Note
autore:
Storia by earlgreytea68,
originariamente postata su Archive Of Our Own, al link:
http://archiveofourown.org/works/630360
Traduzione a cura di:
_opheliac.
Beta: PapySanzo89, come
sempre se tutto ciò che leggerete avrà un senso,
sarà fortemente merito suo.
Letters:
Revisited
John aveva
troppo fottutamente freddo per potersi preoccupare
di cosa Sherlock pensasse nel trovarlo lì sulla soglia
d’ingresso. Si era
trascinato in mezzo alla bufera per troppo tempo e si infilò
dalla porta di
Sherlock, verso il benedetto calore, senza fermarsi a pensarci sopra, e
così
capitò che la prima cosa che disse a Sherlock Holmes, dopo
aver scoperto della
sua presunta morte, fu, “Per l’amor di Dio, chiudi
quella porta, stai facendo
entrare tutto il freddo.” e poi
si rese conto di
essere entrato con ancora gli scarponi da neve indosso.
“Che
cosa stai...” disse Sherlock, e la sua voce non aveva lo
stesso tono profondo che John ricordava, suonava rauca e arrugginita, e
John
pensò che era probabilmente passato molto tempo
dall’ultima volta che Sherlock
aveva parlato con qualcuno.
“Che cosa
stai...”
John
riuscì a togliersi gli scarponi da neve e passò a
levarsi
il pesante zaino dalla schiena, poi il parka che gli si era congelato
addosso, togliendosi
infine i guanti
irrigiditi dalla neve.
“Che
cosa stai...” iniziò Sherlock, di nuovo.
John
lasciò il parka sopra la borsa posata sulle scarpe da
neve e puntò dritto verso il fuoco che ruggiva dentro al
camino, rimanendo in
piedi di fronte ad esso con le mani verso l’esterno.
Bruciavano per il calore,
e John le esaminò e decise che non erano assiderate e non
avrebbe dovuto
amputarsi nessuna delle sue estremità. E, per la prima volta
da quando era
arrivato, si voltò verso Sherlock, mettendosi il fuoco
dietro la schiena, e lo
guardò davvero.
Indossava
vestiti che erano vecchi e logori e gli cadevano di
dosso. Il classico guardaroba da depressione di Sherlock. Era magro,
fin troppo
magro, e la pelle era tirata sui suoi zigomi taglienti, e la curva
della sua
bocca era screpolata in una o di sorpresa mentre guardava
verso John. C’era
un brutto livido che
stava sbiadendo
lungo la linea della mascella, e le ombre sotto gli occhi erano
così scure e
profonde che John avrebbe potuto scambiarle per lividi. E stava
stringendo,
vagamente e con la sua solita inosservanza per la sicurezza, una
pistola. Ma
per quanto avesse un terribile aspetto – e aveva davvero un terribile aspetto, abbastanza
da costringere John a
trattenere un sussulto – aveva anche un aspetto dolorosamente
familiare.
Portava ancora i capelli leggermente troppo lunghi, i ricci arruffati
in un
lussurioso e naturale disordine sulla sua testa. Avevano bisogno di
essere
lavati e pettinati, ma erano ancora lì, come se stessero
aspettando soltanto
che le dita di John li scompigliassero. E i suoi occhi erano ancora
chiari e
inscrutabili, fissi su John. Sherlock non si stava muovendo affatto, a
parte
per un tic alle dita della mano che non stava stringendo la pistola che
fece
pensare a John al violino che aveva gettato in un deposito insieme al
resto
della roba di Sherlock perché non era riuscito a sopportare
il pensiero di
liberarsi davvero di quelle cose.
“Siberia?”
chiese John. “A dicembre? Sul serio?”
Sherlock lo
fissò un po’ più a lungo, e John
avrebbe esultato
per essere riuscito a lasciare Sherlock Holmes senza parole, se non
avesse
tradito quanto in realtà Sherlock fosse scombussolato e John
era per lo più
combattuto tra il coccolarlo dicendogli che tutto sarebbe andato per il
meglio
e lo scuoterlo fino a fargli battere i denti e non fargli mai
più pensare di
andar via di nuovo.
“Che
ci fai qui?” chiese Sherlock, infine, stringendo le
labbra in una linea sottile.
Beh, almeno era
riuscito a pronunciare la domanda per intero
stavolta, pensò John. “Vacanza.”
rispose, sarcastico.
Sherlock lo
ignorò. “Come hai fatto a trovarmi, prima di
tutto?”
“Non
essere idiota. Tu sei tu , e io sono io.”
“Nemmeno
Mycroft
avrebbe potuto trovarmi. Ho fatto in modo che fosse una
sicurezza.”
“Esattamente.
Non sono Mycroft. Io sono io.”
il tono di voce di John era piatto e impassibile ma il suo
sguardo era serio, perché intendeva ogni singola parola.
“Per quanto tempo hai
pensato che tu potessi nasconderti
da
me?”
Sherlock, dopo
un momento, sembrò decidere che la migliore
reazione fosse mostrarsi irritato. “Devi andartene.”
John non era
sicuro di come si aspettasse che Sherlock lo
salutasse, ma doveva confessare che
ciò su cui
aveva fantasticato comportava la condivisione di un po’
più di calore corporeo.
Forse avrebbe addirittura comportato un sorriso, un Sono
così felice di vederti.
“Cosa?” chiese.
Sherlock stava
raccogliendo il cappotto di John, che stava
gocciolando sul pavimento, e arricciò il naso con disgusto.
“Vai.” disse. “Adesso.”
“Sei
impazzito? C’è una bufera di neve là
fuori.”
“Sei
arrivato con la bufera, sicuramente puoi andartene allo
stesso modo.” rispose Sherlock, con tono calmo. La sua voce
fingeva di essere
piena di logica, ma i suoi occhi erano tempestosi. Sherlock era
chiaramente furioso nel vederlo, e
John stava
cercando di ricalibrare i suoi sogni e le sue speranze per come quel
ricongiungimento si sarebbe svolto.
“Non
ho intenzione di andarmene.” disse John, impostando le
spalle di nuovo in posizione militaresca.
Poteva
essere testardo con i più ostinati tra le armi, certamente
poteva tener testa alla
testardaggine di Sherlock Holmes.
Sherlock
gettò il parka di John nuovamente a terra come un bambino
capriccioso. “Bene!” gridò.
“Allora me ne andrò io!”
marciò in direzione di quella che, John assunse, era la
camera
da letto della baita, poggiando con forza la pistola sulla scrivania
del
salone, riemergendo dalla stanza con indosso un pesante parka. Era
così
assurdamente grande su di lui che sarebbe stato comico se non fosse
stato un po’
sconcertante. John lo guardò camminare pesantemente verso la
porta e infilare i
piedi nudi in un paio di stivali da neve che erano lì
poggiati, e poi Sherlock
si lanciò nella tempesta, sbattendo la porta dietro di
sé.
John
aspettò, perché Sherlock non era per niente
attrezzato
in maniera adeguata per affrontare quella bufera e da un momento
all’altro sarebbe
ricomparso da quella porta, coperto di neve e blu per il freddo, e lui
sarebbe avanzato
lentamente verso il
fuoco e avrebbero
potuto avere una discussione adeguata come persone
normali/compagni/migliori
amici/coinquilini innamorati senza alcuna speranza, con finte morti
aleggianti
tra di loro.
I minuti
passavano, e la porta rimase chiusa, e John si rese
conto che aveva fatto il classico errore di sottovalutare Sherlock. Era
fuori
allenamento. Imprecando in un lungo flusso senza fine, John si
coprì di nuovo col
suo parka e si infilò nuovamente dentro gli scarponi da neve
e riuscì a precipitarsi
fuori dalla porta, nella tormenta.
Era buio, la
neve rendeva tutto di un bianco impenetrabile
intorno a lui, e John non aveva pensato di portare una torcia con
sé. Non aveva
nemmeno pensato di prendersi i guanti. Il freddo pungeva brutalmente le
mani
esposte ma lo ignorò abbastanza a lungo per riuscire a tirar
fuori il cappuccio
per cercare di proteggersi la testa, prima di spingere le mani in
tasca. “Sherlock.”
gridò nel bianco vuoto intorno a lui. “Sherlock!”
Non ci fu
risposta. Non ci fu nulla. John si guardò intorno
selvaggiamente e sentì il panico fluire attraverso di lui.
No, no, no, no, no,
non aveva fatto tutta quella strada per ritrovare Sherlock vivo per poi
vederlo
immergersi in una bufera di neve e uccidersi. John fece un paio di
tremanti e
frenetici passi, quasi cadendo sulla neve, chiamando disperatamente
Sherlock, e
la neve gli stava scendendo giù per il colletto e il freddo
stava rendendo i suoi
movimenti goffi e lui era vestito
in
maniera adatta, Sherlock non era vestito
per quel tempo -
Alla fine inciampò
proprio su Sherlock, che si era incastrato fino alla cosce in un cumulo
di
neve. Si agitò un po’, un debole sforzo che John
ignorò, tirandolo fuori e guidandolo
con una mano attraverso la bufera, verso la baita, gridandogli contro
per tutto
il tempo. “Tu dannato stupido
bastardo
arrogante, ti ucciderò con le mie stesse mani. Come osi fare
qualcosa di così
stupido e sconsiderato.” caddero insieme attraverso
la porta della baita,
in un inelegante cumulo sul pavimento. Sherlock tremava in maniera
incontrollabile.
“Tu insopportabile
cretino egoista.” John gli disse, lottando per
togliersi gli scarponi da
neve e facendo alzare Sherlock. “Tu completo
coglione.” spinse Sherlock verso l’altra
stanza, che di fatto si rivelò
essere una camera da letto. Quando John lo spinse sul letto, ci
andò, e anche
se cercò di calciare via John quando questi gli tolse gli
stivali da neve, era un
tentativo così vano che John si sentì stringere
il cuore. “Sto per spararti.”
gli disse John, tirando gli
stivali “E poi ho intenzione di strangolarti.”
Lo spogliò dei pantaloni del pigiama bagnati con spietata
efficienza. “E poi
finirò con l’avvelenarti.”
John
spinse Sherlock in un senso e
nell’altro, mentre
Sherlock mormorava delle proteste, così che potesse
toglierli il parka di dosso.
“E infine ti soffocherò.”
John accumulò
le coperte sopra il corpo di Sherlock.
“Puoi
smetterla di urlarmi contro?” chiese Sherlock, tra i
denti tremanti.
“No.”
sbottò John, togliendosi il suo stesso parka. “Non
smetterò mai di urlarti contro.” John
strisciò sotto le coperte con Sherlock e
disse “Fammi vedere le mani.”
“Lasciami
in pace.” gli ordinò Sherlock, anche se era troppo
debole per fare realmente qualcosa quando John gli afferrò
le mani e le
esaminò. Erano ghiacciate e un po’ arrossate, ma
non congelate, forse appena un
po’.
John, senza
preamboli, le premette al di sotto del maglione e
della t-shirt, contro il suo stomaco. Sherlock trasalì per
l’improvviso calore.
“Stupido,
stupido, stupido idiota.”
disse John , guardando la punta rossa del naso di
Sherlock.
“L’hai
già detto.” Sherlock rispose, stancamente, alzando
lo
sguardo al soffitto. Sembrava come se tutta la voglia di lottare
l’avesse
abbandonato.
“Vale
la pena ripeterlo. Avresti potuto ucciderti.” John si
chinò a soffiare un respiro
caldo sul naso di
Sherlock, sperando di contribuire ad un più rapido
scongelamento.
“Che
importanza avrebbe avuto?” chiese Sherlock, annoiato.
“Sono
già morto.”
“No.”
disse John, con forza. “No.
Tu non sei morto. Sei qui, con me, e sei vivo. Sei così
vivo. Il tuo cuore batte e i tuoi polmoni
respirano e il sangue ti sta riscaldando le mani ancora una volta e sei
davvero
vivo, hai capito? E non sarai morto, mai più.” E
poi John lo baciò.
Non aveva avuto
intenzione di farlo. Era stato tutto molto improvviso
e inaspettato, anche nella sua testa. Non che non ci avesse pensato,
dopo aver
creduto che Sherlock fosse sparito, che forse era stato un idiota a non
aver
pomiciato con Sherlock ad ogni possibile occasione, che forse era stato
un
idiota a fingere che fosse ancora completamente etero, che forse era
stato un
idiota a continuare a spingere via tutte quelle fantasie che volevano
salire in
superficie. E lo aveva pensato ancora di più dopo aver letto
le lettere di
Sherlock, mentre inseguiva le sue tracce dall’Argentina alla
Siberia, che forse
avrebbero dovuto solo baciarsi, forse non avrebbero dovuto fare altro che non fosse baciarsi.
Eppure, John non
aveva avuto alcun pensiero cosciente che gli
dicesse di baciare Sherlock fino a che non l’aveva fatto, e
poi, quando si rese
conto di quello che aveva fatto, quello fu il momento in cui Sherlock
iniziò a rispondere
al bacio. Fu un bacio disordinato, impacciato, urgente, e Sherlock si
aggrappò
a lui e lo tirò verso di sé, cercando di farsi
più vicino, più vicino, e John
riconobbe ciò di cui aveva bisogno e cercò di
darglielo, incurvandosi più
vicino che poteva verso Sherlock, mentre lui intrecciava le loro gambe
e ansimava
il suo nome un milione di volte in un milione di modi differenti.
“Sono
qui.” John mormorò, cercando di essere
confortante. “Sono
qui adesso.”
“Mi
dispiace così tanto, così tanto, così
tanto.” cantilenò
Sherlock tra ogni frenetico e disperato bacio che poggiava in qualsiasi
parte
del corpo di John che potesse raggiungere.
E John sapeva,
oggettivamente, che Sherlock aveva una grande
quantità di cose per le quali scusarsi, ma sapeva anche che
in qualche modo non
gli importava. Il suo Sherlock era un distrutto e tremante
disastro sotto la superficie e non c’era
niente che John non avrebbe fatto per sistemare
la cosa. “Non importa.” gli disse, carezzando la
sua pelle, tenendolo stretto. “Non
importa. Lo so.”
“Così
tanto, così tanto, così tanto.”
continuò Sherlock, e
poi smise di baciarlo, premendo il naso nella curva tra collo e spalla,
respirando
forte e veloce. “John.” disse.
“Shh.”
rispose John. “Sono qui e non ho intenzione di
andarmene.”
Sherlock,
rabbrividendo, torse le mani sul maglione di John e
lo tirò incredibilmente vicino. “Mi dispiace
così tanto.” buttò fuori con voce
strozzata.
“Lo
so.” John sussurrò nel cespuglio di disordinati
capelli
sporchi su cui premette la bocca.
Sherlock si fece
più vicino, la presa ferma e stretta, e rimase
in quel modo anche se John sapeva che alla fine si era addormentato, il
suo
respiro stabile e i brividi che si erano finalmente fermati. Anche in
stato di
incoscienza, Sherlock si aggrappava a lui.
John sapeva che
lui stesso avrebbe dovuto essere stanco, ma non
dormì poi molto. La sua posizione, sdraiato su Sherlock, era
alquanto scomoda,
e non osava lasciarsi andare con tutto il suo peso su Sherlock per non
disturbarlo, né voleva muoversi in alcun modo tanta era la
paura di svegliarlo.
Sherlock aveva chiaramente bisogno di dormire. John non era sicuro che
Sherlock
riuscisse anche solo a ricordare l’ultima volta che aveva
davvero dormito. Così
rimase in quella posizione scomoda per ore, sonnecchiando ogni tanto
senza mai
addormentarsi davvero, sempre consapevole dei respiri costanti di
Sherlock
sotto di lui, di Sherlock che era vivo. Forse era un completo relitto,
ma era
vivo, e John era praticamente anche lui un relitto, quindi forse
avrebbero
potuto essere dei relitti insieme.
Quando Sherlock
si svegliò, fu in maniera graduale, iniziando
con un lento stiracchiarsi pigro sotto di lui e poi si
irrigidì leggermente quando
si rese conto esattamente di dove
si trovava.
John alzò la testa, guardando dentro i grandi occhi
imperscrutabili di Sherlock,
di un bel colore pervinca grazie alla luce pallida che inondava la
stanza.
“Userò
il bagno per primo.” disse John “E
dopo potrai lavarti e vestirti mentre io ci
preparerò la colazione.”
Sherlock non
disse nulla. Sherlock lo guardò, e John riuscì a
liberarsi dalle coperte attorcigliate, sussultando a causa dei muscoli
indolenziti, e sperò che Sherlock non avesse intenzione di
darsi alla fuga non
appena avesse
chiuso la porta del bagno.
John desiderava
una buona doccia calda, ma non voleva
lasciare Sherlock da solo e incustodito più del necessario.
Così si accontentò
di una breve spruzzata d’acqua nel lavandino. Poi diede
un’occhiata all’armadietto
dei medicinali di Sherlock, rapidamente e sistematicamente.
C’era una grande
quantità di antidolorifici, e John se li intascò
tutti. Era consapevole del
fatto che avessero sparato a Sherlock non molto tempo prima, che fosse
stato maltrattato,
picchiato e lasciato a morire, perché aveva rintracciato
Sherlock nell’ospedale
argentino da cui era fuggito. Tuttavia, era anche consapevole della
tendenza di
Sherlock alla dipendenza, e non gli piaceva la presenza di tanti
antidolorifici
tutti insieme.
Sherlock era
ancora a letto quando John uscì dal bagno. “Tocca
a te.” disse, in maniera casuale, alla sagoma di Sherlock che
non faceva un solo
movimento, e attese finché non sentì la doccia in
funzione prima di aprire la
porta anteriore della baita. La bufera della notte prima era finita, e
il sole
era già alto nel cielo, accecante sulla neve cristallina
intorno a loro. John
strizzò gli occhi contro il bagliore e gettò la
maggior parte degli
antidolorifici il più lontano possibile, tenendone soltanto
alcuni per
qualsiasi cosa di cui Sherlock avrebbe potuto aver bisogno prima che
potessero
tornare a Londra. Poi rivolse la sua attenzione alla cucina.
Senza alcuna
sorpresa, la cucina era in uno stato vergognoso.
John si voltò verso lo zaino che aveva portato con
sé e tirò fuori delle barrette
proteiche con cui avrebbero potuto fare colazione, e poi
scartò con cura il tè
che aveva portato per Sherlock e mise una pentola d’acqua a
bollire. Dopodiché
posò il regalo che aveva portato per Sherlock sul piccolo
tavolo da pranzo.
Infine si
lasciò andare a fare un po’
l’impiccione, scrutando
il pezzo di carta accanto alla pistola sulla piccola scrivania. Caro John, lesse, ma il resto della
pagina era vuoto. C’era, però, un piccolo fascio
di fogli accanto a quello
vuoto, tutti girati dal lato posteriore, ma John poteva intravedere la
scrittura dall’altro lato, e desiderò poterli
prendere e leggerli.
Non lo fece. Era
consapevole che lo Sherlock nelle lettere
non era quello Sherlock che avrebbe voluto mostrarsi al mondo, che la
reazione
di Sherlock della scorsa notte era stato un istintivo ritorno nel
proprio
guscio, ora che le sue vulnerabilità erano state esposte, e
non pensava che frugare
tra le cose di Sherlock avrebbe reso le cose migliori.
Così
stava osservando l’acqua che arrivava ad ebollizione,
rimanendo
testardo riguardo al proverbio, quando la porta del bagno si
spalancò e
Sherlock ne uscì e chiese, “Che cosa hai fatto con
le mie pillole?”
John emise un
suono vago e non alzò lo sguardo dal pentolino.
Sherlock
marciò per la baita, gettando la roba per aria.
“Ne
ho bisogno. Mi hanno sparato e...
altre
cose.”
“Lo
so.” disse John, gentilmente.
“Come
fai a saperlo?”
John lo
guardò per la prima volta. Era vestito con uno dei
suoi completi perfettamente su misura, ma aveva perso così
tanto peso che gli
pendeva addosso. John avrebbe dovuto avere un attacco di profonda
nostalgia alla
vista ma in realtà era solo furioso con tutto quello che li
aveva portati a
quel punto. “Ti ho rintracciato, ricordi?”
La bocca di
Sherlock formò una stretta linea di insoddisfazione.
“Come?”
“Te
l’ho già detto: tu sei tu, e io sono io. Non
dentro casa.”
Perché
Sherlock si era infilato una sigaretta in bocca e tirato
fuori un accendino. Fissò John. “Cosa?”
John si disse
che la sigaretta poggiata sulle labbra curve di
Sherlock non era minimamente sexy. “Non ho intenzione di
preoccuparmi di farti
smettere di fumare finché non torneremo a Londra, ma non ho
intenzione di farti
fumare in casa mentre ci sono io. Ho troppo rispetto per i miei
polmoni.”
“Ma...
questa è casa mia.”
“Lo
so. E odora di
fumo di sigaretta, è terribile.” l’acqua
bolliva, e John prese il pentolino. “Vai
fuori, se proprio devi.”
“Fuori? In
Siberia? A dicembre?
Quello cos’è?”
John
guardò alle sue spalle mentre versava il tè.
Sherlock
stava fissando il regalo sul tavolo, la sua espressione
imperscrutabile. “È…”
John annunciò “Il giorno di Natale. Buon
Natale.”
Sherlock non si
mosse. John portò le tazze di tè al tavolo.
“Il
giorno di Natale.” fece eco Sherlock. “No, non lo
è.”
“Sì,
lo è.” replicò John
e spinse il tè di Sherlock verso di lui.
“Niente latte, temo. La tua
cucina è in uno stato pietoso.”
Sherlock
guardò il tè come se non lo capisse, poi di nuovo
il
regalo.
“Vai
forza.” John lo incoraggiò, sedendosi e dandogli
una
barretta proteica. “Aprilo.”
Sherlock
lasciò la sigaretta sul tavolo e prese il regalo e
John sapeva che stava cercando di non sembrare eccitato e incuriosito
ma senza
davvero riuscirci. Sherlock strappò la carta e
aprì la piccola scatola e tirò
fuori la sua chiave di Baker Street, che era stata data a John dopo
essere
stata tolta dal ‘cadavere’ di Sherlock.
Sherlock sedette
pesantemente sulla sedia e non tolse gli
occhi di dosso dalla chiave. Disse: “John. Non
tornerò a casa.”
“Sì.”
replicò John, con fermezza. “Lo farai. Il prima
possibile, dal momento che non abbiamo a disposizione del cibo in questo dannato posto.”
Sherlock ancora
non alzava lo sguardo dalla chiave. “Io...
non posso. Dovrei essere morto, John.”
“No,
non dovresti. Che cosa ti sei fatto,
Sherlock? Cosa stai facendo?”
Gli occhi di
Sherlock si chiusero. “Ti stavo salvando la vita.”
“Non
voglio essere salvato in questo modo.”
Sherlock
aprì gli occhi e guardò John per la prima volta,
e
quegli occhi ricordavano a John lo strato di gelo che rivestiva le loro
finestre. “Beh, non hai scelta.
Tu
sei tu, e io sono io, e io non smetterò mai di salvarti,
John, non importa
quale sia il prezzo.”
“Non
è così che funziona. Ci salviamo
a vicenda.”
“No.”
ribatté Sherlock. “Tu mi hai salvato,
più e più volte.
Più e più volte.” Sherlock si
alzò, lasciando la chiave sul tavolo, camminando
senza sosta per la baita, con le mani tra i capelli. “Mi hai
salvato il giorno
dopo che mi hai incontrato, quando hai sparato al tassista. E mi hai
salvato
ancora, e ancora, e ancora. Mi hai sempre salvato. Sai quanto ti dovevo? Questo era il mio
turno.”
“Quante
volte dovrò dirti che sei un completo idiota prima
che tu mi creda?” chiese John, esasperato. “Ti ho
salvato la vita il giorno
dopo che ti ho incontrato, ma tu mi hai salvato la vita il giorno che
mi hai conosciuto.”
Sherlock lo
guardò con evidente incredulità.
“È
vero. Stavo semplicemente andando in automatico. Non avevo
più alcun interesse. Avevo una pistola nel cassetto e avevo
dei proiettili e ho
pensato che sarebbe stato assolutamente opportuno usarli su di me.
Veloce,
attraverso la mia testa, una pistola in bocca. Un cadavere poco
interessante,
ma un modo appropriato.”
Sherlock aveva
smesso di camminare. Lo fissò. “John.” disse.
“E poi
ti ho incontrato. E volevo sapere di più su di te e
improvvisamente le cose erano molto interessanti e ho usato la pistola
e i
proiettili su altre persone, persone che non erano me, persone che
avrebbero
potuto portarti via da me e rendere le cose di nuovo vuote
e non potevo ritornare a quel punto, Sherlock. Non puoi
salvarmi uscendo dalla mia vita. Tu sei
la mia vita - “ John improvvisamente inghiottì la
fine della frase, perché non
aveva voluto dire quello, non aveva intenzione di…
Sherlock non
fece nulla per un momento, poi si sedette lentamente,
sembrando pensieroso. Quando parlò, fu con molta attenzione.
“Ascoltami.
Non posso essere la tua vita. Se
tu sapessi... È stato meglio per te, che fossi morto. Sei un
medico, capisci
queste cose. Il corpo umano piange, recupera, va avanti.”
“Sì.
Lo so. Siamo fatti per riuscirci, noi esseri umani. Siamo
fatti per assorbire grandi quantità di perdite nelle nostre
stupide vite
insignificanti. Non siamo fatti per fare a noi stessi quello che tu ti
sei
fatto, questo fingere di essere morto. Hai perso tutte le cose della
tua vita
che ti rendevano te stesso, e non
potevi
tornare indietro. Non puoi fingere di essere morto, credo, penso che ti
faccia
solo sentire morto. Ero così arrabbiato con te per questo
inganno, Sherlock, e
lo sono ancora, ma penso che tu sia stato peggiore con te stesso che
verso di
me.”
“Bene.”
disse Sherlock, prontamente. “È così
che doveva
andare.”
“Perché
l’hai fatto?”
“Perché
Moriarty ti avrebbe ucciso se non mi fossi suicidato.
E non riuscivo a trovare nessun altro modo per salvarti. A parte
uccidermi. Avrei
dovuto suicidarmi e basta.”
“Non
dire cose del genere.” disse John, bruscamente.
Sherlock si
alzò e riprese il suo camminare, mani nei
capelli, senza guardare John. “Ho pensato che avrei potuto
semplicemente
smantellare la rete di Moriarty. Ho pensato che mi ci sarebbe voluto,
oh, non
so, un paio di settimane, e poi sarei tornato, e ti saresti arrabbiato,
ma mi avresti
perdonato. Non so cosa stavo pensando. C’era così
tanto... Era così tanto... E
io faccio schifo in queste cose, sono tremendo,
ero solo bravo a... Ho fatto un tale casino, un casino talmente
incredibile,
non posso... voglio solo che sia finita. Sono così stanco. E
potrebbe essere tutto
finito, se fossi morto. E dovrei essere morto comunque. Quindi
io...” Sherlock
indicò con un gesto alla baita.
“Non
puoi farlo. Non così.”
“Perché
no?”
“Perché
ti amo.” dichiarò John, il che fermò
Sherlock sui
suoi passi. Lo guardò, sbalordito, mentre John si
alzò e gli si avvicinò. “Penso
che tu debba saperlo. Non ero sicuro di questo... prima. Ma io ti amo.
Mi hai
mandato quelle lettere e ho capito che non l’avremmo mai
detto, nessuno di noi
due, e sai che spreco sarebbe
stato?
Mi sono reso conto che non mi avresti mai mandato le lettere a meno che
non avessi
pensato d’essere sul punto di morire e ho pensato che forse
eri davvero morto, e non ce lo
siamo mai
detti, ad alta voce...” John portò le dita a
circondare il viso di Sherlock, magro
e ammaccato e pieno d’emozione, e Sherlock non si mosse,
rimase immobile, guardandolo.
“Non sapevo di amarti dal momento in cui ti ho visto, non
posso pretendere di
avere la tua intelligenza. Non lo sapevo fino a che non è
stato troppo tardi
per dirtelo, ma ti ho amato per tutto il tempo e ti amo adesso. E ogni
momento
che ho trascorso facendo finta che non fosse così, dicendo
alla gente che non
era così, dirlo a te,
voglio rimangiarmi
tutto. Se ti ho mai fatto pensare, anche per un attimo, che non avresti
potuto,
che non avrei... È Natale, Sherlock. Dimmi cosa
vuoi.”
Sherlock, dopo
un lungo momento, chiuse gli occhi e scosse la
testa, liberandosi dalla presa di John. Camminò indietro,
lontano da John, lontano
dal tè e dalla barretta proteica e dalla chiave sul
tavolo, nella camera da
letto, dove chiuse la porta e lasciò John tutto solo e
immobile.
***
John accese il
fuoco nel camino e si sedette sul divano ad
aspettare Sherlock. Non fu una sorpresa che si addormentò.
Aveva avuto un periodo
estenuante nel recente inseguimento di Sherlock, e non aveva neanche
dormito la
notte prima.
La cosa
sorprendente fu che, quando si svegliò dal suo
pisolino, Sherlock era lì, seduto con la schiena verso il
fuoco, che lo
guardava solennemente.
John si
stiracchiò un po’ e sbatté le palpebre
per svegliarsi
e cercò di pensare a cosa dire.
“Te.”
disse Sherlock, e il cuore di John saltò un battito e
corse via e sembrò cadergli dal petto. “Voglio te.
Ti ho sempre voluto. Sei l’unica
cosa che voglio. Non hai letto quelle stupide lettere?”
Il cuore di John
si strinse a quello. “Erano delle belle
lettere.” disse, sentendo la sua voce roca per il sonno.
Sherlock
trasalì. “Smettila. Erano umilianti e
imbarazzanti.”
“Quelle
due parole significano la stessa cosa.” John
sottolineò,
perché pensava che avrebbe aiutato ad alleviare il disagio
di Sherlock.
Sherlock lo
fulminò con lo sguardo .
“Ho
amato le lettere, Sherlock. Le ho amate molto. Erano...
così belle. Erano così te. Sai che le ho lette il
più lentamente che potessi?
Volevo assaporarle, ogni sillaba. Ho pensato che avrebbero potuto
essere le
ultime tue cose che avrei mai avuto. Non sapevo...”
“Come
potevi non sapere quello che provavo?” Sherlock chiese,
suonando irritato.
“Non
era quello che intendevo.” John iniziò, ma
Sherlock lo
interruppe.
“Come
potevi non leggerlo in ogni sguardo che ti lanciavo? C’eri
tu, tu, c’eri solo tu, tutti quanti te lo dicevano, tutti lo
vedevano, anche gli
sconosciuti che ci incontravano per la strada. ‘Oh, devono
essere una coppia.’ Sì.
Perché ti guardavo, sempre, come se la luna e le stelle e il
sole e tutti quegli
stupidi pianeti con cui sei ossessionato ruotassero intorno a te. Era ovvio per loro. E per Mycroft, e
Lestrade, e Moriarty. Era così evidente, che eri la cosa
più importante della
mia vita, l’unica cosa
importante
nella mia vita, che avrei fatto qualsiasi cosa per te . E poi
c’eri tu, e tutto
quello che dicevi, in continuazione, era che non eri gay, non eri gay,
tu non
eri gay. Non eravamo una coppia, non così, non in quel modo.
Guarda tutte le
persone adoranti e felici che passeggiano per Regent’s Park,
mano nella mano.
Oh, non John e Sherlock, loro non sono
così.”
John si era
seduto lentamente durante quel discorso. “Sherlock,
io non - “
“Capisci
come mi uccidevi, ogni giorno, ogni volta
che ti voltavi a guardare una donna che passava? Comprendi
del tutto quante cose terribilmente stupide ho fatto solo per
assicurarmi che saresti
venuto quando ti avessi chiamato, che non ti saresti distratto altrove?
Avevo
bisogno di te peggio di qualsiasi droga, peggio di quanto avessi mai
avuto
bisogno della cocaina, avevo bisogno di te come l’ossigeno,
e non potevo averti, non potevo tenerti con me, tutti ciò
che mi dicevi era non così.
E io stavo morendo dentro, tutto il
tempo, centimetro per centimetro, ogni giorno in cui non mi guardavi
nel modo
in cui volevo che tu mi guardassi. Era lì, a volte, se
facevo qualcosa di
particolarmente intelligente, ma non riesco a essere impressionante per
tutto
il tempo, John, neanche io posso
riuscirci. Vedi quanto sarebbe stato più facile morire in
una volta sola che
morire nel modo in cui stava accadendo?”
John lo
fissò, sentendosi nauseato e orribile.
“Perché non mi
hai detto qualcosa?”
“Te ne
saresti andato. Avresti... Avresti detto, ‘Oh, caro,
Sherlock, non così’
e ci sarebbe
stata pietà e devi
essere matto per
pensare... non avrei mai dovuto dire nulla, ma le stupide lettere,
sarei dovuto
morire in Argentina, non so perché ho combattuto
così tanto, è come se il corpo
non volesse morire, la resiste, la combatte ogni volta, anche quando la
mente è
così pronta. E sono venuto qui con abbastanza pillole per
causare l’oblio e non
potevo – non potevo - “
John
scivolò giù dal divano all’improvviso,
afferrò Sherlock da
dietro al collo e costrinse i suoi occhi, che si muovevano a scatti,
sui suoi. “Guardami.”
ordinò. “Guardami.
Sono stato un
idiota. Non è quello che mi dici sempre? Non me ne ero
accorto. Non l’ho visto
in te, e non l’ho visto in me. Non finché non
è stato troppo tardi. Ma ora
abbiamo una seconda possibilità, tu e io, per sistemare le
cose. Torneremo a
Londra e saremo John e Sherlock, mano nella mano, a Regent’s
Park. Saremo tutto
quello che volevi che fossimo. Perché ti amo, e mi avrai per
tutto il tempo che
mi vorrai, mi avrai per molto di
più,
perché non permetterò mai più che ci
separino.”
Sherlock si
allontanò dal tocco di John, e John emise un suono
di frustrazione, voltandosi mentre Sherlock balzava in piedi e fuggiva
verso la
scrivania. “Non capisci.” Sherlock disse mentre
camminava. “Non stai capendo come
ti amo. Non stai capendo il terrore.”
Sherlock tornò, stringendo un fascio di fogli, e si sedette
sul divano, lontano
da John, sfogliandoli. “Voglio riavvolgerci.” lesse
Sherlock, “Tornare indietro
al giorno dopo che ti ho incontrato, quando hai ucciso il tassista per
me e
siamo andati a mangiare cinese e siamo tornati
all’appartamento molto tardi.
Eri leggermente ubriaco, frastornato dall’adrenalina residua
dallo sparo e dal
drink che avevi bevuto al ristorante. E l’appartamento era
ancora nuovo per te,
così non sapevi dov’era l’interruttore
della luce. Sei entrato prima di me, e
hai cercato a tentoni l’interruttore, e hai ridacchiato al
non essere in grado
di trovarlo, ed era buio, con solo le luci dalla strada che entravano
dalla
finestra, e avrei voluto spingerti contro il muro e baciarti,
assaggiare la
risata sulle tue labbra, bere la tua adrenalina, farti mio. Avrei
dovuto farlo.
Voglio riportarci indietro e voglio farlo.
Avrebbe cambiato tutto. Non so se avresti risposto al bacio come avrei
voluto.
Ero spaventato che non l’avresti fatto. Ecco
perché non l’ho fatto. Averti lì
dopotutto, dissi a me stesso, era meglio del non averti
affatto.”
“Sherlock.”
disse John, gli occhi sui fogli di carta. “Non devi
farlo - “
“Se
dovessi farlo di nuovo, ti direi ogni giorno che ti amo.”
Sherlock lesse.
“Sherlock.”
John ripeté.
“Posso
dirti che ti amo, posso dirti quando è iniziato, ma
dire il resto, usare parole per
dire
il resto, è impossibile. E non è una parola che
uso con leggerezza.”
John non disse
nulla, mentre Sherlock girava con rabbia il
foglio successivo.
“E
avevo tutto. Tutto quello che avrei mai voluto. Avevo te,
che è più di quanto avevo mai
realizzato di volere e più di quello che avrei mai pensato
di poter avere.
Avevo te, ogni notte e ogni mattina e ogni momento in mezzo. So che eri
solito
essere esasperatamente confuso dalla mia tendenza a parlare con te
anche quando
non eri nell’appartamento, ma non penso tu abbia mai capito:
non lo facevo
perché non mi rendevo conto che non eri lì, lo
facevo perché, per me, tu eri sempre
lì, eri ovunque, ti portavo con
me, un punto fermo come il cuore nel mio petto. Quei momenti in cui non
eri
accanto a me erano dati non importanti, irrilevanti, eliminati non
appena
accadevano. Mi hai accusato di essere una macchina, l’ultima
volta che abbiamo
parlato faccia a faccia, ed avevi davvero ragione letteralmente
parlando,
perché ero come una
macchina, che
prendeva vita soltanto in tua presenza. Il resto della mia vita non
esisteva,
per me.”
Sherlock diede
improvvisamente le carte a John. “Lettere,
John.” disse. “Altre lettere. E nessuna di loro si
avvicina nemmeno a dire
quello che vorrei dire. E adesso sei qui, dicendo che ti sono mancato e
che mi
ami e che dovrei tornare a casa, che non importano, le cose che ho
fatto,
perché mi ami. Perdonami, se non riesco a credere a una cosa
del genere.
Perdonami, perché so che è fragile da parte mia,
so che è una cosa vigliacca, ma
non sono mai stato un soldato, non sono mai stato forte come te,
l’ho
dimostrato, irrevocabilmente, in questi ultimi mesi. Se mi lasciassi
credere a
quello che stai dicendo, non hai idea di come andrò in frantumi quando non sarà
vero.”
“Sherlock.”
John cercò di dire, ma Sherlock era già in piedi
ed era scomparso di nuovo dentro la camera da letto, chiudendo la porta.
John si sedette,
disorientato e stordito, accanto al fuoco,
guardando le lettere che Sherlock gli aveva dato. Lo aveva ferito molto
più
gravemente di quanto si fosse reso conto. Lo aveva tagliato vivo a Londra, e lo aveva
fatto ripetutamente.
Sherlock, che non aveva mai amato nessuno prima e che aveva dato il suo
cuore,
liberamente e totalmente e completamente, ad un uomo che pensava non lo
avrebbe
mai accettato, ad un uomo che gli aveva
detto che non lo avrebbe mai accettato.
John
cercò di pensare a come convincere Sherlock che si
sarebbe fatto perdonare. Respinse l’idea di usare il sesso,
perché non pensava
che Sherlock vedesse il sesso come qualcosa di intimo. Ancora.
Considerò di bussare
alla porta e cercare di costringere Sherlock a sentir ragione, ma non
pensava
che Sherlock fosse in uno stato adatto. John guardò le
lettere ed ebbe un’idea.
***
Caro Sherlock,
Non ho la tua
maestria con le parole. Il che è divertente
quando ci pensi, perché sono
quello che
si suppone sia lo scrittore.
Vorrei dire che
ti amo allo stesso modo. Vorrei dire, a tutto
ciò che hai scritto nella tue lettere:
“Sì, quello.” Ma sarebbe una maniera
codarda, e ti meriti di meglio da parte mia.
Ti sbagli, su
chi di noi è il più coraggioso e il
più forte.
Ci vuole un tipo di coraggio molto comune per andare in guerra. Ci
vuole un
diverso tipo di coraggio per amare nel modo in cui tu mi hai amato,
giorno dopo
giorno, pensando che non ti avrei mai contraccambiato.
Ma io ti
contraccambio, non per pietà o per solitudine o
rimpianto o una qualsiasi delle cose che potresti pensare. Ti
contraccambio
perché ti amo. Ti ho
amato così tanto
per così tanto tempo che l’ho dimenticato.
Quando mi hanno sparato, c’è stato un momento in
cui il mio cuore ha smesso di
battere, ed oh, come ha fatto male,
non potrò mai dimenticare il dolore che mi attraversava,
peggio di qualsiasi
cosa avessi mai sperimentato prima, e quando stavo meglio, quando mi
stavo
riprendendo, mi ritrovavo a stare sdraiato nel letto
dell’ospedale ad ascoltare
il suono del monitor del mio cuore e pensavo a come non
l’avevo mai sentito.
Non riuscivo a sentire il mio cuore battere fino al momento in cui ho
capito
che mi aveva lasciato, che non era più lì a
tenermi in vita. E è così che è
stato con te. Non mi rendevo conto di quanto mi stavi tenendo in vita
fino a
quando non mi hai lasciato. Non mi rendevo conto di quanto ti amassi
fino ad
allora, ma ti ho amato per tutto il tempo.
So la faccia che
stai facendo, tutta piena di smorfie e di dubbi.
Amo quel tipo di faccia. Queste sono le cose che amo di te:
• Quella faccia che fai
quando pensi che noi altri
siamo degli idioti
• La faccia che fai quando
pensi di essere gentile con
me, ma in realtà sei solo condiscendente
• I tuoi zigomi
• La tua bocca
• I tuoi capelli
• I tuoi occhi
• Il modo in cui non fai
mai il tè a meno che tu non abbia
fatto qualcosa di sbagliato
• Il terribile
tè che fai quando hai fatto qualcosa di
sbagliato
• Gli esperimenti per
tutta la cucina
• E quella volta
memorabile nel mio letto
• Quella sete di
curiosità che ti rende così desideroso
di imparare
• Il modo in cui tutto il
mondo, quando sei del giusto
umore, è un affascinante enigma da dover districare
• Il modo in cui adesso
so, quando sei dell’umore
sbagliato, come tirartene fuori
• Ho già detto
i tuoi capelli?
• Il modo in cui mi
sorridi, come se fossi l’unica
cosa a valere la pena sul pianeta e non puoi credere a quanto tu sia
fortunato ad
avermi trovato
• Il fatto che hai un
cuore d’oro, anche se fingi che
non sia così
• Il modo in cui suoni il
violino così magnificamente
che potrei piangere
• Quanto ami la signora
Hudson
• Il modo in cui trovi
ogni pretesto per pagare tutto,
anche quando sto cercando di non fartelo fare
• Il modo in cui suoni il
violino in maniera terribile
quando sei arrabbiato
• Il tuo ridacchiare
quando ti faccio divertire
• Il modo in cui, a volte,
mi stai troppo vicino, chinato
sulla mia spalla, proprio per far vedere a tutti che sono tuo
• I tuoi ridicoli completi
• La tua vestaglia
• I tuoi occhi
• Il modo in cui mi fai
ridere
• Il modo in cui mi ascolti
• Il tuo cappotto
• Il piccolo sospiro di
soddisfazione che fai quando ti
preparo una tazza di tè
• Il modo in cui saltelli
quando sei eccitato
• Il fatto che mai una
volta mi hai trattato come se
fossi rotto o delicato
• Il modo in cui scherzi
nei momenti meno appropriati
• Il fatto che hai una
diversa definizione di ‘inappropriato’
di chiunque altro sulla terra
• Tu, perso in qualsiasi
cosa tu stia facendo, ed io,
accanto a te, perso in qualsiasi cosa io stia facendo, e alzando lo
sguardo per
trovarti, inaspettatamente, a guardarmi, e il modo in cui mi sorridi,
velocemente,
prima di tornare a quello che stavi facendo, come se ti stessi solo
assicurando
che fossi ancora lì • Devo menzionare di nuovo i
tuoi capelli
• Amo davvero i tuoi
capelli
• Ecc.
Questo
è solo un elenco parziale, perché non riesco a
trovare
altra carta e sto finendo lo spazio. Ma spero che hai capito il
concetto.
Torna a casa.
Per favore. Ti amo più di quanto possa dire,
più di quanto possa dirti, quindi lascia che te lo mostri.
Torna a casa, e non
ti lascerò mai andare in frantumi. Ti terrò sano
e salvo, mio amore, mia vita,
mio cuore. Per favore.
Con amore,
John
Note
della
traduttrice:
In ritardo, ecco il quarto pezzo
della serie Letters,
prima di entrare nel vivo della storia, e in assoluto il mio preferito.
Non volevo pubblicare con
così tanto ritardo, purtroppo
il mio wifi ha deciso di smettere di collaborare e ho avuto
difficoltà a
trovare una soluzione che mi permettesse di postare. Sappiate che per
farmi
perdonare posterò il prossimo fra qualche giorno :D
Se c’è qualcuno
qui che segue l’altra traduzione ( e se
vi interessa, si chiama Ink Your Name Across My Heart ) sappiate che lo
stesso
problema l’ho avuto anche con quella e che
pubblicherò subito dopo questa. Due
storie stupende nella stessa giornata, infondo è un grande
affare.
Grazie a tutti per le recensioni,
appena avrò un attimo
di tempo risponderò a modo!
_opheliac