Luke ci siamo andati lo stesso, il giorno dopo. 
"Che hai fatto?" gli ho domandato al mattino, vedendolo così ridotto. 
Luke ha alzato le spalle, come sempre, e mi ha risposto con un "Allenamento a mani nude". Io mi sono fermata un attimo sul posto, totalmente confusa. "Cosa vuol dire?" 
"Che io ed Ashton ci siamo messi delle garze bianche intorno alle mani, e che non ci siamo presi a pugni, ma a schiaffi." e intanto lui è andato avanti e indietro per la camera, cercando i suoi pantaloni.
"Quando?"
"Stanotte."
Sono stata zitta. Speravo con tutto il mio cuore che quello non fosse il modo per sfogarsi di mio fratello, e che Ashton non gli avesse detto niente. 
Poi ci siamo recati a scuola, Luke col ginocchio dolorante e il labbro rotto. Era proprio tornato lui, il vetro rotto. Sembrava avesse due piercing. 
Nei corridoi ho visto Ashton. Camminavamo entrambi dalla parte opposta, lui mi ha rivolto uno dei suoi sguardi insignificanti, per me che non riesco a tradurli, e allo stesso tempo di vitale importanza. E subito dopo ho fatto come se non fosse successo niente, continuando per la mia strada.
Ora è sera. Io e Luke abbiamo cenato in silenzio, con una busta posata sul tavolo. E' una busta con dentro almeno una ventina di banconote. E' firmata con un nome imprevedibile, ma sappiamo che è nostro padre, che ci mantiene così, negandoci della sua presenza, a causa della sua latitanza. 
"Stasera vado agli allenamenti. Non voglio creare litigi, non voglio farti star male. Quindi se vuoi vieni anche te, e non se ne parla più." mi propone Luke, alzandosi dal tavolo e posando il suo piatto nel lavandino.
Sembra calmo. Sembra sincero.
"Va bene." accetto, imitando le sue azioni. 
E' Michael che cinque minuti dopo passa sotto casa nostra per accompagnarci alla palestra sotterranea. 
"Basta che non ne fa parola con nessuno." dice, non appena salgo sulla macchina. 
Luke annuisce e si accende una sigaretta. 
La stanza utilizzata come palestra non è per niente silenziosa. C'è un rimbombo quasi assordante, accompagnato dalla gomma delle suole che fischia sul linoleum, che produce un suono stridulo. Il rumore di pugni parati, di gemiti soffocati, e di imprecazioni dei ragazzi. 
Eppure mi sembra che, appena mi notano, i suoni vengano meno. 
"Vieni." mi ordina Luke, facendomi attraversare il posto davanti a tutti, che sembrano a corto di parole.
Lo seguo. Arriviamo a quello che mi pare uno spogliatoio, e Luke inizia a cambiarsi. Io mi siedo sulla panca, aspettandolo. Il corpo ricoperto di lividi, ormai, non mi fa più impressione. 
Poco dopo siamo ancora nell'altra stanza, e solo ora mi vede Ashton. Sono abbastanza tranquilla, se non fosse per quegli sguardi muti che mi lancia. 
"Starà con te per sempre?" chiede a mio fratello. 
"Starà con me fin quando non ci sarà un posto più sicuro del mio fianco. Lei va dove vado io." 
Rimango a bocca aperta. Perché, dopo quattordici anni, risento questa frase. Me lo aveva promesso, quando ancora eravamo piccoli, che sarebbe andato sempre dove sarei andata io. E immediatamente l'azzurro dei suoi occhi mi appare più vivo, più somigliante al mio.
"Wow! Abbiamo un Luke mestruato oggi." lo prende in giro Ashton, con ironia e malizia nelle parole. 
Ma a mio fratello sembra non importare, poiché "Riscaldamento?" chiede. 
Ashton non risponde subito. Va prima a controllare gli altri ragazzi, passandogli di fianco. Dà qualche consiglio, mostra qualche tecnica per abbattere l'avversario. 
"Mettetevi a coppie, come vi ho fatto fare l'altra volta. Fate a turno, massacratevi di botte, fin quando non lo dico io. E non esitate per un po' di sangue, perché lo sapete: in strada nessuno si fermerebbe se vi vedessero sanguinanti. Continuerebbero. E allora continuate anche voi." 
E' spaventoso, Ashton, mentre dà ordini di questo tipo. Mi impaurisco di più quando poi torna da noi. 
"Allontanati, vai da Michael, se non vuoi rischiare di prenderti qualche colpo." mi consiglia, e non sembra più così incazzato come ieri.
E' solo serio. Ed è lui che detta le regole. Luke mi fa un cenno con la testa di allontanarmi, ed io lo faccio. 
Mi vado a sedere a terra, con la schiena poggiata al muro, proprio come Michael. 
Ashton si toglie la maglia, rivelando la sua muscolatura tonica. Il mio sguardo rimane lì, incastrato tra ogni suo muscolo, ogni sua vena, ogni suo lembo di pelle abbronzata.
"Pugno destro, sinistro, montante destro al mento, montante sinistro al fegato!" 
E' Ashton a dare gli ordini. Luke è concentrato, risponde ad ogni suo comando. Lui glieli para tutti. 
"Perché Ashton allena singolarmente solo mio fratello?" domando ad Michael, che sembrava aspettasse che io iniziassi a parlare. 
"Vuole vedere quanto la sua carne resisterà ai suoi pugni. Vuole essere sicuro dei suoi compagni."
Poi Ashton inizia la sua sessione di pugni. E' come se volesse testare quanto i tessuti turgidi dei muscoli di Luke possano attendere prima di strapparsi dalla pelle. Pianto la mia mano a terra, forse per ancorarmi al pavimento per non avere la tentazione di andare a salvarlo. 
"Tieni alta la difesa col sinistro!"
Un pugno allo stomaco, un altro sullo zigomo. Sento ad ogni botta un brivido che mi attraversa la spina dorsale. 
"Lo ucciderà."
"No." mi assicura Michael. "Se Luke entro dieci secondi non cade a terra, Ashton la smetterà. E Luke sarà ufficialmente dentro."
Passano dieci secondi. Mio fratello è ancora in piedi. Dolorante, senza fiato, ma in piedi. 
Mi giro. "Dentro a cosa?"
Ma Michael mi guarda, senza dire una parola. Scuote la testa, facendomi capire che sono cose che non si dicono. Così mi alzo, andando a soccorrere Luke. Gli poso una mano sul bicipite, attirando la sua attenzione.
"Stai bene?"
"Sì."
"Andiamo a casa, Luke."
Deglutisce ed annuisce. Si spezza il fiato anche a me, a vederlo così. A vederlo come dopo pestaggi aggiunti a pestaggi da parte di mio padre, quando eravamo troppo piccoli.
"La boxe non è così."
Una voce mi raggiunge. E' quella di Ashton, che se ne sta in disparte a fissarci.
"La boxe illegale non è così, vorresti dire."
Lui, di rimando, fa una smorfia sul viso. Luke, invece, mi guarda come a dire di star attenta e prudente, e se ne va nello spogliatoio. 
"Basta, ragazzi. L'allenamento è finito per oggi!" annuncia, alzando il tono, Ashton. 
I ragazzi si rintanano nello spogliatoio, non prima di lasciarmi qualche occhiata di sufficienza.
Io mi appoggio al muro, aspettando Luke. 
"Bella mossa, quella del coltello." esordisce poi, abbassando spropositatamente la voce. Si toglie le garze attorno alle mani, mi osserva senza tralasciare commenti taciuti. 
"Smettila di parlarmi." sbotto io. 
Ashton ride. Ride con quell'inquietudine che si nasconde nelle piccole pieghe attorno alla bocca, nelle fossette pronunciate sulle guance. 
"Altrimenti? Chiameresti tuo padre?"
E' che mi viene difficile respirare regolarmente quando la rabbia mi si inietta nelle vene. Chiudo gli occhi, conto fino a tre. Riapro le palpebre. Ashton aspetta una mia reazione. 
Ed io, l'unica cosa che faccio, è sorridere. 
"Disprezzare mio padre è disprezzare te stesso. Sei la sua scia, e vi si riconosce, voi mafiosi. Fate questo. Parlate tanto di omertà, e poi fate ciò che stai facendo tu ora. Non rinnegare mio padre, se poi fai ciò che fa lui."
Non si può contare lo spazio di tempo che passa tra la mia ultima parola e il suo corpo che spinge con aggressività il mio contro il muro. Michael si alza. Ashton appoggia la mano al muro, facendomi sentire intrappolata. Respira velocemente, mentre digrigna i denti.
"Io non sono mafioso!" e la sua voce rimbomba per tutta la palestra. "E' chiaro?"
E, come rimbomba tra le pareti, lo fa anche nella mia gabbia toracica. Ho paura, forse. Perché il suo autocontrollo è imprevedibile, quasi inesistente.
Michael si avvicina e "Ash, lasciala." dice con un'estrema calma. 
"Io non sono mafioso." ripete. "La mia mafia serve a proteggermi dalla mafia."
Poi la porta dello spogliatoio si apre. Esce Luke, che alla vista di ciò che sta succedendo rimane fermo sul posto. Mi volto, e lo guardo al di sotto del braccio di Ashton. Basta quello, a lui. A grandi falcate si avvicina a noi, gli stringe il polso e lo spinge via.
"Che cazzo stavi facendo, Ashton?" ora anche Luke sembra dar di matto. Lancia occhiate a me, Michael, Ashton. E quest'ultimo "Niente." risponde, con evidente cattiveria.
"E' tutto apposto." conferma Michael.
Mio fratello si sofferma su di me ed Ashton. Ci scruta, ci esamina. Poi trae conclusioni. "E' lui?" 
Per un momento vorrei che sotto di me si aprisse un'enorme voragine. C'è odore di paura attorno a me, odore di peccato. 
"E' lui, Hepsie? E' lui che ti baci?" La sua voce ha un'andatura accusatoria, capace di mettere i brividi. Brividi che mi spingono a dire: "No."
Luke sembra riprendere a respirare regolarmente. Ashton non dice nulla. Nessuno dice nulla. Così decidiamo di andarcene, e questa volta anche Ashton lascia la palestra con noi.
"Andate a piedi?" ci domanda Michael, quando stiamo salendo le scale. 
Poi apre la porta. Non c'è tempo per rispondere. Rimane lì, fermo. Raggiungiamo l'ultimo gradino anche noi, passiamo l'entrata e capiamo. 
Ci sono cinque uomini davanti a noi, quasi tutti con della barba di qualche giorno, il viso contratto in un'espressione maligna, le mani nelle tasche. Il peso spostato su una gamba sola, l'atteggiamento di chi non ha pietà. Uno di loro tira fuori una pistola. Io, una pistola, non l'avevo mai vista dal vivo. Prendo meno coscienza del mio corpo, incendiato solo da una sensazione di puro panico. 
"Chi si rivede. Irwin." ghigna quell'uomo. "Volevo sorprenderti in un modo diverso, magari facendoti saltare direttamente in aria. Ma sono un uomo d'onore, io." 
Luke mi stringe la mano. Basta un attimo, però, e la situazione precipita. La pistola viene puntata proprio in mia direzione. Sento un formicolio alle mani, e l'ansia che si espande in ogni parte del corpo.
"Ok, ok. Fermo. Possiamo risolvere tutto." tenta Ashton. "Posala quella, andiamo."
"Ti avevamo esplicitamente chiesto di lasciare Brookvale, o mi sbaglio?" ribatte l'altro, mentre muove paurosamente la pistola ad ogni parola proferita.
Luke stringe la presa alla mia mano. Sta per dire qualcosa, che non esce dalla sua bocca, perché "Zitto." gli intimo sottovoce. 
"Questo è il mio territorio, mi sembra di aver detto." La voce di Ashton è provocatoria, è senza timore e paura. 
L'uomo carica la pistola. La punta ancora contro di me e, a questo gesto, Ashton si para davanti a me. E' così che io non ho più la visuale della situazione. Davanti a me ho solo la schiena muscolosa di Ashton.
"Le nostre sorelle non si toccano. Se ci dovrà essere una persona che deve morire, quella sono io." ringhia lui, ed io nel frattempo rimango sconvolta da questo gesto. 
Rimango ancora più confusa quando anche Michael si posta davanti a me, creando una vera e propria barriera. 
"Oh, abbiamo toccato un tasto dolente. Chi è, lei?" scherza l'uomo, provocando dei sorrisi pieni di malizia agli altri quattro. 
"Non ti importa." risponde Luke. Ha la voce profonda, ma dalla quale si possono distinguere attimi di paura.
"E' tua la sorella, allora? Che amore fraterno." sento Luke fremere dalla rabbia, ma la soffoca tutta mordendosi il labbro. "Questa situazione o si risolve a modo, o col sangue. Sta a voi decidere."
E i cinque se ne vanno, lasciandoci questa minaccia nell'aria. Ashton si gira e "Grazie." proferisce mio fratello.
L'altro scuote la testa. "Qui va così. Ci proteggiamo a vicenda, e siamo convinti che il nostro sangue valga meno di quello dei nostri compagni." poi si volta verso di me e "Adesso che ti hanno vista, non puoi più star da sola." mi dice. 
Non avevo mai visto Ashton così. Protettivo, preoccupato. Erano lati che pensavo non avrebbero mai fatto parte di uno come lui. Per una volta mi sentivo io il vetro, e la mia pietra non era Luke, ma Ashton.
Era una sensazione strana.

Per tutta la settimana successiva io e Luke siamo andati a scuola. Siamo un po' tornati come prima, legati come un tempo. Cadiamo insieme.
A scuola sono venuti anche Michael ed Ashton. Mi tengono d'occhio, ma senza avvicinarsi. Probabilmente non si aspettano nemmeno che rivolga loro parola, perché sanno di star facendo cadere me e mio fratello in vuoti colmi di nero a cui noi apparteniamo, ma dai quali stiamo da sempre cercando di scappare. 
Luke non è andato per tutta la settimana agli allenamenti, e ultimamente indossa una maglietta che recita: destroy yourself, see who gives a fuck. E io mi chiedo se questo non è un suo grido muto di aiuto, se sta realmente distruggendo se stesso. Perché a me sembra proprio che sia così. 

L'ora di educazione fisica non l'ho mai davvero presa in considerazione. La nostra professoressa ha un nome che si avvicina a Phillips, una quarantenne per niente esigente. Si siede alla sua cattedra e "Chi oggi è intenzionato a far niente, può anche sedersi sulle gradinate e aspettare la fine dell'ora. Basta che non disturbi" dice a mo' di annuncio. 
Io vado a sedermi, come mi è stato proposto, insieme ad altre due ragazze di cui non ricordo né nome né cognome. La lezione, che si basa sulla resistenza, incomincia. C'è anche Luke, perché la mia classe e la sua si ritrovano sempre alla quarta ora del venerdì in questa palestra enorme. Per un attimo si gira, mi dedica un sorriso mentre scuote la testa, come a dire sei una sfaticata. Gli sorrido anche io, e poi se ne va a saltare la corda. Successivamente passano alla corsa, ed io rimango seduta lì, persa tra i miei pensieri. 
Fino a quando non sento una presenza di fianco a me. Mi giro con calma, ed Ashton Irwin è la visuale che mi si presenta. Fingo indifferenza. Così mi volto un'altra volta, vedendo i miei compagni impegnati in delle flessioni.
"Perché non fai lezione?" 
Alzo le spalle. "Non mi va."
"Tuo fratello ne farà cinquanta" afferma, orgoglioso. 
Tutti i ragazzi uno per uno fanno la loro sessione di flessioni. Arrivano massimo a venti, tranne alcune ragazze che ne fanno a malapena tre. 
E' il turno di Luke. Arriva a trentacinque, e ormai tutti hanno gli occhi su di lui. Anche la professoressa. 
Poi arriva a quaranta. Rallenta un po'. 
"Dai Luke" lo incinta Ashton quasi parlando a se stesso. Si tiene le mani, se le sfrega insieme, muove le gambe in un movimento veloce, nervoso. Quasi snervante.
Quarantacinque.
Cinquanta. 
Cinquantuno.
Luke si ferma. 
"Lo sapevo" ammicca Ashton."No, ragazzi, questo lo dobbiamo dire ad Ashton!" dice qualcuno, mentre tutti applaudono. Ashton ride, sembra realmente fiero.
"Gliel'ho insegnato io, quello. L'ho fatto restare un intero giorno in palestra finché non me ne ha fatte cinquanta." 
Poi le classi si riprendono, e Luke si rialza, ancora un po' affaticato. 
"Non fargli male." 
"Sono altre le persone a cui far male."
"E quali sono?"
"Te lo spiegherò oggi, se solo lasci che io ti riaccompagni a casa. Ho paura che abbiano già in mente qualcosa."
E' questione di respirare, ingoiare sensazioni amare e ricoprirsi di indifferenza. Poi sai che devi fare tutto questo per tuo fratello, e allora "Sì" rispondi.
Ashton chiama Luke a squarciagola, di modo che lo noti. Lui ci guarda, sorpreso, e ci si avvicina.
"Oggi te la accompagno a casa io. Dobbiamo tenerla protetta, ricordi?" 
Luke non ci stacca gli occhi di dosso, ma sa che oggi finisce le lezioni dopo di me e non può fare la strada con me. Sta pensando se fidarsi, perché a lui non viene naturale farlo. Poi annuisce, ma mantenendo un'espressione compunta e seria. E, prima di andarsene in campo, sale sulla gradinata e mi stampa un bacio sulla guancia. Luke è così: quando capisce che qualcosa potrebbe andarsene, cerca di autoconvincersi che, marchiandola, resterà. 

Come era stato stabilito, all'una Ashton si trova fuori da scuola. Mi sta aspettando. Dei ragazzi, quasi tutti facenti parte della squadra di football, passano di fianco a lui e lo salutano con mano aperta e pugno. Quando gli sono vicina, toglie la sigaretta dalla bocca e "Ci metti sempre così tanto ad uscire?" mi chiede. 
Ci incamminiamo. "Stavo svegliando Michael" gli spiego, e lui sembra divertito. 
Un attimo dopo ritorna serio e inizia a guardarsi intorno. "Stai attenta, comunque" mi dice. "Possono essere ovunque." 
Si rimette la sigaretta in bocca, cominciando ad aspirare. 
"Chi?"
Passano alcuni secondi, e intanto continuiamo a percorrere la strada verso casa.
"Sai cosa, Hepsie?" Hepsie ha una strana cadenza sulle vocali, quando a pronunciarlo è Ashton. Lo dice con un tono che fa sembrare che il mio nome sia l'unica cosa rilevante nelle sue frasi. Come se il mio nome fosse vivo, come se io fossi viva in tutto ciò in cui è costretto a stare. "Essere figlio di un pentito non è una cosa facile. Vivi sapendo che potresti essere ammazzato da un momento all'altro dagli ex compagni che tuo padre ha tradito, collaborando con la giustizia, e allora le opzioni sono due: o lasci che ti ammazzino con una pallottola conficcata in testa, o ti difendi. Io ho scelto la seconda." 
Sguardo rivolto in basso, spalle rilassate, passo lento e mai preciso. Io ed Ashton siamo uguali. 
"E come ti difendi?"
Fa un altro tiro dalla sua sigaretta, volta il viso a destra e a sinistra, attraversa. Io lo seguo. 
"Creandomene una mia, di mafia. Ci alleniamo per questo. Noi, in quella palestra, abbiamo imparato a guardarci le spalle, ad interpretare il senso di onore, di rispetto, di fiducia. Io mi fido ciecamente di tuo fratello. Altrimenti non sarei qui a raccontarti questo." 
Solo ora capisco cos'è mio fratello, cosa sta diventando, cosa è diventato. Non mi fa arrabbiare. Uccide solo un po', quel tanto da rilasciarti il peso all'altezza del petto. Però comprendo anche la spropositata pericolosità in cui vive Ashton, la costante ansia in cui naviga... Mi fermo. Alzo la testa, e lui si accorge che non lo sto più seguendo. Si gira e "Cosa c'è?" mi domanda. 
"Ashton, ti difendi anche da mio padre. Aspetta, i nostri padri erano alleati?"
Ashton sembra perdersi. Lui non si perde mai. Sta guardando me, ma so che in realtà non ha proiettato davanti a sé i miei occhi. Vede altro. In questi momenti è assente.
"Lo erano."
"E' per questo che sei così con me?"
"Così come?"
"Così maledettamente stronzo." 
Ashton sorride, sempre con l'inquietudine ad accompagnare il sorriso. "Solo all'inizio. Adesso è la tua compattezza che mi dà rabbia. Sembri quasi una pietra: così compatta, così solida dentro, senza alcun sentimento. Potresti anche cambiare sentimenti e opinioni verso una persona da un momento all'altro, ma nessuno lo saprà mai." 
Ogni tanto capita che mi manchi il fiato. E' una questione di deglutire saliva, e poi l'aria si rifiuta di passare per il naso o la bocca. Questo è uno di quei casi. Sto in silenzio, cercando di riprendere fiato. Ashton fa lo stesso. Intravedo poi il mio palazzo, anche se irriconoscibile tra tutti quei muri grigi, ed avverto il ragazzo dagli occhi ambra. 
"Aspetta" mi dice lui. "Volevo dirti che forse è per questo che ti bacio. Perché non mi va di guardare maschere alla gente invece che reali emozioni. Volevo vedere se la pietra si sarebbe un po' sgretolata, e a me sembra di sì. Solo questo. Bene, stai attenta. Guardati sempre intorno, loro ti hanno vista. Attaccano me, ma uccidendo le persone con cui parlo. Ciao, Hepsie."
Me ne vado a casa, senza nemmeno guardarlo andare via, senza dire un'altra sola parola. Ho tutti questi pensieri, che non si trasformano in parole, che mi rimangono incastrate in gola. 
La pietra è messa a dura prova, e non sa se si sgretolerà. 

E' un "No" disperato, quello che mi sveglia il mattino seguente. E' sabato, ed al sabato Luke non dovrebbe nemmeno svegliarsi a quest'ora. Guardo l'orologio, e sono le 10. Osservo intorno, ma la penombra non mi dà nessuna immagine di Luke. Così mi alzo e, allo stesso momento, sento dei singhiozzi. Li seguo per la casa, fino ad arrivare nel salotto. C'è Luke, rannicchiato su se stesso, che si dondola, cercando di calmarsi. Sono colpi al cuore. Ha il viso nascosto ma, appena sente il rumore dei miei passi, lo alza. Punta i suoi occhi nei miei, e vedo il rossore che contorna i suoi. 
Luke quando piange spacca vetri e te li conficca nella carne, fino a farti il male più insopportabile. Il viso prende un colore più roseo, gli occhi si accerchiano di un gonfiore, e le labbra prendono a tremare. 
Si alza, senza dire una parola, e viene verso di me. Mi ingloba in un suo abbraccio, come solo lui sa fare. Io ricambio, accarezzandogli lentamente la schiena. Il suo corpo trema. 
"Tutto bene?"
Scuote la testa. La stanza è piena dei suoi singhiozzi, e compongono il suono più doloroso di sempre. 
"Che ti prende, Luke?"
Dalla sua bocca esce solo: "Calum" con un verso quasi strozzato, che sprigiona tutta la sofferenza che il suo corpo contiene. 
Provo a non pensare al peggio. Ma poi è Luke a confutare ogni mio pensiero. 
"Calum non c'è più" dice tutto d'un fiato. 
L'ossigeno, come ormai spesso mi capita, non mi arriva per alcuni secondi. Metto insieme i pezzi, collego le sue parole, ma la notizia è troppo difficile da assimilare. 
"Sono stati loro, Hep. E' stata la mafia." 
Il giorno dopo Luke passò tutta la giornata ad allenarsi. 
Martedì andammo al funerale di Calum, Luke non parlò per tutto il tempo in chiesa, neppure quando portarono la bara al cimitero. C'era anche Ashton. 
"Alcune cose non si perdonano." Questo fu quello che io sentii dire da Luke al ragazzo dagli occhi con l'ambra dentro. E quest'ultimo annuì.

E' lutto cittadino, perché la mafia colpisce ancora. Al telegiornale ho sentito dire che la polizia non può andare avanti, perché non c'è una confessione, o un testimone. C'è solo una prova materiale, una pistola calibro 22. 
Ma è lutto anche nel cuore di Luke, che mangia meno, che parla meno, che si dimentica di sorridere. Allora io lo abbraccio, lo accarezzo, mi faccio quella forte. 
"Ti posso accompagnare?" gli domando, senza troppa enfasi.
Lui acconsente, e in poco tempo ci ritroviamo nella palestra sotterranea. Non prima di non esserci guardati intorno. 
Appena arriviamo, Ashton non sembra sbalordito di vedermi. Come se a lui vada bene così. 
"Ragazzi, tutti in sala" ordina, e la sua voce rimbomba tra le pareti. 
Tutti i presenti non fanno nemmeno in tempo a cambiarsi, che subito entrano nell'altra stanza collegata. 
"Puoi portarla" aggiunge, avvicinandosi a lui, e riferendosi a me. 
Così entriamo nella sala, che è un posto troppo piccolo per tutti i ragazzi che si allenano. Ma comunque c'è chi si appoggia al muro, chi sta in piedi e basta, e chi ha trovato posto su una sedia. 
Ashton entra poco dopo, con una busta di plastica in mano. Arriva deciso, con gesti e passi che non ammettono imprecisioni. Dalla busta estrae una pistola, la posa sul tavolo. 
"Questa è una calibro 22. Da questa è partito il proiettile, o meglio, i proiettili che hanno ucciso Calum Hood. E sapete dov'era, cazzo? Lo sapete?" si guarda intorno, incazzato, lasciando un'attesa che mette i brividi. "Davanti al mio armadietto, negli spogliatoi. Questo vuol dire che sono entrati qua dentro. Non siamo più sicuri." 
Noi ci guardiamo intorno, qualcuno annuisce. 
"I due erano su una moto, e il secondo ha freddato Calum con tre colpi al petto. Non gli hanno lasciato un attimo di tregua." Luke ha un piccolo spasmo, ed io gli stringo la mano. "Quindi, è così che li ammazzeremo. E' una vendetta di sangue, la nostra." 
Il mio giorno scolastico, da quel momento, cambia. Perché i corridoi non posso attraversarli da sola, perché all'entrata della scuola devo aspettare in compagnia di qualcuno, perché le mie spalle sono sempre sorvegliate dai ragazzi. 
I ragazzi. E' così che ho cominciato a chiamarli. 
Suona la campanella. Michael osserva, coi suoi occhioni chiari, la mia uscita dalla classe. Passo per il corridoio, cercando di ricordarmi il codice per aprire il mio armadietto. E' questione di secondi, e vedo Ashton comparire al mio fianco. 
"Mi stavi seguendo?"
Ride, mentre "No, sono anche io appena uscito dalla classe. Mi sgranchisco le gambe" mi dice.
Io scuoto la testa, palesemente sconcertata dalle sue scuse improvvise. E' solo una regola dettata dai suoi ideali: proteggi i tuoi compagni. 
Poi la sua mano si scontra con la mia, facendomi esaminare la nostra vicinanza. Continuo lo stesso a camminare, anche se più nervosa di prima. Gli studenti che passano ci fissano, sconvolti. Effettivamente, dopo averci visto litigare il mio primo giorno di scuola, ne hanno il diritto. 
"Verrai tutti i giorni agli allenamenti?"
"No."
Ashton sta zitto, fino a quando non arriviamo al mio armadietto. Inserisco la combinazione. Niente. 
"E cosa ne pensi, di tuo fratello lì dentro?"
Altri numeri inseriti, altri numeri sbagliati.
"Cazzo, Ashton. Non mi devi rompere i coglioni, non mi va che-" 
Non mi lascia finire, prendendomi alla sprovvista. E' un vizio, credo. Perché il mio corpo ora è premuto contro l'armadietto. Poggia la sua mano fredda dietro alla mia nuca e, con un gesto veloce, mi avvicina il viso al suo. Cerca di specchiarsi nei miei occhi, sento il suo respiro infrangersi sulla mia pelle. E, come è accaduto più volte, le nostre labbra si incontrano. Non so perché, ma quando Ashton mi bacia, mi fa sentire il suo desiderio di appartenere a qualcosa, o a qualcuno. Imprime il suo nome sul mio corpo, nei miei occhi. Quell'ambra, ora, è mia.
Mi lascia respirare e "Stasera sei con me" mi ordina. 
Perché, il suo, non è chiedere. E' ordinare. Siamo fatti così, noi. Siamo fatti di ordini e pretese, di sangue sporco di altro sangue, di occhi che non si fermano davanti a nulla, nemmeno alla morte. 
E quella sera io sto davvero con lui. 
Andiamo, come ormai è consueto, al Block. C'è anche Michael, ma non Luke. 
"Stasera si allena" mi informa Ashton. 
Siamo seduti attorno ad un tavolo, insieme anche ad altri ragazzi che fanno spesso allenamento nella palestra abusiva. 
Io non sto male, qui. Non sto male perché inconsapevolmente ho Ashton che inizia a far parte di me. Ho i suoi occhi, le sue labbra, il suo sorriso macchiato di pentimenti e delitti. Cosa siamo, io e lui, non lo si sa. Siamo un casino, probabilmente. Siamo un intreccio di vite marce. E non ci importa. 
"Non hai sete?" mi domanda, ed io scuoto la testa. 
Lui beve uno o due bicchieri ed ogni tanto intona alcune strofe di canzoni che passa il dj. Sembra sereno, ma io so che non è così. Ed è strano, Ashton, perché sembra affacciarsi al mondo reale in cui è immerso solo poche volte. Ed è così che ora ripiega le labbra, si volta, mi guarda. E' serio, si è appena affacciato. Magari sta contando le persone che ha ucciso in questo mese, o quanti giorni di carcere mancano a suo padre. E mi posa una mano sulla coscia, me l'accarezza, cerca conforto. Come a dire: ora che ho trovato qualcuno a cui appartenere, non puoi farmi affogare, restami vicina, ancora. 
Io rispondo ricambiando lo sguardo, e poi mi cade l'occhio sulla sua tasca, scoprendo ancora il coltello. Ashton si sporge, si avvicina al mio orecchio. "E' per proteggerti." e mi posa un bacio semplice sulla guancia. 
Non ha più detto "per proteggere i miei compagni fedeli", ma per proteggere me. 
Qualcosa, che sta nelle pallottole di una pistola, nei coltelli sporchi di sangue, nei lividi violacei, è cambiato.
Restiamo al Block per almeno un'altra ora, trascorsa ascoltando i vari dibattiti tra i ragazzi. Ashton è stato perlopiù partecipe, ma sempre incline a regalarmi attenzioni. Quando è ora di andarcene, è un po' esitante. 
"Vado ad avvisare tuo fratello che andiamo a casa mia. Non so quando lui finirà. Aspettami qua, va bene?" 
Annuisco, restando seduta, sotto la vigilanza di Michael. Ashton torna dopo alcuni minuti, col suo passo deciso e lo sguardo che guarda altrove. 
"Andiamo" esordisce, ed io e Michael ci alziamo.
Il Block è ancora vivo, ma per noi è ora di ritirarci. Saliamo sulla macchina di Ashton, che sfreccia veloce nel buio della notte. Dovrei aver paura, forse. Ma la pietra non ce l'ha. 
La vettura si ferma in una strada completamente immersa nel nero più totale. Niente lampioni, niente strisce pedonali, niente marciapiedi. E' qui che scendiamo, mentre entrambi i ragazzi continuano a guardarsi intorno. Davanti a noi c'è una grande casa, la loro casa. 
"Abitiamo insieme" mi informa Ashton. "Ed anche con qualche ragazzo della palestra."
Entriamo all'interno della struttura, parecchio spaziosa. Ci sono tanti corridoi, tante stanze, ma anche tanto disordine, a cui io non do importanza. Ed Ashton sa che a me non importa del casino che in casa c'è, perché siamo uguali, noi. La vera vita non sta in questo.
Michael posa le chiavi sul tavolo del salotto e sparisce alla fine di un corridoio. 
"Seguimi" mi ordina Ashton, salendo su delle scale. 
Obbedisco e mi conduce in una stanza, abbastanza spoglia ma accogliente. Riconosco alcuni suoi vestiti sparsi sul pavimento e su una scrivania. 
"E' tua questa camera?"
Annuisce. "Vado a farmi una doccia, tu stai qua. Se senti rumori sospetti, vieni in bagno e fammelo capire, ma senza urlare." E, detto questo, prende dal cassetto un paio di boxer e se ne va. 
Io mi siedo sul letto disfatto, sfilandomi i pantaloni e spegnendo la luce. Mi chiedo come Luke abbia permesso di farmi restare a casa sua: deve fidarsi davvero tanto. E' per questo che non mi preoccupo, che mi va bene così. 
Ashton dopo poco riapre la porta, si affaccia solo per metà, ma riesco comunque a vedere il suo corpo coperto solo dai boxer. Sento le mani sudarmi, il respiro appesantirsi. 
"Hep?" sussurra.
"Sì?"
"Non stai dormendo?"
"No, cosa stai facendo?"
"Non lo so. Vuoi che resti con te?" 
Sto zitta per qualche secondo. Alla vista di Ashton capisco che non mi faccia l'effetto giusto. E' bello, bello da morire. 
"Resta." 
Apre di più la porta, per poi richiudersela alla spalle. Il suo corpo assomiglia tanto a quello di Luke: così macchiato, pieno di lividi, cicatrici. Ma la pelle abbronzata, in confronto a quella chiara di mio fratello, smonta tutto. 
Ashton alza le coperte, io mi sposto più in là. Si intrufola nel letto, ancora un po' bagnato, mettendomi dei brividi. 
"Se non ti asciughi i capelli e vai a dormire ti verrà mal di testa."
Lui si stringe nelle spalle, non gli frega di niente. La mia mano va, senza nessun ordine, ad accarezzare quei capelli in disordine, senza alcuna logica. Sento il corpo di Ashton rompere quell'irrigidire a cui è sempre sottoposto e si rilassa. 
"Luke lo sa, che sono qui?"
"Sì. O almeno, non che siamo nello stesso letto." 
"Perfetto, resterà tra noi."
Rialza le spalle, non lo tocca niente. Ed io perdo nei suoi lineamenti, nel suo accenno di barba, e in quel naso simmetricamente perfetto, e in quelle labbra rosee e morbide. In questo momento, tutto ciò che è Ashton Irwin mi sembra perfetto. Una persona così giusta non deve essere ammessa in quel mondo schifoso in cui vive. 
"Quante persone hai ucciso?"
Le sue labbra si distanziano di poco, ed io seguo quel movimento. Poi mi guarda col suo verde accennato e vuole essere sincero per una volta.
"Poco più di venti, meno di trenta."
Il mio sguardo va sui suoi denti, sulla bocca, sulle fossette. Non mi frega di ciò che ha detto, io lo bacio. Lui non ne rimane sorpreso e non mi mostra un rifiuto. Ricambia, ricambia perché è così che ci salviamo. E' adrenalina, quella che mi sale, o forse felicità che strabocca, nel petto. Come quando vorresti prenderti tutto, consumare quella persona, ma c'è un confine e quel confine non lo puoi superare. 
Ma la sua lingua non osa abbandonare la mia, e la sua mano corre sul mio corpo. Si stacca, di colpo, e "I pantaloni" dice. 
"I pantaloni cosa?"
"Non li hai" constata. Potrebbe sembrare sorpreso, forse allarmato. 
"No. Avevo caldo." 
Ritira la mano e pensa mentre mi osserva. Vuole dire qualcosa, ma non sa come. Io lo aspetto. 
"Non puoi far così. Cioè, non posso io, forse. C'è questo concetto del non potere, comunque." Corrugo la fronte, palesemente confusa per ciò che ha detto. "Potrebbe finire male, se tu sei per metà nuda. E' una provocazione che va oltre a tutto." 
A questo punto, mi spunta un sorriso inevitabile sulla bocca. Si capiscono tante cose dai balbettii delle persone, dai loro movimenti, dai loro gesti, dalle loro espressioni. Ed io capisco che Ashton ha una concezione del proibito che si estende sulle sorelle dei propri compagni. Perché, fin quando il tutto si nasconde tra baci proibiti e parole taciute, va tutto bene. Ma si concretizza tutto solo quando ci va di mezzo il sesso, e lui si blocca. Si tratta di rompere la fiducia dei tuoi compagni fedeli. 
"Ashton..."
Deglutisce velocemente, non sa cosa fare, non sa cosa pensare. 
"Senti, fai una cosa: baciami un'ultima volta e poi dormiamo." 
Mi avvicino lentamente, aumentando il suo desiderio, tanto che è lui ad accorciare le distanze e a baciarmi. Inizialmente sembra solo un semplice ma lento bacio, ma poi cattura il mio labbro inferiore, facendo uscire un gemito dalla mia bocca. E' qui che Ashton avvicina di più il suo corpo al mio. E' un corpo che conosco già, che ho già percepito. Ma senza alcun impedimento, senza alcun indumento, la storia è un'altra. Posso subito sentire il suo principio di erezione dai boxer, i suoi addominali, i suoi muscoli allenati giorno dopo giorno. 
La sua mano incontra la mia, e la prende, posandola sul suo torace. E' così che Ashton conferma le mie teorie, con la sua irrazionale voglia di appartenere a qualcuno, di non perdersi nella notte. 
Ed io sono lì. 
E la mia mano vaga, tastando ogni parte, toccando lembi di pelle più sensibili, sentendolo sottrarsi al mio tocco. Fino ad arrivare all'elastico dei boxer, che giuro di non togliere. Non ci mostreremo al mondo sporco, noi. Resteremo nascosti, nel nostro.
Ashton trattiene il respiro, così come farà spesso in quella nottata. E' una notte in cui il sangue viene coperto da teli, in cui gli sguardi perdono colpevolezza, dando vita ad un'improvvisa innocenza. Respiriamo aria nuova, la nostra, quella non contaminata dalla mafia. Per una notte, non pensiamo più a ciò che ci aspetta fuori da questo letto, fuori da questa camera, anche se sappiamo ci sta aspettando. 
Siamo io e lui, immersi in una fusioni di corpi e capisco che sì, Ashton mi basta.


E' mattino. Lo capisco dalla chiara luce che penetra dalla finestra, dal continuo canto degli uccelli. Ashton è al centro della camera, sembra preso da una fretta assurda, si infila i pantaloni di una tuta grigia, cercando di rimanere in equilibrio. Poi si ferma, mi regala uno sguardo, giusto per accorgersi del mio risveglio.
"Sta arrivando tuo fratello" mi informa, entrando in una canottiera nera ed attillata. "E' tempo di vendetta" annuncia, per poi uscire dalla stanza.
Io mi rivesto, cancellando ogni segno che appartenga sia a me, sia ad Ashton. Luke è lì cinque minuti dopo. Ha un grande borsone in spalla, un paio di jeans neri ed attillati, abbinati ad una semplice maglietta, coperta in parte da una giacca in jeans, entrambe dello stesso colore. 
"Hep" mi saluta subito, circondandomi con quelle braccia che diventano giorno dopo giorno sempre più potenti. "Stai bene?"
"Sì, e tu?"
Mi osserva, alla ricerca di qualche traccia persa nella notte. Ma non ne trova. "Sì, anche io."
Mi posa un bacio sulla fronte e va a prendersi un bicchiere d'acqua, segno che questa sta diventando anche la sua casa. 
"Ehi, Luke. Tutto bene l'allenamento di ieri?" entra in scena Ashton, sceso dalle scale del secondo piano.
"Sì, sì. Ce le siamo date di santa ragione" ironizza.
Ashton ascolta, ma nel frattempo mi lascia sguardi fuggitivi, forse un po' complici, per vedere se la verità di quella notte resterà ancora per molto tra noi. 
"Bene. Io ho un piano" comincia, poggiando la mano su una porta, mantenendo il peso.
"Sentiamo."
"Potremmo fare un'imboscata." Luke lo guarda, e la tensione cresce quando "Ma c'entra anche lei" ammicca. 
Mio fratello rimane lì, fermo, inerme, col suo bicchiere in mano. I suoi occhi cristallini passano da me ad Ashton, con un ritmo pauroso. 
"Lo sappiamo tutti che quegli stronzi hanno il controllo della città. Sappiamo anche quali zone sorvegliano, sappiamo che i loro occhi sono sempre puntati su Jhon Fisher Park. Potremmo farla restare lì poco, davvero il giusto per far sì che si accorgano di lei. Ormai è scontato che la vogliano. Noi saremo lì, non lasceremo e non lascerò che le facciano del male. So quant'è importante per te, so-"
"Ashton, è tutto ciò che mi rimane" lo ferma Luke, con un tono serio, che non ammette niente di niente.
"Cazzo, so anche questo. Ma lì interverremo noi, con tutti i ragazzi della palestra. Lo vuoi vendicare, Calum?"
Ci pensa su, elabora ciò che ha in testa, punta gli occhi in basso, li rialza. "Sì."


Ho sentito gente che diceva che la paura è un'intensa emozione derivata dalla percezione di un pericolo, reale o supposto. Nel mio caso, il pericolo è reale, è vivo, è proprio davanti a me. Luke ci prova, a farmi capire che si può avere paura insieme.
"Non ti farò far del male. Ti vengo a prendere, Hep. Ok?"
Ok, Luke. Ti aspetto, l'ho sempre fatto. Sei tu che non aspetti me da un po' di tempo, e forse ora le cose si stanno ribaltando. Te lo faccio vendicare, Calum. Solo, ti prego, aspettami. Aspettiamoci, una volta tanto.
Attraversiamo Old Pittwater Road a fari spenti, con un camioncino rubato due anni fa da Ashton. Michael sembra il più calmo di tutti. Luke è un unico fascio di nervi, che mi tiene la mano e non vuole lasciarmi più. Ha paura, anche lui. Ha paura perché tutto ciò che gli rimane sono io.
Ashton, invece, guida piano, per passare più inosservato. Scendiamo di fianco al parco, non sono ammessi rumori, nemmeno parole: tutto è già stabilito. Luke mi guarda un'ultima volta, prima di inoltrarsi nel parco. Ashton mi sfiora impercettibilmente la mano e se ne va, seguendo Luke. Inizio a camminare, squarciando il silenzioso buio della notte, sentendo il resto dei ragazzi nascondersi. E' questione di minuti, ed una luce si sofferma su di me: mi hanno intercettata. 
Non fermarti, qualsiasi cosa dovesse succedere, mi ha detto Ashton. Allora continuo, passo dopo passo, e il battito del mio cuore accelera secondo dopo secondo. Mi è chiaro, dopo, il rumore delle suole a contatto col terreno, proveniente da sinistra. Sono qui. E sono tre i secondi che passano, prima che si scateni il tutto. Riesco solo ad individuare due uomini, e il mio braccio viene tirato dalla mano di Michael per farmi fuggire. I ragazzi escono allo scoperto, mentre io corro, corro verso il furgone, fino a non sentirmi più le gambe. Si sente il rumore di tre colpi, tutti partiti da una pistola semiautomatica. E' quella di Luke, ed è questo che mi basta sapere per ritornare a respirare regolarmente. 
Quella sera, Luke uccise due uomini. Tornò da me, abbracciandomi, sporco di colpa, macchiando anche me. L'avevo aspettato, mi aveva aspettata.
In bocca aveva il sapore della vendetta.

Sono passati alcuni giorni. Più di cinque, meno di dieci, da quei colpi di pistola. Tra di noi non si è più detta nessuna parola, riguardo quella sera. Anche Brookvale sembra taciturna: sono stati spesi non più di due minuti al telegiornale dell'altra sera per parlare dell'uccisione. La mafia di Ashton - anche se a lui non piace chiamarla così - agisce in silenzio.
Oggi, che non è poi un giorno diverso dagli altri, ci troviamo nella solita palestra. Dopo cinque ore di scuola, ci siamo diretti qui, ed è da più o meno un'ora e mezza che Ashton controlla i ragazzi e Luke. Urla, urla come un matto, si incazza coi colpi deboli. Luke gira attorno al sacco, scarica tutta la sua rabbia addosso ad esso. I suoi muscoli si flettono, chissà per quanto resisteranno a quell'immane sforzo, ed Ashton pretende sempre di più.
"Attacca di destro! Uccidilo!" e gli gira intorno, lo osserva, lo sprona.
Io sto seduta, con la schiena appoggiata al muro, cercando di studiare gli appunti di storia. 
"Basta! Giù, venti flessioni!" 
Luke obbedisce e si abbassa al suolo freddo e sudicio. Fa otto flessioni. Alla nona si ferma, e il corpo si scontra col pavimento. Ha il respiro pesante e lento.
"Beh? Cosa mi significa questo?" chiede Ashton, alterato.
Luke si alza lentamente, si posa una mano sul petto e "Devo vomitare" avvisa, per poi correre negli spogliatoi. Io mi alzo da terra, raggiungendo Ashton.
"Continui così e lo ammazzi" comincio io.
Lui sta zitto, mentre si posa un asciugamano sulla spalla e raccoglie le sue cose. Si dirige verso la porta dello spogliatoio, la apre di poco e "Cambiati pure, andiamo a casa" avverte Luke. Poi torna da me. 
"Grazie" gli dico.
"Penso che dovremmo dirglielo, comunque" cambia discorso.
"Dirgli che cosa?"
"Di questo" risponde Ashton, indicando se stesso e me. E' prepotente, pensa di non far male a nessuno.
Io fingo che niente mi possa toccare. Ed anche lui, forse, crede di non farmi del male. Perché io non glielo mostro. Ma Ashton è uno di quei ragazzi che agisce senza pensare, che ha l'aggettivo stronzo cucito sulla pelle. E' odioso, perché la si può solo odiare, una persona così.
"Come vuoi" gli dico io, fingendomi indifferente.
Purtroppo lo puoi odiare solo se non sei me. Perché io ed Ashton siamo troppo uguali, e lui per me è una sfida. Non posso snidarlo da me stessa, non posso sostituire la sua faccia con una qualsiasi faccia. 
Quando Luke è pronto, saliamo in macchina e ci dirigiamo verso la casa di Ashton. 
Sembrava una solita giornata. E lo sembra fin quando non intravediamo una Ford nera davanti all'abitazione. Parcheggiata per metà su quel ristretto marciapiede, quella macchina pare aspettare solo noi. Ashton rallenta e si ferma, continuando ad esaminare la vettura.
"E' tornato" sussurra a se stesso.
E scende, sbattendo la portiera. La pioggia che cade di traverso, gelida, sembra tagliargli il viso. In pochi secondi i suoi vestiti si fanno più pesanti e scuri, ma a lui non importa. Un uomo gli si avvicina e, andando contro ogni morale, Ashton lo abbraccia. Lo abbraccia come si abbraccia una persona che si può perdere ogni giorno, una persona che parte e non si sa più se tornerà, una persona che è tornata e non si vuole più lasciare. Come si abbraccia un padre tornato dal carcere.
Luke mi guarda, come a dire l'hai visto anche tu? e non riesce a credere. 
"Scendiamo" propongo io.
In pochi attimi anche io mi ritrovo sotto la pioggia tagliente ed Ashton è ancora tra le braccia di suo padre. E poi le vedo, quelle lacrime che gli accarezzano le guance e scendono prepotenti fino al mento. Ashton non piange mai. 
Lacrime ed acqua sono diverse, lo si sa. Ma anche quelle della mafia, lo sono. Sono quelle più visibili, quelle più rare, quelle che sanno di dolore, orgoglio, pentimenti. Ashton sembra piangere il sangue di tutte le persone uccise.
Ma ha aspettato suo padre, questo conta.
Abbiamo tutti una persona che ci aspetta.

"Hepsie" mi presento, quando siamo entrati in casa.
"Daryl" mi stringe la mano, ha una presa salda. 
E' un uomo che avrà una quarantina di anni, ben piazzato, che porta ogni segno della mafia. La stessa mano che ha stretto la mia, potrebbe aver stretto il collo di una persona, fino ad impedirne la respirazione. Deglutisco. Mi guarda, quasi come se avesse capito ciò che sto pensando, e scopro lo stesso colore dell'ambra di Ashton, forse con meno verde. Ma ha anche lui quel senso di riconoscimento del confine. 
Anche Luke si presenta e, nel frattempo, dedico uno sguardo di sfuggita ad Ashton. Mi avvicino, gli sfioro la mano: siamo ancora nascosti al mondo. Ha paura di ciò che gli accade attorno, perché non è abituato a vivere situazioni non programmate. E' ritornato suo padre, è arrivata una possibilità di tornare a vivere.
Poi Daryl si siede sul divano, Luke lo imita.
Sei da tanto fuori dalla porta? Sì. Bene, beh, mi dispiace. Sei uscito da tanto dalla gattabuia? No, tre ore. Ok. Sì. La situazione è questa. E non c'è tensione, solo domande improvvisate.
"Ashton... Ho collaborato con la giustizia, un'altra volta."
Ashton lo guarda negli occhi, mentre parla. 
"Ma ho mentito. Ho mentito per te. Perché è ora che tu ne esca fuori, da tutto questo. Ho sentito di quello che hai fatto l'altra sera, gliene hai uccisi due. Hai fatto una totale stronzata, lo sai, ma ora non ti cercheranno più. Ho testimoniato a favore loro, ho ritirato gran parte delle cose dette in precedenza."
Ashton vorrebbe sorridere, vorrebbe fare qualsiasi cosa che non sia stare inerme. Ma ha questo peso sui ripiegamenti della bocca che non lo possono far sorridere. Però ha l'animo più leggero, glielo si legge in faccia. 
A me viene da abbracciarlo, e lo faccio. E' un pezzo di ghiaccio, il suo corpo, a contatto col mio.
"Come ti senti? Felice?" gli chiedo, sussurrando, facendo sì che nessuno possa sentire.
"Non lo so. Strano."


Il mattino dopo, a scuola, Ashton è un'altra persona. Non ha più ossessioni, non si sente più in dovere di continuare a guardarsi le spalle. Lascia anche più libertà a me.
Non ci sono più paure.
Forse sì, ma solo una, solo mia. Si chiama Luke. Il suo passare gli occhi su me e due secondi dopo su Ashton mette i brividi. Capisco le sue perplessità, le si trovano nel suo disperdersi, nel suo battito di ciglia impercettibile, nei suoi attimi di silenzio prima di parlare. Luke pensa. Lo fa in silenzio, ma io me ne accorgo. Io mi accorgo di tutto.
Sono sovrappensiero, mentre cammino per il corridoio sotterraneo della scuola, che collega gli spogliatoi alla palestra. Ho rinunciato ad educazione fisica anche oggi, probabilmente per sfuggire una volta di più a Luke. Dallo spogliatoio femminile esce una figura. Mi bastano altri due passi per riconoscerla.
"Ashton?" 
La mia voce rimbomba tra le mura. Sul suo volto c'è un'espressione di compiacimento, che io non riesco a decifrare.
"Piccola."
Piccola.
Ormai sono davanti a lui. "Che ci fai qua? Dovresti smetterla di saltare le lezioni."
Lo sorpasso, entrando nello spogliatoio per cambiarmi più in fretta degli altri mentre restano in palestra. Mi siedo sulla panca, sotto lo sguardo vigilante di Ashton, che mi si avvicina. Ha quello sguardo da strafottente che mantiene spesso dal primo giorno in cui l'ho visto, ed io non lo sopporto. Gli spaccherei la faccia.
"Senti, se devi fare il coglione, avvertimi" affermo, cercando la mia maglia di ricambio.
"Hep, ricordi quando ti ho detto di informare Luke di noi?" Alzo un sopracciglio. "Io sì. E ricordo anche la tua risposta."
"Non ho cambiato idea."
"Potresti, però." E, detto questo, alza un braccio, prima nascosto, e mi mostra la mia stramaledetta maglia.
Mi alzo di scatto, per tentare di strappargliela di mano, ma Ashton ha già un programma. Ed io sono nella sua trappola. Mi blocca il polso, senza farmi troppo male, e posa le sue labbra sulle mie. Io mi stacco, tentando un'altra volta di prendere la maglia. Fallisco ancora, ed Ashton si riappropria delle mie labbra. Indietreggia, spingendo il mio corpo sempre più vicino al muro, fino a quando la mia schiena non incontra la superficie gelida. Dà una tregua al mio respiro, scendendo a baciarmi il collo. 
"Stai giocando sporco" lo accuso, sentendo sempre più mancanza di aria.
Ashton ride. "Lo so" mi dice, mentre la sua lingua a contatto con la mia pelle mi provoca brividi per tutto il corpo. 
Poi il suo palmo della mano preme contro il muro, sostenendo il peso, e la mia maglia, tanto bramata, non interessa più a nessuno dei due. La sua altezza mi sovrasta e, invece che sentirmi piccola, mi sento semplicemente protetta. E' strano l'effetto che Ashton mi fa.
"Ok, ok. Glielo diciamo" sbotto alla fine, quando la sua mano era ormai scesa sul mio fianco. 
Ashton mi passa la maglia, con un sorriso bastardo in volto.
"Sei uno stronzo."
"Lo sei anche tu. Vieni qua, vieni qua." E mi cattura in un abbraccio, per poi lasciarmi un bacio tra i capelli. 
"Sai cosa, Ashton? Dovresti chiudere la palestra. Basta, ora hai la possibilità di ricominciare" gli dico ciò che penso, lasciandomi abbracciare.
Lui non risponde, lasciando nell'aria solo il suo profumo.
La campanella suona.
"Potresti farlo per me, per Luke. Potresti salvare mio fratello da ciò che l'hai fatto diventare. Potresti salvare te stesso." 
Ashton mi dà un ultimo bacio e, quando si allontana dalle mie labbra, "Solo se adesso, appena esce dalla palestra, gli diciamo la verità, cosa siamo io e te" decreta. 
"E cosa siamo, io e te?"
"Non lo so, ma sento che ti darei la vita. Davvero, così, su due piedi, se uno dei due dovesse morire, mi offrirei io."
Nello spogliatoio entrano alcune ragazze. Ci guardano, corrugano la fronte. Ma non lo possono sentire, questo povero organo che tenta di bucare il petto. Ed Ashton è un bastardo, capace di far battere così forte il cuore di una stronza. 
Ci vuole coraggio a far rivivere una morta come me.
Usciamo dallo spogliatoio, mano nella mano, andando in controcorrente agli studenti. Solo io lo so com'è il rumore delle schegge di vetro che cadono a terra, e il dolore che provocano quando ti si conficcano sotto pelle. Luke non si deve rompere. Non può, ma Ashton non lo sa.
E Luke è ormai di fronte a noi, sta parlando con un suo compagno di classe. Sta sorridendo per metà. E' sudato, dopo l'ora di educazione fisica e non si accorge di niente. 
"Luke." è Ashton a chiamarlo. 
Mio fratello si gira, la sua espressione tramuta. 
Fissa me, poi Ashton. Ed infine le nostre mani, che sono unite. Gli studenti rientrano negli spogliatoi, ma noi no.
"Cosa ci fate qui?" domanda, quasi con fare accusatorio. 
"Dobbiamo parlarti." 
Luke si passa una mano tra i capelli, e solo io posso interpretare la sua agitazione. 
"Io e tua sorella siamo qualcosa di più che amici. Non siamo prossimi al matrimonio, sia chiaro. Ma ci dispiaceva lasciarti all'oscuro di tutto questo."
La mia mano va a stringere più forte quella di Ashton. Dalle gambe in giù sento di essermi congelata. Il mio cuore, quello pare essere l'unica parte di me che si ribella alle emozioni. Ci sono attimi di silenzio, in cui ci scambiamo degli sguardi. Luke non ha davvero idea di cosa dire, riesce solo a trapassare il suo azzurro nei miei occhi. Starà pensando che no, non siamo riusciti a fregarlo, perché se n'era accorto prima, già da quel giorno in palestra. Mio fratello non è stupido. 
"Ma ti aspetto, Luke. Non vado da nessuna parte" affermo, rompendo quel silenzio. Solo io e lui sappiamo cosa significa quella frase. Ashton non può capire, ma sta zitto. "Siamo ancora noi, non cambia niente."
Luke capisce che nella vita ci sono le cose che vanno e le cose che vengono. Capisce anche che c'è una via di mezzo, che sta a metà tra le due, e porta il nome di Hepsie. Capisce che le cose non possono appartenere per sempre ad una sola persona, senza mai perdere alcuni pezzi per strada. Capisce che non potrà più avermi come quando avevo tredici anni. 
Io l'avevo capito due mesi fa, lanciando quel bicchiere dalla finestra. 
La mia mano lascia quella di Ashton e le mie gambe mi conducono da Luke. E' automatico: ci abbracciamo. Non c'è altro modo per stabilizzare il vuoto che si è creato in lui. E non le sento, le schegge, mentre mi stringe a sé.
"Stai bene?" gli chiedo, sussurrandogli nell'orecchio. 
"Starò bene. Perdonami."
Non avevo capito che il vetro rotto avrebbe fatto male a qualcun altro.

In ventiquattro ore possono succedere troppe cose. I giorni possono sembrare anche squarci di inferno, alcune volte.
Siamo quasi in anticipo, Io e Luke, quando entriamo nel parcheggio della scuola. Luke butta il mozzicone a terra e lo calpesta con la suola. E' tranquillo, forse un po' taciturno. E poi ha lividi sul braccio e un taglio che si protrae sul sopracciglio destro, che io proprio non riesco a catalogare. Mi rimbombano in mente le ultime parole di Ashton, mentre lo cerco con lo sguardo. Il suono della campanella primeggia su tutto e "Vai in classe" mi dice mio fratello.
"E tu non entri?"
"Sì, andiamo."
"Ma hai visto Ashton?"
"No" risponde, senza esitare. Poi, come a rimediare quella risposta frettolosa, "Tu?" mi domanda.
"No."
Altri dieci passi. Passiamo dalla porta centrale, insieme ad alcuni studenti. La chiamano sesto senso, quella spinta che mi arriva per girarmi. E' semplice: basta voltare il capo, qualche nano secondo e la figura di Ashton Irwin che si inoltra per il cancello del parcheggio è ormai focalizzata. E rientrerebbe in ciò che noi comunemente chiamiamo normalità, se sul suo volto non ci fossero i segni che hanno lasciato mani violente, mani in preda all'ira.
Ashton si fa sempre più vicino, così come le sue ferite. Cammina a testa alta, coi piedi che non hanno paura di calpestare il suolo. Mi intercetta con lo sguardo, e sento quasi il silenzio rimbombargli dentro. 
"Ashton..."
Ha uno zigomo rosso, forse tendente al violaceo; l'occhio sinistro quasi impercettibilmente gonfio, ma accentuato dal nero che lo contorna. Ha la solita bandana, ma dalla quale nasce un taglio, sì e no di qualche centimetro. Sembra aver lottato col diavolo, stanotte.
"Ashton, cosa cazzo hai combinato?"
"Niente." Gli esce una voce bassa, che fa abbastanza male.
E il suo sguardo si posa su un qualcosa che sta dietro me, o meglio, su un qualcuno. E' uno di quegli sguardi che parlano, che sottintendono troppe parole, che ti fanno irradiare brividi per tutto il corpo. Allora mi giro e tutto quello che vedo è Luke. Ashton mi posa una mano dietro la schiena. "Andiamo in classe." 
Mio fratello non dice niente, ed è proprio quel silenzio urlante che mi fa capire. E' il prezzo stabilito da Luke, è il prezzo che bisogna pagare per avermi. 
Sto zitta. Ci sono emozioni, dolori, pensieri in cui nessuno, che non sia tu stesso, può entrare. E' un accesso riservato, riservato a quelli come me, che hanno delle spugne incorporate, che assorbono ogni tipo di dolore e che marciscono dentro.
Cammino lo stesso, senza dire una parola. Penso di volergli riempire la faccia di schiaffi, di sfigurarlo con le mie stesse mani. Però ho imparato a mie spese che a volte il silenzio è l'unica cosa che riesca a distinguersi in questo intero casino di rumori.

Ma il giorno continua. Quelle ventiquattro ore persistono, e non intendono passare velocemente. Io non ce la faccio a pensare a qualsiasi cosa che non sia Luke. Sono pensieri incontrollati, che non si possono gestire, che trascinano una rabbia che comprime. Continuo a pensare perché non so. 
Non so che, nel corridoio parallelo al mio, due studenti sono stati chiamati ad abbandonare le lezioni scolastiche. Non so che la polizia è in possesso di schede piene di reati, foto, intercettazioni. Non so che ad entrambi tremano le gambe e sudano le mani. Non so nemmeno che si rendono conto solo ora di aver sorpassato di troppo il confine, e questo fa paura. 
Fa paura perché quei due studenti portano i nomi di Ashton e Luke.


Aprile 2014
Me li avevano portati via, tutti e due, e se li erano tenuti per tre settimane e due giorni. Erano stati accusati di associazione mafiosa, arrivando fino al processo di secondo grado. C'erano quattro foto, scattate chissà in quale parte della giornata, che ritraevano Luke ed Ashton che entravano ed uscivano dalla palestra abusiva. Erano una delle prove.
Io prendevo posto in aula ed ascoltavo, seduta di fianco al padre di Ashton, che era fin troppo abituato a questi processi. Luke mi guardava e coi suoi occhi azzurri mi chiedeva scusa. Aveva paura di rimanere in carcere e finire il resto dei suoi giorni lì dentro, a marcire, a soli diciassette dannatissimi anni. Ashton forse se l'aspettava, perché la libertà non è per tutti.
Non so, sono convinta del fatto che, una volta che il dolore ti accarezza, ne si riproduca l'eco fino alla fine dei propri giorni. In ogni gesto, sguardo, passo. E' una cosa spaventosa.
Ashton e Luke sono stati assolti una settimana fa. E la palestra, quella che è stata spettatrice del nostro degradare sempre di più, ora non è altro che il piano sotterraneo del Block. I ragazzi che la sera si vanno a divertire, che si concedono a più persone in una sola notte, non possono nemmeno immaginare la piccola vita che io e gli altri ci eravamo creati lì dentro. Siamo stati silenziosi, noi.
Mio fratello ed Ashton sono anche tornati a scuola. Hanno perso l'anno, entrambi, ma hanno recuperato la loro amicizia. Se la sono vista brutta, per quelle tre settimane ed, essendo riusciti ad uscirne, hanno capito di poter riporre fiducia l'uno nell'altro. E, quando mi hanno vista lì, seduta sul bordo del marciapiede ad aspettare la fine del processo, nessuno ha fatto distinzione. Entrambi mi avevano abbracciata ed io non potevo provare qualcosa che non assomigliasse alla felicità. Mi sentivo la loro casa, in quel momento.
E' solo una questione di aspettarsi. Tutti e tre l'avevamo fatto, almeno una volta.
Ashton, comunque, è rimasto lo stesso stronzo di sempre. Soprattutto ora, che passiamo la maggior parte della nostra giornata insieme, ho imparato a riconoscere le sue ombre. Ci sono angoli nel nero di Ashton, che sono come il peggio dentro al peggio e credo che, se si riesce ad amare anche quello, allora si è proprio innamorati di lui.
Ma mi ci vorrà del tempo per dirglielo.
Suo padre si è trasferito nel centro di Sydney, ma si sentono spesso. Quanto al mio, di padre, Ashton me l'ha confessato, dove è rintanato. Trascorre la sua latitanza nella campagna.
Ma oggi è il giorno delle rivincite, e non ci piace pensare a lui.
Luke è di là, nell'altra stanza, circondato da una folla di persone. E una tra quelle è Ashton, che combatte con lui e se vince Luke, vince anche lui. "La boxe legale è molto più complicata della mia" mi ha detto l'altro giorno.
Questo giro l'ha vinto mio fratello. Un ring è più giusto di un pavimento gelido e distrutto, che non ammette cadute. Ha steso il suo avversario in tre minuti, con le tecniche che gli aveva insegnato Ashton. Ma sono tecniche segrete, che sapranno sempre e solo loro.
Ashton è primo, nelle classifiche. E' stato nominato come l'esordiente più forte del momento, anche se si è iscritto soltanto una settimana fa. 
Non si sentono più sporchi, mentre si allenano e combattono. Sanno di star facendo il giusto, di non star oltrepassando il confine. 
E Luke ora mi si avvicina, mi abbraccia, ancora coi guantoni. E' sudato, ma non mi importa. Mi concentro sul suo sorriso, uno di quelli veri, che ripagano tutto il dolore che ho assorbito in questi ultimi mesi. Sto bene perché sta bene. 
Ashton mi guarda, dall'altra parte del ring e mi mostra il suo bicipite e mi mima con le labbra un "tanto sono più forte io di tuo fratello" che mi fa ridere. Poi mi soffia un bacio e io mi fingo offesa. 
Siamo due imbranati alle prese con l'amore.

Più tardi andiamo al cimitero, c'è anche Michael. L'unico rumore che si può udire è lo spostamento dei sassolini sotto alle nostre suole.
Calum Hood 
1996-2014
Guardiamo le incisioni su questa lapide, riconoscendola come la nostra sconfitta più grande. Ci fermiamo davanti, ognuno con i propri pensieri. Sappiamo che Calum resterà la nostra cicatrice più indelebile, l'errore che ricorderà tutti i mesi precedenti. 
Non doveva essere con noi, quella sera. Non doveva andare così. E noi non possiamo fuggire da noi stessi, da ciò che siamo. L'ho sempre detto. Ci sarà sempre qualcosa che testimonierà chi siamo davvero. E Calum lo farà fino alla fine.
Guardo Luke e vedo un ragazzo cresciuto troppo in fretta, ma so che mi aspetterà. Ashton mi prende la mano, me la stringe, mi fa capire che il dolore se ne andrà via del tutto solo se continuerò ad essere la sua àncora. Osservo la sua tasca e capisco che questi mesi ci sono passati proprio dentro, che li abbiamo sentiti tutti, giorno per giorno e che è servito affogare me stessa per portarlo a galla. Anche se alcune cose le si ha nel sangue.
Perché il suo coltello, quello non c'è più.




Ciao personcine.
Sono ancora io e mi dovete ancora subire dopo Two. Vi faccio i complimenti per essere arrivate a leggere fino a qua.
E' una os basata sulla mafia, un argomento che la maggior parte d'Italia ignora. Ma la gente, ignorando, fa mafia. 
E a parte questo, procede abbastanza lentamente, toccando argomenti che a me fanno abbastanza male. E' semplicemente un mio sfogo, per urlare a mio fratello ciò che non siamo. 
Passando ai personaggi, volevo farvi notare quanto la mafia abbia influito su di loro. I loro atteggiamenti, i loro modi di parlare, di essere. Ashton ed Hepsie hanno dei caratteri davvero forti, mentre Luke è perlopiù coperto da maschere, ma sono incollate male: lo si può vedere quando muore Calum. 
Spero di non essere andata sul banale, spero che a qualcuno piacerà. Non so, fatemi sapere.
Ringrazio Martina per il banner e per avermi subita con le mie strane idee.
Volevo solo farvi sapere che questa os è stata un parto perché non trovavo le parole giuste e boh, non è nemmeno il massimo, ma io la pubblico lo stesso.
Alla prossima! :)

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-Nali

 
  
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