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Autore: Fannie Fiffi    17/04/2014    2 recensioni
Perché vivere per due anni senza Sherlock Holmes porta irrimediabilmente a situazioni sconvenienti.
[ Post Reichenbach; la cosa più strana che abbiate mai letto.]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Watson, Molly Hooper, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: Triangolo
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La logica non è sincera
 
Chissà se amare è una cosa vera.
 
 

 
« Ehi, John, il the è quasi pronto! »
Molly cercò di alzare la voce per farsi sentire oltre il getto dell'acqua calda che scrosciava pulita contro il corpo stanco del Dottore. Era appena tornato dal suo turno pomeridiano in ambulatorio e, come suo solito, si era fermato da lei per una doccia e un the caldo.
Era una routine che si era venuta a creare quasi per caso, involontaria, ma pur sempre gradita.
Era successo che una volta le tubature di Baker Street avessero ceduto (John viveva ancora lì, anche se Molly si chiedeva come facesse), probabilmente un guasto dovuto alla non propria modernità degli impianti, perciò la patologa aveva invitato l'ex soldato a usare la propria doccia.
 Ciò era accaduto una seconda e una terza e una quarta volta, fino a che tutto al 221B era tornato al suo posto, ma l'abitudine era rimasta.
Così John, tre volte a settimana, al pomeriggio usciva dall'Ospedale e si recava direttamente da Molly
 comunque più vicina alla struttura in cui entrambi lavoravano .
 Non c'era una motivazione valida per cui ciò accadesse con naturalezza e tranquillità per i due, succedeva e basta.

Erano appena passati due anni da quando Sherlock se ne era andato.
Per John, per sempre. Per Molly, per un tempo abbastanza lungo da farle passare ogni notte a fissare il telefono in attesa anche della più stupida direttiva.
 Erano passati due anni e la patologa non avrebbe potuto immaginare, non poteva proprio, che si sarebbe venuto a creare un rapporto così intimo, eppure era successo.
Era successo che, al finto funerale dell'uomo che amava da sempre, il suo migliore amico le avesse preso la mano. Non aveva detto niente e non aveva tentato di avvicinarsi ancora, aveva semplicemente intrecciato le dita alle sue più forte che potesse.
E Molly aveva ricambiato la stretta. Non si era chiesta come, perché, e poi?, aveva risposto al tocco e non l'aveva lasciato andare finché lui, ore dopo, non le aveva baciato la guancia e, senza dire una parola, si era allontanato sotto una pioggia tanto fitta da sembrare inghiottirlo.

« Ne ho proprio bisogno. » La voce di John la riportò con i piedi per terra, due anni dopo l'avvenimento più terrificante a cui entrambi avessero mai assistito.
« Cos'è che non può fare una bella tazza di the bollente? Ci ho messo due gocce di limone fresco, come piace a te. » Molly, il volto poggiato su una mano, avvicinò con l'altra la tazza a John e lo guardò illuminarsi. Era qualcosa che faceva senza rendersene conto, lei lo sapeva, ma era comunque una delle cose più dolci che avesse mai notato.
Bastava un piccolo gesto, un'attenzione al dettaglio, una preoccupazione per il pranzo e John Watson si illuminava come se da questo ne valesse la sua vita.
Si illuminava come se pensasse di non meritare le cure di qualcun'altro e, non appena gli venivano date, fosse improvvisamente felice di riceverle comunque.
E Molly non poteva fare a meno di chiedersi se esistesse qualcuno in quel mondo buio che meritasse più cure di John. Cominciarono entrambi a bere in silenzio, un silenzio caldo e accogliente, un silenzio a cui erano riusciti ad abituarsi in poco tempo.
 Era diverso da quello in presenza di Sherlock, una quiete fatta di aspettative e paura di dire qualcosa di sbagliato o non troppo intelligente.
In compagnia di John, Molly non aveva pretese e non sentiva di suscitarne.
Con John, Molly sapeva di poter essere se stessa e di avere qualcuno che la preferisse proprio per come era veramente. John Watson era l'amico migliore che avesse avuto in tutta la sua vita e l'unica amarezza stava nel constatare di averlo trovato solo a causa dell'evento peggiore che potesse capitargli.
 « Sai, questa sera mandano in onda la nuova stagione di Glee. Pensavo volessi vederla... Beh, potremmo vederla insieme. » John parlò con calma, sebbene la patologa avesse percepito un'esitazione sull'ultima parte della frase.
 « Certo. » Le parole volarono via con una semplicità inaudita, come se non ci fosse altra risposta possibile.
Molly sorrise e non si trattò solo di denti, si trattò di calore e affetto che l'abbracciavano in una soffice stretta.
« Però ordiniamo la pizza! »
 Entrambi scoppiarono a ridere ed entrambi, per un attimo, dimenticarono il casino che erano le loro vite. Esistenze che ormai non avevano contorni e limiti propri, perché troppo mescolate fra loro per essere distinta una dall'altra.
 


John era tornato a Baker Street per cambiarsi e per avvisare la Signora Hudson che non sarebbe tornato a casa per cena (dopo la morte di Sherlock si era instaurata una tacita promessa di mangiare sempre insieme, di trascorrere insieme quei pochi momenti di condivisione giornalieri), quindi Molly aveva tutto il tempo per sistemarsi e ordinare la cena.
Non che le importasse poi molto di come apparisse agli occhi di John, sapeva che non gli importavano il trucco, i capelli perfetti e i vestiti eleganti, ma ci teneva comunque a rendersi carina e quantomeno presentabile.
Non riusciva più a ricordare come fosse il loro rapporto prima di quello.
Prima c'era Sherlock, c'erano i suoi occhi e le sue labbra e la sua mente così invitante e qualsiasi cosa di lui ad occupare ogni momento della sua giornata e ogni centimetro quadrato della sua mente, impedendole di rendersi conto di tutto il resto che la circondava.
Fra lei e John c'era sempre stata una certa simpatia e non erano mancate le occasioni in cui avevano potuto chiacchierare ( gli esperimenti che gli faceva condurre Sherlock, invece, li ricordava benissimo), ma non erano mai riusciti ad andare oltre.
Ora... Ora le cose erano diverse.
Ora il medico faceva parte della sua quotidianità, di ogni suo giorno e abitudine, era ciò che la teneva aggrappata alla vecchia vita ed era ciò di cui sentiva di doversi prendere cura; per Sherlock, perché quello era ciò che lui voleva da lei. Era ciò di cui gli chiedeva notizie le rare volte in cui la chiamava, era ciò su cui voleva essere dettagliatamente informato. Nulla importava che a lei non avesse chiesto nemmeno una volta:" Come stai?"
 E poi perché non poteva esistere universo in cui non si riuscisse ad amare John Watson.
Era praticamente impossibile non farlo.
 Volere il suo bene era un istinto che Molly aveva sviluppato col tempo e che col tempo si era esteso, raggiungendo angoli del suo cuore che riteneva inaccessibili e che diventavano sempre più vasti.
Oramai poteva dire di conoscerlo alla perfezione: tutte le notti trascorse a passeggiare e conversare e comunque sentire in silenzio la mancanza di un uomo che entrambi avevano amato e che, in modi diversi, entrambi avevano perso.
Perché Molly non pensava che essere a conoscenza della verità fosse una benedizione, non pensava che sapere Sherlock sano e vivo fosse un sollievo.
Al contrario, con grande vergogna per se stessa era giunta a desiderare di non averlo saputo.
Desiderava poter essere andata avanti con la sua vita, sì, magari dopo aver pianto ed essere stata in lutto e aver pensato di cadere a pezzi, ma poi, col tempo, l'avrebbe comunque superato.
Così come John stava imparando a convivere con quella mancanza, ci avrebbe provato anche lei.
Eppure no, non era così che era andata, lei doveva fingere: fingere che Sherlock fosse morto, fingere che appartenesse solo al passato. Ma così non era, e la sua presenza
 che quasi sembrava un'assenza  non faceva che lasciarla sospesa, aggrappata a qualcosa di invisibile, inconsistente e fragile, tremendamente fragile.
Perché la sua vita non andava più avanti, si era bloccata al momento in cui lui le aveva rivelato che avrebbe finto di essere un ammasso di carne e sangue su un marciapiede.
E questo peso gravava sulle sue esili spalle giorno dopo giorno, attorniandola di una solitudine oscura, impedendole di aprirsi veramente con chiunque. Era l'obbligo di sopportare tutto quello da sola a toglierle ogni vitalità e ogni energia. Non sapeva da quale batteria riuscisse ad attingere tutte quella forza, ma sapeva che prima o poi si sarebbe esaurita. E lei sarebbe crollata, piegata sulle ginocchia e accartocciata su se stessa.
Cercò di scacciare quei pensieri dalla mente scrollando le spalle e dedicandosi alla scelta degli abiti. Indossò dei pantaloni neri e una canotta larga, sufficiente a coprirla abbastanza da farla sentire a suo agio ma al contempo tanto larga da lasciarle comodità nei movimenti.
Poi si avviò verso la cucina e cercò il numero della pizzeria italiana preferita da lei e John. Ecco un'altra cosa che adorava: le serate trascorse in quel locale.
Sprazzi di quotidianità e semplicità, di birre troppo grandi divise a metà, di risate e sì, anche di pianti (in fondo bastava anche un menù perché il ricordo di Sherlock colpisse il Dottore anche quando lui cercava di strapparselo via dalla mente).
Era una tradizione nata per gioco, "ti farò assaggiare la pizza alle alici più buona che tu abbia mai mangiato, Molly Hooper", e che con la stessa facilità si era ripetuta nel tempo.
 Quello era in qualche modo il loro locus amoenus, il ritaglio perfetto in cui potevano lasciarsi alle spalle la tristezza, i problemi, la frustrazione, il dolore lancinante e agghiacciante. Almeno per un paio d'ore.
« Salve, vorrei ordinare due pizze. »
 

Erano esattamente le otto e trenta quando, puntuale come sempre, il Dottor Watson aveva suonato il campanello del suo appartamento. La pizza doveva ancora arrivare, ma si sarebbe trattato ancora di pochi minuti.
« Chi si rivede! Entra. » Gli suggerì Molly accogliendolo con un sorriso. John ricambiò ed entrò nell'abitazione che ormai conosceva molto bene.
 Non sapeva dire esattamente come fosse iniziata l'amicizia fra lui e la patologa, quello di cui era certo era il fatto che ormai avesse sviluppato una certa dipendenza da lei. Ne aveva bisogno, vedeva in Molly l'unica che potesse comprendere la profondità del suo dolore e la sola di cui accettasse ancora la compagnia. Non voleva nessun altro.
« Sto morendo di fame, quand'è che arrivano le nostre pizze? »
Quasi non riuscì a finire la frase che il campanello suonò di nuovo.
Molly aprì la porta mentre era ancora voltata a sorridere verso l'uomo, poi si girò.
« Ecco la sua ordinazione. »
Il fattorino sembrava tremare. Le sue mani erano ferme, ma la sua figura sembrava vibrare indistintamente.
 « Tutto b... » Molly si interruppe quando l'uomo davanti a sé alzò il volto, fino a quel momento coperto da un cappellino, e la guardò dritta negli occhi. Il suo sorriso si spense.
« Sei forse uscito completamente di senno? » Sibilò così piano che, se non si fosse avvicinata di botto alla persona di fronte a sé, nessuno l'avrebbe sentita. Accostò la porta in modo che John non vedesse nulla e si guardò intorno: il pianerottolo era vuoto e silenzioso.
« Vedo che vi state divertendo. » La voce baritonale parlò con un'inflessione che le sembrò di fastidio e due occhi verdazzurri cominciarono a ispezionarla attentamente, deducendo più di quanto lei avesse il coraggio di dirgli. Improvvisamente si sentì nuda e si strinse nelle braccia.
« Sherlock, » abbassò ancora di più la voce, arrivando quasi a mimare il suo nome con le labbra, « non puoi stare qui. » Quanto le fecero male quelle parole non lo riuscì ad ammettere nemmeno a se stessa.
 Il consulente investigativo
 praticamente irriconoscibile  le porse le pizze con astio e, senza dire una parola, le voltò le spalle e se ne andò.
 Perché diavolo l'aveva fatto? Era forse successo qualcosa? Molly chiuse per un attimo gli occhi e fece un respiro profondo, cercando di ricomporsi e non far sospettare nulla a John.
 « Eccole! » Affermò rientrando nell'appartamento e lasciando fuori il pensiero di Sherlock a pochi passi da lei, così vicino da potersi e volersi buttare fra le sue braccia.
 
 

Un'ora dopo la cena si era conclusa e l'ex chirurgo militare stava lavando le poche stoviglie che avevano consumato.
 « John, davvero, non era necessario che li lavassi. Avrei potuto farlo io domattina. »
 L'uomo si voltò con la testa verso di lei e le sorrise genuinamente.
« Questo compensa il fatto che ci vediamo sempre a casa tua. Dovremmo stare più da me, ma anche in quel caso sarei io a lavare i piatti. »
Molly lo guardò per un attimo con concentrazione. Forse non se ne era reso conto, anzi sicuramente, ma aveva usato un tono strano. Come se fossero una coppia. O forse non era il suo tono ad essere strano, bensì il fatto che per lei l'idea non fosse risultata tanto ripugnante.
Si voltò, immediatamente imbarazzata da quel pensiero, e cominciò a sistemare il divano, prendendo le coperte e i cuscini necessari.
Quando John, pochi minuti dopo, ebbe finito di sistemare la cucina, si avviò verso di lei e si accomodò.
 Lei si trovava a un'estremità del divano ed era intenta a collegare il televisore e il videoregistratore, perciò il medico poté osservarla liberamente.
 I capelli lisci e lunghi che, pur spettinati, sembravano estremamente morbidi, il suo profilo regolare, il naso all'insù, i denti che mordevano inconsapevolmente il labbro inferiore per la concentrazione, il corpo minuto e delicato.
Molly era indubbiamente una bella donna, ma l'attrazione
 se così poteva definirsi  che suscitava in lui riguardava più i suoi modi di fare e di agire, il modo quasi materno e attento con cui si preoccupava di quanti la circondavano, la sua fragilità che celava una forza illimitata, una forza che le aveva permesso di superare... ciò che era successo meglio di quanto aveva fatto e continuava a fare lui.
Molly era ciò che gli aveva impedito di sbriciolarsi completamente quando tutto il suo mondo gli era sembrato cadere addosso e lui aveva rischiato di soffocare sotto le macerie per sempre. La sua amicizia era ciò che lo aveva salvato.
 Il suo costante supporto, i suoi abbracci calorosi, le sue parole che lo incoraggiavano a combattere (“sei o non sei un soldato, John? Lotta!”), tutto ciò che gli aveva donato senza volere nulla in cambio era stato ciò che lo aveva trascinato via dalla deriva.
 Una volta che condividi le lacrime con qualcuno, questi ti rimane dentro per sempre, che tu lo voglia o meno.
 E John lo voleva.
« Bene, è tutto pronto. » Molly batté le mani felice e in quel momento gli sembrò una bambina il giorno di Natale, piena dell'innocenza che la vita vera non riesce a scalfire.
Il soldato si sistemò meglio e anche lei, dopo essersi alzata per spegnere la luce, quasi si buttò sul divano, abbracciando un cuscino e coprendoli entrambi con il suo pail preferito.
Avevano appena superato i venti minuti della seconda puntata quando l'ennesimo sbadiglio di Molly echeggiò nella stanza. John, che non si era molto appassionato alla serie, la guardò intenerito e allargò il braccio destro.
 « Vieni qui » sussurrò. La patologa, troppo stanca per tenersi seduta in modo composto, accettò volentieri l'invito e si appoggiò leggermente al suo petto. Lui sorrise e, cominciando ad accarezzarle dolcemente i capelli, cercò di concentrarsi sul resto della puntata.
 Mentre teneva Molly stretta fra le sue braccia, gli parve quasi di rivedere se stesso che, un anno prima, si piegava sulle sue ginocchia e le piangeva addosso; non aveva provato la minima vergogna durante quell'atto così intimo, tutto ciò che aveva voluto era trovare un senso al suo dolore.
L'amica lo aveva accolto e gli aveva cominciato a sfiorare la nuca e a sussurrargli che sarebbe andato tutto bene, sciogliendosi però anch'essa in lacrime amare e silenziose.
Ed ora eccoli, due anni dopo, ancora lì, ancora insieme, l'uno a cercare di tenere insieme l'altra, di sopravvivere all'orrore che gli era capitato.
La patologa si era addormentata già da un pezzo quando John decise che era giunto il momento di tornarsene a casa. Sebbene l'amica non fosse stata di molta compagnia nell'ultima ora, era sempre meglio che passare del tempo a casa da solo e il calore umano lo faceva sentire bene.
 L'ex medico militare preferì non svegliarla, perciò la prese in braccio e la portò a letto. Le accarezzò un'ultima volta i capelli e poi andò a spegnere la televisione.
 


Molly, intontita e confusa per il sonno, aprì gli occhi nel buio della sua camera.
L'ennesimo incubo l'aveva terrorizzata e per un attimo fu disorientata e non capì dove si trovava, poi realizzò: John l'aveva portata a letto e non l'aveva nemmeno svegliata.
Spostò lo sguardo intorno alla sua stanza e le parve di vedere un'ombra seduta sulla poltrona ai piedi del suo letto.
 Non ebbe paura.
 « Sherlock? » Chiamò con la voce ancora impastata dal sonno e gli occhi socchiusi.
« Non so cosa mi sia preso, Molly. Non so come sia potuto succedere. »
 La sua voce era bassa, tenue, come se avesse perso tutto il suo vigore. Il consulente investigativo mosse leggermente la testa e si voltò a guardarla per la prima volta.
Sebbene lei non potesse vedere il suo viso, quel tono di voce non poteva che essere accompagnato da un'espressione di sofferenza.
« Sono stanco. » E Molly, ancora mezza addormentata e intontita, avrebbe davvero voluto dirgli di avvicinarsi e di stendersi lì con lei, ma che senso avrebbe avuto? L'aveva perso nel momento in cui lui si era lasciato cadere nel vuoto.
 « Perché sei qui? » Il dubbio nella sua voce era palpabile nell'aria.
« Sto tornando. » Fu tutto ciò che lui le rispose.
« Oh. »
« Dovrei essere io. » Fu un bisbiglio talmente sottile e stretto tra le labbra che la patologa pensò sicuramente di aver capito fischi per fiaschi, anche perché quella frase non sembrava aver alcun senso logico.
 « Cosa? » Domandò lei stropicciandosi gli occhi e alzandosi sui gomiti.
« Buonanotte, Molly Hooper. » E così uscì dalla stanza.
 
 
 
"La notte porta consiglio" dovrebbe essere rinominato il proverbio più falso della Terra.
Altro che consiglio, Molly si svegliò con una confusione tale da mandarle in pappa il cervello.
 In un attimo le tornarono alla mente gli avvenimenti della sera precedente: l'incontro sul pianerottolo con Sherlock, la cena con John, poi di nuovo Sherlock, Sherlock che la guardava dormire, che le aveva detto che stava tornando, che "doveva essere lui".
Che poi, se era davvero ciò che aveva affermato, cosa poteva significare?
 I pensieri che le affollavano la testa erano troppo pesanti perché potesse rimanere ancora a letto, perciò si alzò, si lisciò i pantaloncini che usava per dormire e si infilò la felpa di casa.
Aveva assolutamente bisogno di un caffè quindi si diresse verso la cucina; stava per prendere una tazzina quando un colpo di tosse la fece sobbalzare e la ceramica capitolò a terra, frantumandosi in mille pezzi.
Si voltò e l'unico consulente investigativo al mondo la guardò, seduto sul divano.
« Sei agitata. »
« Sei rimasto qui tutta la notte? »
I due si fissarono per qualche secondo da un lato all'altro della stanza, poi la patologa cominciò a ripulire il casino che aveva combinato.
Il silenzio di Sherlock fu una risposta sufficiente e Molly continuò a dargli le spalle.
 « Quindi stai tornando. Stai tornando davvero? »
 Ancora silenzio.
« John sta meglio. Sì, si sta decisamente riprendendo. In fondo sono passati due anni, è un tempo molto lungo. »
 senza di te, avrebbe voluto aggiungere.
« Ritengo che debba essere tu a dirglielo. »
 Sherlock si alzò e la raggiunse, appoggiandosi al bancone della cucina di fronte a lei.
« Come? No. Perché? »
 Non poteva credere che volesse davvero affidargli un incarico del genere. Un conto era falsificare dei documenti e rischiare la prigione, un conto era mentire a tutti per due anni e sopportare quel peso tutta sola, ma questo... No, questo non poteva farlo. Non poteva chiederglielo.
 « Hai accelerato il rilascio di dopamina, noradrenalina e feniletilamina nel corpo di John. »
 « Cosa? »
 « Si è innamorato di te. »
Molly rischiò quasi di strozzarsi con la propria saliva e, quando l'attacco di tosse passò e fu di nuovo in grado di respirare con una parvenza di normalità, parlò: « Ma non... Ti- ti sbagli... »
« Io non sbaglio mai, Molly Hooper. Vi ho osservati. Le vostre cene, » sputò fuori quella parola come se il solo pensiero lo disgustasse, « le uscite al cinema, le serata a casa a guardare quelle stupide e noiosissime soap opera, quel ristorante italiano. Potrò anche non provare amore, ma so riconoscerlo quando ne vedo gli effetti. E in fondo era prevedibile che le cose andassero così.  »
« Sherlock, che stai dicendo? »
« C’era un’altissima probabilità che sarebbe andata in questo mod… »
« Sei sempre stato tu! » Molly alzò improvvisamente la voce, allargando le braccia e fissandolo con gli occhi spalancati.
Il suo respiro cominciò ad accelerare e il moro si voltò di scatto verso di lei, aggrottando le sopracciglia.
« Non posso credere che… Io non… sei-sei sempre stato tu. Ma era così difficile. Era così, così difficile. Ero sola. Mi hai lasciata ad affrontare tutto questo da sola. Tu non c’eri più. Cioè, c’eri ma non c’eri nel modo in cui io avevo bisogno che tu ci fossi. Oddio… Io non so nemmeno come… Avevamo bisogno di te. »
Il minore degli Holmes continuava a fissarla senza riuscire a capire dove volesse andare a parare. Una qualsiasi altra persona si sarebbe soffermata su quelle parole, sei sempre stato tu, ne sarebbe stata lusingata, ma lui no.
C’era qualcosa di peggiore ad occupare i suoi pensieri. E forse aveva a che fare col fatto che Molly aveva parlato al passato.
« Ne sei innamorata, non è vero? » Le si parò davanti e la scrutò attentamente mentre lei arrossiva e abbassava la testa.
« Io… »
« La risposta non è poi molto difficile, Molly. Nemmeno per te. »
« Non lo so. » ammise infine con uno sbuffo esasperato, portandosi una mano sulla fronte e appoggiandosi al bancone.
« Polso accelerato. Respiro irregolare. Pupille dilatate. Maggiore sudorazione. Piacere. Euforia. Eccitazione. Vertigine. Calore.  »
« Smettila! Basta, smettila! »
« È questo che provi in sua presenza?  »
« Non farmi questo. » sussurrò e gli diede le spalle. Non poteva credere a ciò che stava succedendo, era tutto troppo paradossale perché fosse vero. La patologa cercò con tutta se stessa un minimo di amor proprio e di dignità per impedire alle stille salate in agguato di riversarsi sulle guance, ma non ci fu nulla da fare.
« Lui è il tuo migliore amico, » sussurrò singhiozzando e voltandosi un’altra volta verso il detective, « aveva bisogno di qualcuno. Aveva bisogno di sapere che l’avrebbe superato, che sarebbe stato di nuovo felice. E io ero lì, a piangere con lui, semplicemente perché tu non c’eri. Sì, sapevo che eri vivo, sapevo che non te ne eri davvero andato, ma io ero lì e gli stavo mentendo e lo stavo lasciando morire dentro. E… e non potevo permettere che accadesse. Capisci? Non provi niente per me, lo so, ma riesci a capire come potesse sentirsi lui? Io potevo… potevo farcela.  »
Si interruppe per asciugarsi il viso e poi ricominciò: « Potevo accettare che tu mi avessi lasciata. Potevo accettare che fosse lui tutto ciò di cui ti importava, potevo accettare di sentirti una volta ogni due o tre mesi, solo per sapere che c’eri ancora, ma non potevo lasciare che soffrisse in quel modo. Lui, Sherlock! La persona che ci ha sempre amati. Come potevo permettere che si distruggesse?
Tutto il resto è accaduto senza che ce ne accorgessimo. Ma tu lo hai fatto prima di noi, hai capito come stanno le cose.
E sì! Probabilmente ho ceduto al calore che mi dava sapere di non essere sola. Forse mi sono abbandonata. Forse… »
« Mi dispiace. » quel semplice bisbiglio fu in grado di mettere a tacere Molly. Lo sguardo sul volto di Sherlock era indecifrabile, ma la sua bocca contratta rivelava quanto lo avessero colpito quelle parole.
Rimasero a guardarsi per qualche momento poi, prima che la patologa potesse pensare a qualsiasi cosa, il moro si piegò su di lei e le posò un veloce bacio sulla guancia.
Quando si allontanò, qualche secondo dopo, lei non ebbe il coraggio di aprire gli occhi, ma percepì con tutta se stessa il suo corpo superarla e uscire dall’appartamento.
Non poteva andarsene così. Non poteva lasciarla – di nuovo – lì da sola, a piangere e a chiedersi perché tutto quello era dovuto capitare proprio a lei; non poteva metterle davanti la cruda e amara verità e andarsene.
Molly ripercorse mentalmente tutta la conversazione che aveva appena scambiato con l’uomo che aveva sempre amato, ed era saltato fuori che si era innamorata anche del suo migliore amico.
Perché era così, ora che ci pensava non poteva immaginare come potesse essere diversamente.
Si era innamorata di John.
Si era innamorata nel modo più sbagliato che esistesse; lo aveva fatto silenziosamente, inconsapevolmente, lo aveva fatto celandolo nel dolore, nascondendolo alla sua coscienza e ai suoi sentimenti per Sherlock. Perché lo amava ancora, certo, non c’era verso che lei esistesse e stesse al mondo senza amare Sherlock, perché a quel punto non sarebbe più stata lei.
Molly si rannicchiò su se stessa e quasi cadde sulle ginocchia, poi scoppiò in un pianto disperato. Dopo quelle che le sembrarono ore, finalmente si calmò e si strofinò gli occhi e le gote rossi, tentando di scacciare via tutto il nodo di emozioni che le si era bloccato al centro del petto.
A quel punto cosa avrebbe dovuto fare?
Rimanendo seduta per terra, simile a una bambina, sporse il braccio e recuperò il cellulare. C’era un’unica persona che avrebbe voluto al suo fianco in quel momento.
Senza alcuna esitazione compose il numero che sapeva a memoria e attese.










Note: Titolo e sottotitolo tratti dalla canzone Logico di Cesare Cremonini.
Oddio, non so che dire. Non so da dove sia uscita fuori questa pazzia. Beh, è solo un esperimento e spero di non aver creato troppi casini. 
Il finale è molto libero, nel senso che siete liberi di decidere voi chi abbia chiamato Molly, se John o Sherlock.
(Tanto lo so che tifate tutti Sherlock ;) )
Beh, insomma, non ho altro da dire. Lo sapevate che sono stramba, e se non lo sapevate... ora ne siete al corrente.
A presto! :)
  
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