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Autore: earlgreytea68    13/04/2014    4 recensioni
Le lettere sono state scritte e lette. Tutto quel che rimane è discuterle.
Genere: Angst, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Letters [ traduzione di _opheliac ]'
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Storia by earlgreytea68, originariamente postata su Archive Of Our Own, al link: http://archiveofourown.org/works/630360

Traduzione a cura di:  _opheliac.

Beta: PapySanzo89, come sempre se tutto ciò che leggerete avrà un senso, sarà fortemente merito suo.

 

Letters: Revisited

 

John aveva troppo fottutamente freddo per potersi preoccupare di cosa Sherlock pensasse nel trovarlo lì sulla soglia d’ingresso. Si era trascinato in mezzo alla bufera per troppo tempo e si infilò dalla porta di Sherlock, verso il benedetto calore, senza fermarsi a pensarci sopra, e così capitò che la prima cosa che disse a Sherlock Holmes, dopo aver scoperto della sua presunta morte, fu, “Per l’amor di Dio, chiudi quella porta, stai facendo entrare tutto il freddo.” e poi si rese conto di essere entrato con ancora gli scarponi da neve indosso.

“Che cosa stai...” disse Sherlock, e la sua voce non aveva lo stesso tono profondo che John ricordava, suonava rauca e arrugginita, e John pensò che era probabilmente passato molto tempo dall’ultima volta che Sherlock aveva parlato con qualcuno. “Che cosa stai...”

John riuscì a togliersi gli scarponi da neve e passò a levarsi il pesante zaino dalla schiena, poi il parka che gli si era congelato addosso, togliendosi infine i guanti irrigiditi dalla neve.

“Che cosa stai...” iniziò Sherlock, di nuovo.

John lasciò il parka sopra la borsa posata sulle scarpe da neve e puntò dritto verso il fuoco che ruggiva dentro al camino, rimanendo in piedi di fronte ad esso con le mani verso l’esterno. Bruciavano per il calore, e John le esaminò e decise che non erano assiderate e non avrebbe dovuto amputarsi nessuna delle sue estremità. E, per la prima volta da quando era arrivato, si voltò verso Sherlock, mettendosi il fuoco dietro la schiena, e lo guardò davvero.

Indossava vestiti che erano vecchi e logori e gli cadevano di dosso. Il classico guardaroba da depressione di Sherlock. Era magro, fin troppo magro, e la pelle era tirata sui suoi zigomi taglienti, e la curva della sua bocca era screpolata in una o  di sorpresa mentre guardava verso John. C’era un brutto livido  che stava sbiadendo lungo la linea della mascella, e le ombre sotto gli occhi erano così scure e profonde che John avrebbe potuto scambiarle per lividi. E stava stringendo, vagamente e con la sua solita inosservanza per la sicurezza, una pistola. Ma per quanto avesse un terribile aspetto – e aveva davvero un terribile aspetto, abbastanza da costringere John a trattenere un sussulto – aveva anche un aspetto dolorosamente familiare. Portava ancora i capelli leggermente troppo lunghi, i ricci arruffati in un lussurioso e naturale disordine sulla sua testa. Avevano bisogno di essere lavati e pettinati, ma erano ancora lì, come se stessero aspettando soltanto che le dita di John li scompigliassero. E i suoi occhi erano ancora chiari e inscrutabili, fissi su John. Sherlock non si stava muovendo affatto, a parte per un tic alle dita della mano che non stava stringendo la pistola che fece pensare a John al violino che aveva gettato in un deposito insieme al resto della roba di Sherlock perché non era riuscito a sopportare il pensiero di liberarsi davvero di quelle cose.

“Siberia?” chiese John. “A dicembre? Sul serio?”

Sherlock lo fissò un po’ più a lungo, e John avrebbe esultato per essere riuscito a lasciare Sherlock Holmes senza parole, se non avesse tradito quanto in realtà Sherlock fosse scombussolato e John era per lo più combattuto tra il coccolarlo dicendogli che tutto sarebbe andato per il meglio e lo scuoterlo fino a fargli battere i denti e non fargli mai più pensare di andar via di nuovo.

“Che ci fai qui?” chiese Sherlock, infine, stringendo le labbra in una linea sottile.

Beh, almeno era riuscito a pronunciare la domanda per intero stavolta, pensò John. “Vacanza.” rispose, sarcastico.

Sherlock lo ignorò. “Come hai fatto a trovarmi, prima di tutto?”

“Non essere idiota. Tu sei tu , e io sono io.”  

“Nemmeno Mycroft avrebbe potuto trovarmi. Ho fatto in modo che fosse una sicurezza.”

“Esattamente. Non sono Mycroft. Io sono io.” il tono di voce di John era piatto e impassibile ma il suo sguardo era serio, perché intendeva ogni singola parola. “Per quanto tempo hai pensato che tu potessi nasconderti da me?”

Sherlock, dopo un momento, sembrò decidere che la migliore reazione fosse mostrarsi irritato. “Devi andartene.”

John non era sicuro di come si aspettasse che Sherlock lo salutasse, ma doveva confessare che ciò su cui aveva fantasticato comportava la condivisione di un po’ più di calore corporeo. Forse avrebbe addirittura comportato un sorriso, un Sono così felice di vederti. “Cosa?” chiese.

Sherlock stava raccogliendo il cappotto di John, che stava gocciolando sul pavimento, e arricciò il naso con disgusto. “Vai.” disse. “Adesso.”

“Sei impazzito? C’è una bufera di neve là fuori.”

“Sei arrivato con la bufera, sicuramente puoi andartene allo stesso modo.” rispose Sherlock, con tono calmo. La sua voce fingeva di essere piena di logica, ma i suoi occhi erano tempestosi. Sherlock era chiaramente furioso nel vederlo, e John stava cercando di ricalibrare i suoi sogni e le sue speranze per come quel ricongiungimento si sarebbe svolto.

“Non ho intenzione di andarmene.” disse John, impostando le spalle di nuovo in posizione militaresca. Poteva essere testardo con i più ostinati tra le armi, certamente poteva tener testa alla testardaggine di Sherlock Holmes.

Sherlock gettò il parka di John nuovamente a terra come un bambino capriccioso. “Bene!” gridò. “Allora me ne andrò io!” marciò in direzione di quella che, John assunse, era la camera da letto della baita, poggiando con forza la pistola sulla scrivania del salone, riemergendo dalla stanza con indosso un pesante parka. Era così assurdamente grande su di lui che sarebbe stato comico se non fosse stato un po’ sconcertante. John lo guardò camminare pesantemente verso la porta e infilare i piedi nudi in un paio di stivali da neve che erano lì poggiati, e poi Sherlock si lanciò nella tempesta, sbattendo la porta dietro di sé.

John aspettò, perché Sherlock non era per niente attrezzato in maniera adeguata per affrontare quella bufera e da un momento all’altro sarebbe ricomparso da quella porta, coperto di neve e blu per il freddo, e lui sarebbe avanzato  lentamente verso il fuoco e avrebbero potuto avere una discussione adeguata come persone normali/compagni/migliori amici/coinquilini innamorati senza alcuna speranza, con finte morti aleggianti tra di loro.

I minuti passavano, e la porta rimase chiusa, e John si rese conto che aveva fatto il classico errore di sottovalutare Sherlock. Era fuori allenamento. Imprecando in un lungo flusso senza fine, John si coprì di nuovo col suo parka e si infilò nuovamente dentro gli scarponi da neve e riuscì a precipitarsi fuori dalla porta, nella tormenta.

Era buio, la neve rendeva tutto di un bianco impenetrabile intorno a lui, e John non aveva pensato di portare una torcia con sé. Non aveva nemmeno pensato di prendersi i guanti. Il freddo pungeva brutalmente le mani esposte ma lo ignorò abbastanza a lungo per riuscire a tirar fuori il cappuccio per cercare di proteggersi la testa, prima di spingere le mani in tasca. “Sherlock.” gridò nel bianco vuoto intorno a lui. “Sherlock!

Non ci fu risposta. Non ci fu nulla. John si guardò intorno selvaggiamente e sentì il panico fluire attraverso di lui. No, no, no, no, no, non aveva fatto tutta quella strada per ritrovare Sherlock vivo per poi vederlo immergersi in una bufera di neve e uccidersi. John fece un paio di tremanti e frenetici passi, quasi cadendo sulla neve, chiamando disperatamente Sherlock, e la neve gli stava scendendo giù per il colletto e il freddo stava rendendo i suoi movimenti goffi e lui era vestito in maniera adatta, Sherlock non era vestito per quel tempo - 

Alla fine  inciampò proprio su Sherlock, che si era incastrato fino alla cosce in un cumulo di neve. Si agitò un po’, un debole sforzo che John ignorò, tirandolo fuori e guidandolo con una mano attraverso la bufera, verso la baita, gridandogli contro per tutto il tempo. “Tu dannato stupido bastardo arrogante, ti ucciderò con le mie stesse mani. Come osi fare qualcosa di così stupido e sconsiderato.” caddero insieme attraverso la porta della baita, in un inelegante cumulo sul pavimento. Sherlock tremava in maniera incontrollabile.

“Tu insopportabile cretino egoista.” John gli disse, lottando per togliersi gli scarponi da neve e facendo alzare Sherlock. “Tu completo coglione.” spinse Sherlock verso l’altra stanza, che di fatto si rivelò essere una camera da letto. Quando John lo spinse sul letto, ci andò, e anche se cercò di calciare via John quando questi gli tolse gli stivali da neve, era un tentativo così vano che John si sentì stringere il cuore. “Sto per spararti.” gli disse John, tirando gli stivali “E poi ho intenzione di strangolarti.” Lo spogliò dei pantaloni del pigiama bagnati con spietata efficienza. “E poi finirò con l’avvelenarti.” John spinse Sherlock in un senso e nell’altro, mentre Sherlock mormorava delle proteste, così che potesse toglierli il parka di dosso. “E infine ti soffocherò.” John accumulò le coperte sopra il corpo di Sherlock.

“Puoi smetterla di urlarmi contro?” chiese Sherlock, tra i denti tremanti.

“No.” sbottò John, togliendosi il suo stesso parka. “Non smetterò mai di urlarti contro.” John strisciò sotto le coperte con Sherlock e disse “Fammi vedere le mani.”

“Lasciami in pace.” gli ordinò Sherlock, anche se era troppo debole per fare realmente qualcosa quando John gli afferrò le mani e le esaminò. Erano ghiacciate e un po’ arrossate, ma non congelate, forse appena un po’.

John, senza preamboli, le premette al di sotto del maglione e della t-shirt, contro il suo stomaco. Sherlock trasalì per l’improvviso calore.

“Stupido, stupido, stupido idiota.” disse John , guardando la punta rossa del naso di Sherlock.

“L’hai già detto.” Sherlock rispose, stancamente, alzando lo sguardo al soffitto. Sembrava come se tutta la voglia di lottare l’avesse abbandonato.

“Vale la pena ripeterlo. Avresti potuto ucciderti.” John si chinò a soffiare un respiro caldo sul naso di Sherlock, sperando di contribuire ad un più rapido scongelamento.

“Che importanza avrebbe avuto?” chiese Sherlock, annoiato. “Sono già morto.”

“No.” disse John, con forza. “No. Tu non sei morto. Sei qui, con me, e sei vivo. Sei così vivo. Il tuo cuore batte e i tuoi polmoni respirano e il sangue ti sta riscaldando le mani ancora una volta e sei davvero vivo, hai capito? E non sarai morto, mai più.” E poi John lo baciò.

Non aveva avuto intenzione di farlo. Era stato tutto molto improvviso e inaspettato, anche nella sua testa. Non che non ci avesse pensato, dopo aver creduto che Sherlock fosse sparito, che forse era stato un idiota a non aver pomiciato con Sherlock ad ogni possibile occasione, che forse era stato un idiota a fingere che fosse ancora completamente etero, che forse era stato un idiota a continuare a spingere via tutte quelle fantasie che volevano salire in superficie. E lo aveva pensato ancora di più dopo aver letto le lettere di Sherlock, mentre inseguiva le sue tracce dall’Argentina alla Siberia, che forse avrebbero dovuto solo baciarsi, forse non avrebbero dovuto fare altro che non fosse baciarsi.

Eppure, John non aveva avuto alcun pensiero cosciente che gli dicesse di baciare Sherlock fino a che non l’aveva fatto, e poi, quando si rese conto di quello che aveva fatto, quello fu il momento in cui Sherlock iniziò a rispondere al bacio. Fu un bacio disordinato, impacciato, urgente, e Sherlock si aggrappò a lui e lo tirò verso di sé, cercando di farsi più vicino, più vicino, e John riconobbe ciò di cui aveva bisogno e cercò di darglielo, incurvandosi più vicino che poteva verso Sherlock, mentre lui intrecciava le loro gambe e ansimava il suo nome un milione di volte in un milione di modi differenti.

“Sono qui.” John mormorò, cercando di essere confortante. “Sono qui adesso.”

“Mi dispiace così tanto, così tanto, così tanto.” cantilenò Sherlock tra ogni frenetico e disperato bacio che poggiava in qualsiasi parte del corpo di John che potesse raggiungere.

E John sapeva, oggettivamente, che Sherlock aveva una grande quantità di cose per le quali scusarsi, ma sapeva anche che in qualche modo non gli importava. Il suo Sherlock era un distrutto e  tremante disastro sotto la superficie e non c’era niente che John non avrebbe fatto per sistemare la cosa. “Non importa.” gli disse, carezzando la sua pelle, tenendolo stretto. “Non importa. Lo so.”

“Così tanto, così tanto, così tanto.” continuò Sherlock, e poi smise di baciarlo, premendo il naso nella curva tra collo e spalla, respirando forte e veloce. “John.” disse.

“Shh.” rispose John. “Sono qui e non ho intenzione di andarmene.”

Sherlock, rabbrividendo, torse le mani sul maglione di John e lo tirò incredibilmente vicino. “Mi dispiace così tanto.” buttò fuori con voce strozzata.

“Lo so.” John sussurrò nel cespuglio di disordinati capelli sporchi su cui premette la bocca.

Sherlock si fece più vicino, la presa ferma e stretta, e rimase in quel modo anche se John sapeva che alla fine si era addormentato, il suo respiro stabile e i brividi che si erano finalmente fermati. Anche in stato di incoscienza, Sherlock si aggrappava a lui.

John sapeva che lui stesso avrebbe dovuto essere stanco, ma non dormì poi molto. La sua posizione, sdraiato su Sherlock, era alquanto scomoda, e non osava lasciarsi andare con tutto il suo peso su Sherlock per non disturbarlo, né voleva muoversi in alcun modo tanta era la paura di svegliarlo. Sherlock aveva chiaramente bisogno di dormire. John non era sicuro che Sherlock riuscisse anche solo a ricordare l’ultima volta che aveva davvero dormito. Così rimase in quella posizione scomoda per ore, sonnecchiando ogni tanto senza mai addormentarsi davvero, sempre consapevole dei respiri costanti di Sherlock sotto di lui, di Sherlock che era vivo. Forse era un completo relitto, ma era vivo, e John era praticamente anche lui un relitto, quindi forse avrebbero potuto essere dei relitti insieme.

Quando Sherlock si svegliò, fu in maniera graduale, iniziando con un lento stiracchiarsi pigro sotto di lui e poi si irrigidì leggermente quando si rese conto esattamente di dove si trovava. John alzò la testa, guardando dentro i grandi occhi imperscrutabili di Sherlock, di un bel colore pervinca grazie alla luce pallida che inondava la stanza.

“Userò il bagno per primo.” disse John  “E dopo potrai lavarti e vestirti mentre io ci preparerò la colazione.”

Sherlock non disse nulla. Sherlock lo guardò, e John riuscì a liberarsi dalle coperte attorcigliate, sussultando a causa dei muscoli indolenziti, e sperò che Sherlock non avesse intenzione di darsi alla fuga non appena avesse chiuso la porta del bagno.

John desiderava una buona doccia calda, ma non voleva lasciare Sherlock da solo e incustodito più del necessario. Così si accontentò di una breve spruzzata d’acqua nel lavandino. Poi diede un’occhiata all’armadietto dei medicinali di Sherlock, rapidamente e sistematicamente. C’era una grande quantità di antidolorifici, e John se li intascò tutti. Era consapevole del fatto che avessero sparato a Sherlock non molto tempo prima, che fosse stato maltrattato, picchiato e lasciato a morire, perché aveva rintracciato Sherlock nell’ospedale argentino da cui era fuggito. Tuttavia, era anche consapevole della tendenza di Sherlock alla dipendenza, e non gli piaceva la presenza di tanti antidolorifici tutti insieme.

Sherlock era ancora a letto quando John uscì dal bagno. “Tocca a te.” disse, in maniera casuale, alla sagoma di Sherlock che non faceva un solo movimento, e attese finché non sentì la doccia in funzione prima di aprire la porta anteriore della baita. La bufera della notte prima era finita, e il sole era già alto nel cielo, accecante sulla neve cristallina intorno a loro. John strizzò gli occhi contro il bagliore e gettò la maggior parte degli antidolorifici il più lontano possibile, tenendone soltanto alcuni per qualsiasi cosa di cui Sherlock avrebbe potuto aver bisogno prima che potessero tornare a Londra. Poi rivolse la sua attenzione alla cucina.

Senza alcuna sorpresa, la cucina era in uno stato vergognoso. John si voltò verso lo zaino che aveva portato con sé e tirò fuori delle barrette proteiche con cui avrebbero potuto fare colazione, e poi scartò con cura il tè che aveva portato per Sherlock e mise una pentola d’acqua a bollire. Dopodiché posò il regalo che aveva portato per Sherlock sul piccolo tavolo da pranzo.

Infine si lasciò andare a fare un po’ l’impiccione, scrutando il pezzo di carta accanto alla pistola sulla piccola scrivania. Caro John, lesse, ma il resto della pagina era vuoto. C’era, però, un piccolo fascio di fogli accanto a quello vuoto, tutti girati dal lato posteriore, ma John poteva intravedere la scrittura dall’altro lato, e desiderò poterli prendere e leggerli.

Non lo fece. Era consapevole che lo Sherlock nelle lettere non era quello Sherlock che avrebbe voluto mostrarsi al mondo, che la reazione di Sherlock della scorsa notte era stato un istintivo ritorno nel proprio guscio, ora che le sue vulnerabilità erano state esposte, e non pensava che frugare tra le cose di Sherlock avrebbe reso le cose migliori.

Così stava osservando l’acqua che arrivava ad ebollizione, rimanendo testardo riguardo al proverbio, quando la porta del bagno si spalancò e Sherlock ne uscì e chiese, “Che cosa hai fatto con le mie pillole?”

John emise un suono vago e non alzò lo sguardo dal pentolino.

Sherlock marciò per la baita, gettando la roba per aria. “Ne ho bisogno. Mi hanno sparato e... altre cose.”

“Lo so.” disse John, gentilmente.

“Come fai a saperlo?”

John lo guardò per la prima volta. Era vestito con uno dei suoi completi perfettamente su misura, ma aveva perso così tanto peso che gli pendeva addosso. John avrebbe dovuto avere un attacco di profonda nostalgia alla vista ma in realtà era solo furioso con tutto quello che li aveva portati a quel punto. “Ti ho rintracciato, ricordi?”

La bocca di Sherlock formò una stretta linea di insoddisfazione. “Come?”

“Te l’ho già detto: tu sei tu, e io sono io. Non dentro casa.”

Perché Sherlock si era infilato una sigaretta in bocca e tirato fuori un accendino. Fissò John. “Cosa?”

John si disse che la sigaretta poggiata sulle labbra curve di Sherlock non era minimamente sexy. “Non ho intenzione di preoccuparmi di farti smettere di fumare finché non torneremo a Londra, ma non ho intenzione di farti fumare in casa mentre ci sono io. Ho troppo rispetto per i miei polmoni.”

“Ma... questa è casa mia.”

 “Lo so. E odora di fumo di sigaretta, è terribile.” l’acqua bolliva, e John prese il pentolino. “Vai fuori, se proprio devi.”

Fuori? In Siberia? A dicembre? Quello cos’è?”

John guardò alle sue spalle mentre versava il tè. Sherlock stava fissando il regalo sul tavolo, la sua espressione imperscrutabile. “È…” John annunciò “Il giorno di Natale. Buon Natale.”

Sherlock non si mosse. John portò le tazze di tè al tavolo. “Il giorno di Natale.” fece eco Sherlock. “No, non lo è.”

“Sì, lo è.” replicò John  e spinse il tè di Sherlock verso di lui. “Niente latte, temo. La tua cucina è in uno stato pietoso.”

Sherlock guardò il tè come se non lo capisse, poi di nuovo il regalo.

“Vai forza.” John lo incoraggiò, sedendosi e dandogli una barretta proteica. “Aprilo.”

Sherlock lasciò la sigaretta sul tavolo e prese il regalo e John sapeva che stava cercando di non sembrare eccitato e incuriosito ma senza davvero riuscirci. Sherlock strappò la carta e aprì la piccola scatola e tirò fuori la sua chiave di Baker Street, che era stata data a John dopo essere stata tolta dal ‘cadavere’ di Sherlock.

Sherlock sedette pesantemente sulla sedia e non tolse gli occhi di dosso dalla chiave. Disse: “John. Non tornerò a casa.”

“Sì.” replicò John, con fermezza. “Lo farai. Il prima possibile, dal momento che non abbiamo a disposizione del cibo in questo dannato posto.”

Sherlock ancora non alzava lo sguardo dalla chiave. “Io... non posso. Dovrei essere morto, John.”

“No, non dovresti. Che cosa ti sei fatto, Sherlock? Cosa stai facendo?”

Gli occhi di Sherlock si chiusero. “Ti stavo salvando la vita.”

“Non voglio essere salvato in questo modo.”

Sherlock aprì gli occhi e guardò John per la prima volta, e quegli occhi ricordavano a John lo strato di gelo che rivestiva le loro finestre. “Beh, non hai scelta. Tu sei tu, e io sono io, e io non smetterò mai di salvarti, John, non importa quale sia il prezzo.”  

“Non è così che funziona. Ci salviamo a vicenda.”

“No.” ribatté Sherlock. “Tu mi hai salvato, più e più volte. Più e più volte.” Sherlock si alzò, lasciando la chiave sul tavolo, camminando senza sosta per la baita, con le mani tra i capelli. “Mi hai salvato il giorno dopo che mi hai incontrato, quando hai sparato al tassista. E mi hai salvato ancora, e ancora, e ancora. Mi hai sempre salvato. Sai quanto ti dovevo? Questo era il mio turno.”

“Quante volte dovrò dirti che sei un completo idiota prima che tu mi creda?” chiese John, esasperato. “Ti ho salvato la vita il giorno dopo che ti ho incontrato, ma tu mi hai salvato la vita il giorno che mi hai conosciuto.”

Sherlock lo guardò con evidente incredulità.

“È vero. Stavo semplicemente andando in automatico. Non avevo più alcun interesse. Avevo una pistola nel cassetto e avevo dei proiettili e ho pensato che sarebbe stato assolutamente opportuno usarli su di me. Veloce, attraverso la mia testa, una pistola in bocca. Un cadavere poco interessante, ma un modo appropriato.”

Sherlock aveva smesso di camminare. Lo fissò. “John. disse.

“E poi ti ho incontrato. E volevo sapere di più su di te e improvvisamente le cose erano molto interessanti e ho usato la pistola e i proiettili su altre persone, persone che non erano me, persone che avrebbero potuto portarti via da me e rendere le cose di nuovo vuote e non potevo ritornare a quel punto, Sherlock. Non puoi salvarmi uscendo dalla mia vita. Tu sei la mia vita - “ John improvvisamente inghiottì la fine della frase, perché non aveva voluto dire quello, non aveva intenzione di…

Sherlock non fece nulla per un momento, poi si sedette lentamente, sembrando pensieroso. Quando parlò, fu con molta attenzione.  “Ascoltami. Non posso essere la tua vita. Se tu sapessi... È stato meglio per te, che fossi morto. Sei un medico, capisci queste cose. Il corpo umano piange, recupera, va avanti.”

“Sì. Lo so. Siamo fatti per riuscirci, noi esseri umani. Siamo fatti per assorbire grandi quantità di perdite nelle nostre stupide vite insignificanti. Non siamo fatti per fare a noi stessi quello che tu ti sei fatto, questo fingere di essere morto. Hai perso tutte le cose della tua vita che ti rendevano te stesso, e non potevi tornare indietro. Non puoi fingere di essere morto, credo, penso che ti faccia solo sentire morto. Ero così arrabbiato con te per questo inganno, Sherlock, e lo sono ancora, ma penso che tu sia stato peggiore con te stesso che verso di me.”

“Bene.” disse Sherlock, prontamente. “È così che doveva andare.”

“Perché l’hai fatto?”

“Perché Moriarty ti avrebbe ucciso se non mi fossi suicidato. E non riuscivo a trovare nessun altro modo per salvarti. A parte uccidermi. Avrei dovuto suicidarmi e basta.”

“Non dire cose del genere.” disse John, bruscamente.

Sherlock si alzò e riprese il suo camminare, mani nei capelli, senza guardare John. “Ho pensato che avrei potuto semplicemente smantellare la rete di Moriarty. Ho pensato che mi ci sarebbe voluto, oh, non so, un paio di settimane, e poi sarei tornato, e ti saresti arrabbiato, ma mi avresti perdonato. Non so cosa stavo pensando. C’era così tanto... Era così tanto... E io faccio schifo in queste cose, sono tremendo, ero solo bravo a... Ho fatto un tale casino, un casino talmente incredibile, non posso... voglio solo che sia finita. Sono così stanco. E potrebbe essere tutto finito, se fossi morto. E dovrei essere morto comunque. Quindi io...” Sherlock indicò con un gesto alla baita.

“Non puoi farlo. Non così.”

“Perché no?”

“Perché ti amo.” dichiarò John, il che fermò Sherlock sui ​​suoi passi. Lo guardò, sbalordito, mentre John si alzò e gli si avvicinò. “Penso che tu debba saperlo. Non ero sicuro di questo... prima. Ma io ti amo. Mi hai mandato quelle lettere e ho capito che non l’avremmo mai detto, nessuno di noi due, e sai che spreco sarebbe stato? Mi sono reso conto che non mi avresti mai mandato le lettere a meno che non avessi pensato d’essere sul punto di morire e ho pensato che forse eri davvero morto, e non ce lo siamo mai detti, ad alta voce...” John portò le dita a circondare il viso di Sherlock, magro e ammaccato e pieno d’emozione, e Sherlock non si mosse, rimase immobile, guardandolo. “Non sapevo di amarti dal momento in cui ti ho visto, non posso pretendere di avere la tua intelligenza. Non lo sapevo fino a che non è stato troppo tardi per dirtelo, ma ti ho amato per tutto il tempo e ti amo adesso. E ogni momento che ho trascorso facendo finta che non fosse così, dicendo alla gente che non era così, dirlo a te, voglio rimangiarmi tutto. Se ti ho mai fatto pensare, anche per un attimo, che non avresti potuto, che non avrei... È Natale, Sherlock. Dimmi cosa vuoi.”

Sherlock, dopo un lungo momento, chiuse gli occhi e scosse la testa, liberandosi dalla presa di John. Camminò indietro, lontano da John, lontano dal tè e dalla barretta proteica ​​e dalla chiave sul tavolo, nella camera da letto, dove chiuse la porta e lasciò John tutto solo e immobile.

***

John accese il fuoco nel camino e si sedette sul divano ad aspettare Sherlock. Non fu una sorpresa che si addormentò. Aveva avuto un periodo estenuante nel recente inseguimento di Sherlock, e non aveva neanche dormito la notte prima.

La cosa sorprendente fu che, quando si svegliò dal suo pisolino, Sherlock era lì, seduto con la schiena verso il fuoco, che lo guardava solennemente.

John si stiracchiò un po’ e sbatté le palpebre per svegliarsi e cercò di pensare a cosa dire.

“Te.” disse Sherlock, e il cuore di John saltò un battito e corse via e sembrò cadergli dal petto. “Voglio te. Ti ho sempre voluto. Sei l’unica cosa che voglio. Non hai letto quelle stupide lettere?”

Il cuore di John si strinse a quello. “Erano delle belle lettere.” disse, sentendo la sua voce roca per il sonno.

Sherlock trasalì. “Smettila. Erano umilianti e imbarazzanti.”

“Quelle due parole significano la stessa cosa.” John sottolineò, perché pensava che avrebbe aiutato ad alleviare il disagio di Sherlock.

Sherlock lo fulminò con lo sguardo .

“Ho amato le lettere, Sherlock. Le ho amate molto. Erano... così belle. Erano così te. Sai che le ho lette il più lentamente che potessi? Volevo assaporarle, ogni sillaba. Ho pensato che avrebbero potuto essere le ultime tue cose che avrei mai avuto. Non sapevo...”

“Come potevi non sapere quello che provavo?” Sherlock chiese, suonando irritato.

“Non era quello che intendevo.” John iniziò, ma Sherlock lo interruppe.

“Come potevi non leggerlo in ogni sguardo che ti lanciavo? C’eri tu, tu, c’eri solo tu, tutti quanti te lo dicevano, tutti lo vedevano, anche gli sconosciuti che ci incontravano per la strada. ‘Oh, devono essere una coppia.’ Sì​​. Perché ti guardavo, sempre, come se la luna e le stelle e il sole e tutti quegli stupidi pianeti con cui sei ossessionato ruotassero intorno a te. Era ovvio per loro. E per Mycroft, e Lestrade, e Moriarty. Era così evidente, che eri la cosa più importante della mia vita, l’unica cosa importante nella mia vita, che avrei fatto qualsiasi cosa per te . E poi c’eri tu, e tutto quello che dicevi, in continuazione, era che non eri gay, non eri gay, tu non eri gay. Non eravamo una coppia, non così, non in quel modo. Guarda tutte le persone adoranti e felici che passeggiano per Regent’s Park, mano nella mano. Oh, non John e Sherlock, loro non sono così.”

John si era seduto lentamente durante quel discorso. “Sherlock, io non - “

“Capisci come mi uccidevi, ogni giorno, ogni volta che ti voltavi a guardare una donna che passava? Comprendi del tutto quante cose terribilmente stupide ho fatto solo per assicurarmi che saresti venuto quando ti avessi chiamato, che non ti saresti distratto altrove? Avevo bisogno di te peggio di qualsiasi droga, peggio di quanto avessi mai avuto bisogno della cocaina, avevo bisogno di te come l’ossigeno, e non potevo averti, non potevo tenerti con me, tutti ciò che mi dicevi era non  così. E io stavo morendo dentro, tutto il tempo, centimetro per centimetro, ogni giorno in cui non mi guardavi nel modo in cui volevo che tu mi guardassi. Era lì, a volte, se facevo qualcosa di particolarmente intelligente, ma non riesco a essere impressionante per tutto il tempo, John, neanche io posso riuscirci. Vedi quanto sarebbe stato più facile morire in una volta sola che morire nel modo in cui stava accadendo?”

John lo fissò, sentendosi nauseato e orribile. “Perché non mi hai detto qualcosa?”

“Te ne saresti andato. Avresti... Avresti detto, ‘Oh, caro, Sherlock, non così’ e ci sarebbe stata pietà e devi essere matto per pensare... non avrei mai dovuto dire nulla, ma le stupide lettere, sarei dovuto morire in Argentina, non so perché ho combattuto così tanto, è come se il corpo non volesse morire, la resiste, la combatte ogni volta, anche quando la mente è così pronta. E sono venuto qui con abbastanza pillole per causare l’oblio e non potevo – non potevo - “

John scivolò giù dal divano all’improvviso, afferrò Sherlock da dietro al collo e costrinse i suoi occhi, che si muovevano a scatti, sui suoi. “Guardami.” ordinò. “Guardami. Sono stato un idiota. Non è quello che mi dici sempre? Non me ne ero accorto. Non l’ho visto in te, e non l’ho visto in me. Non finché non è stato troppo tardi. Ma ora abbiamo una seconda possibilità, tu e io, per sistemare le cose. Torneremo a Londra e saremo John e Sherlock, mano nella mano, a Regent’s Park. Saremo tutto quello che volevi che fossimo. Perché ti amo, e mi avrai per tutto il tempo che mi vorrai, mi avrai per molto di più, perché non permetterò mai più che ci separino.”

Sherlock si allontanò dal tocco di John, e John emise un suono di frustrazione, voltandosi mentre Sherlock balzava in piedi e fuggiva verso la scrivania. “Non capisci.” Sherlock disse mentre camminava. “Non stai capendo come ti amo. Non stai capendo il terrore.” Sherlock tornò, stringendo un fascio di fogli, e si sedette sul divano, lontano da John, sfogliandoli. “Voglio riavvolgerci.” lesse Sherlock, “Tornare indietro al giorno dopo che ti ho incontrato, quando hai ucciso il tassista per me e siamo andati a mangiare cinese e siamo tornati all’appartamento molto tardi. Eri leggermente ubriaco, frastornato dall’adrenalina residua dallo sparo e dal drink che avevi bevuto al ristorante. E l’appartamento era ancora nuovo per te, così non sapevi dov’era l’interruttore della luce. Sei entrato prima di me, e hai cercato a tentoni l’interruttore, e hai ridacchiato al non essere in grado di trovarlo, ed era buio, con solo le luci dalla strada che entravano dalla finestra, e avrei voluto spingerti contro il muro e baciarti, assaggiare la risata sulle tue labbra, bere la tua adrenalina, farti mio. Avrei dovuto farlo. Voglio riportarci indietro e voglio farlo. Avrebbe cambiato tutto. Non so se avresti risposto al bacio come avrei voluto. Ero spaventato che non l’avresti fatto. Ecco perché non l’ho fatto. Averti lì dopotutto, dissi a me stesso, era meglio del non averti affatto.”

“Sherlock.” disse John, gli occhi sui fogli di carta. “Non devi farlo - “

“Se dovessi farlo di nuovo, ti direi ogni giorno che ti amo.” Sherlock lesse.

“Sherlock.” John ripeté.

“Posso dirti che ti amo, posso dirti quando è iniziato, ma dire il resto, usare parole per dire il resto, è impossibile. E non è una parola che uso con leggerezza.”

John non disse nulla, mentre Sherlock girava con rabbia il foglio successivo.

“E avevo tutto. Tutto quello che avrei mai voluto. Avevo te, che è più di quanto avevo mai realizzato di volere e più di quello che avrei mai pensato di poter avere. Avevo te, ogni notte e ogni mattina e ogni momento in mezzo. So che eri solito essere esasperatamente confuso dalla mia tendenza a parlare con te anche quando non eri nell’appartamento, ma non penso tu abbia mai capito: non lo facevo perché non mi rendevo conto che non eri lì, lo facevo perché, per me, tu eri sempre lì, eri ovunque, ti portavo con me, un punto fermo come il cuore nel mio petto. Quei momenti in cui non eri accanto a me erano dati non importanti, irrilevanti, eliminati non appena accadevano. Mi hai accusato di essere una macchina, l’ultima volta che abbiamo parlato faccia a faccia, ed avevi davvero ragione letteralmente parlando, perché ero come una macchina, che prendeva vita soltanto in tua presenza. Il resto della mia vita non esisteva, per me.”

Sherlock diede improvvisamente le carte a John. “Lettere, John.” disse. “Altre lettere. E nessuna di loro si avvicina nemmeno a dire quello che vorrei dire. E adesso sei qui, dicendo che ti sono mancato e che mi ami e che dovrei tornare a casa, che non importano, le cose che ho fatto, perché mi ami. Perdonami, se non riesco a credere a una cosa del genere. Perdonami, perché so che è fragile da parte mia, so che è una cosa vigliacca, ma non sono mai stato un soldato, non sono mai stato forte come te, l’ho dimostrato, irrevocabilmente, in questi ultimi mesi. Se mi lasciassi credere a quello che stai dicendo, non hai idea di come andrò in frantumi quando non sarà vero.”

“Sherlock.” John cercò di dire, ma Sherlock era già in piedi ed era scomparso di nuovo dentro la camera da letto, chiudendo la porta.

John si sedette, disorientato e stordito, accanto al fuoco, guardando le lettere che Sherlock gli aveva dato. Lo aveva ferito molto più gravemente di quanto si fosse reso conto. Lo aveva tagliato  vivo a Londra, e lo aveva fatto ripetutamente. Sherlock, che non aveva mai amato nessuno prima e che aveva dato il suo cuore, liberamente e totalmente e completamente, ad un uomo che pensava non lo avrebbe mai accettato, ad un uomo che gli aveva detto che non lo avrebbe mai accettato.

John cercò di pensare a come convincere Sherlock che si sarebbe fatto perdonare. Respinse l’idea di usare il sesso, perché non pensava che Sherlock vedesse il sesso come qualcosa di intimo. Ancora. Considerò di bussare alla porta e cercare di costringere Sherlock a sentir ragione, ma non pensava che Sherlock fosse in uno stato adatto. John guardò le lettere ed ebbe un’idea.

***

Caro Sherlock,

Non ho la tua maestria con le parole. Il che è divertente quando ci pensi, perché  sono quello che si suppone sia lo scrittore.

Vorrei dire che ti amo allo stesso modo. Vorrei dire, a tutto ciò che hai scritto nella tue lettere: “Sì, quello.” Ma sarebbe una maniera codarda, e ti meriti di meglio da parte mia.

Ti sbagli, su chi di noi è il più coraggioso e il più forte. Ci vuole un tipo di coraggio molto comune per andare in guerra. Ci vuole un diverso tipo di coraggio per amare nel modo in cui tu mi hai amato, giorno dopo giorno, pensando che non ti avrei mai contraccambiato.

Ma io ti contraccambio, non per pietà o per solitudine o rimpianto o una qualsiasi delle cose che potresti pensare. Ti contraccambio perché ti amo. Ti ho amato così tanto per così tanto tempo che l’ho dimenticato. Quando mi hanno sparato, c’è stato un momento in cui il mio cuore ha smesso di battere, ed oh, come ha fatto male, non potrò mai dimenticare il dolore che mi attraversava, peggio di qualsiasi cosa avessi mai sperimentato prima, e quando stavo meglio, quando mi stavo riprendendo, mi ritrovavo a stare sdraiato nel letto dell’ospedale ad ascoltare il suono del monitor del mio cuore e pensavo a come non l’avevo mai sentito. Non riuscivo a sentire il mio cuore battere fino al momento in cui ho capito che mi aveva lasciato, che non era più lì a tenermi in vita. E è così che è stato con te. Non mi rendevo conto di quanto mi stavi tenendo in vita fino a quando non mi hai lasciato. Non mi rendevo conto di quanto ti amassi fino ad allora, ma ti ho amato per tutto il tempo.

So la faccia che stai facendo, tutta piena di smorfie e di dubbi. Amo quel tipo di faccia. Queste sono le cose che amo di te:

 

• Quella faccia che fai quando pensi che noi altri siamo degli idioti

• La faccia che fai quando pensi di essere gentile con me, ma in realtà sei solo condiscendente

• I tuoi zigomi

• La tua bocca

• I tuoi capelli

• I tuoi occhi

• Il modo in cui non fai mai il tè a meno che tu non abbia fatto qualcosa di sbagliato

• Il terribile tè che fai quando hai fatto qualcosa di sbagliato

• Gli esperimenti per tutta la cucina

• E quella volta memorabile nel mio letto

• Quella sete di curiosità che ti rende così desideroso di imparare

• Il modo in cui tutto il mondo, quando sei del giusto umore, è un affascinante enigma da dover districare

• Il modo in cui adesso so, quando sei dell’umore sbagliato, come tirartene fuori

• Ho già detto i tuoi capelli?

• Il modo in cui mi sorridi, come se fossi l’unica cosa a valere la pena sul pianeta e non puoi credere a quanto tu sia fortunato ad avermi trovato

• Il fatto che hai un cuore d’oro, anche se fingi che non sia così

• Il modo in cui suoni il violino così magnificamente che potrei piangere

• Quanto ami la signora Hudson

• Il modo in cui trovi ogni pretesto per pagare tutto, anche quando sto cercando di non fartelo fare

• Il modo in cui suoni il violino in maniera terribile quando sei arrabbiato

• Il tuo ridacchiare quando ti faccio divertire

• Il modo in cui, a volte, mi stai troppo vicino, chinato sulla mia spalla, proprio per far vedere a tutti che sono tuo

• I tuoi ridicoli completi

• La tua vestaglia

• I tuoi occhi

• Il modo in cui mi fai ridere

• Il modo in cui mi ascolti

• Il tuo cappotto

• Il piccolo sospiro di soddisfazione che fai quando ti preparo una tazza di tè

• Il modo in cui saltelli quando sei eccitato

• Il fatto che mai una volta mi hai trattato come se fossi rotto o delicato

• Il modo in cui scherzi nei momenti meno appropriati

• Il fatto che hai una diversa definizione di ‘inappropriato’ di chiunque altro sulla terra

• Tu, perso in qualsiasi cosa tu stia facendo, ed io, accanto a te, perso in qualsiasi cosa io stia facendo, e alzando lo sguardo per trovarti, inaspettatamente, a guardarmi, e il modo in cui mi sorridi, velocemente, prima di tornare a quello che stavi facendo, come se ti stessi solo assicurando che fossi ancora lì • Devo menzionare di nuovo i tuoi capelli

• Amo davvero i tuoi capelli

• Ecc.

Questo è solo un elenco parziale, perché non riesco a trovare altra carta e sto finendo lo spazio. Ma spero che hai capito il concetto.

Torna a casa. Per favore. Ti amo più di quanto possa dire, più di quanto possa dirti, quindi lascia che te lo mostri. Torna a casa, e non ti lascerò mai andare in frantumi. Ti terrò sano e salvo, mio amore, mia vita, mio cuore. Per favore.

Con amore,
John

 

 

Note della traduttrice:

In ritardo, ecco il quarto pezzo della serie Letters, prima di entrare nel vivo della storia, e in assoluto il mio preferito.

Non volevo pubblicare con così tanto ritardo, purtroppo il mio wifi ha deciso di smettere di collaborare e ho avuto difficoltà a trovare una soluzione che mi permettesse di postare. Sappiate che per farmi perdonare posterò il prossimo fra qualche giorno :D

Se c’è qualcuno qui che segue l’altra traduzione ( e se vi interessa, si chiama Ink Your Name Across My Heart ) sappiate che lo stesso problema l’ho avuto anche con quella e che pubblicherò subito dopo questa. Due storie stupende nella stessa giornata, infondo è un grande affare.

Grazie a tutti per le recensioni, appena avrò un attimo di tempo risponderò a modo!

_opheliac

   
 
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