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Autore: ChiaStyles97    26/04/2014    18 recensioni
23 Giugno 1936
“Non mi va di uscire con te” solleva impercettibilmente le spalle con ovvietà.

"Non mi conosci nemmeno" le faccio osservare, leggermente irritato.

So che le ho fatto perdere la pazienza, perché finalmente distoglie lo sguardo dallo schermo del cinema e si volta verso di me, mentre la sua bocca si apre ed io mi preparo ad essere ricoperto di insulti.

Ma qualcosa la blocca. I suoi occhi incontrano, per la prima volta, i miei. Vedo il suo sguardo indugiare qualche istante sulla mia bocca, per poi tornare a fissarsi nelle mie iridi verdi.
[...]
23 Giugno 1937
“Non voglio partire” mormora sulla mia pelle.
[...]
23 Giugno 1939
“Andrà tutto bene” singhiozza lei stringendomi a se, come se in questo modo potesse impedirmi di andarmene.

Andrà tutto bene.
[...]

23 Giugno 1940
Sto urlando.

Sto urlando, ma non riesco a sentire la mia voce.

Non riesco a sentire niente, a dir la verità.
Nemmeno il dolore alla gamba per il proiettile che mi ha colpito qualche minuto fa.
Mi sento come se avessi la testa sott’acqua.

Eppure continuo ad urlare il suo nome.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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"Like a drum baby don't stop beating 
like a drum my heart never stops beating 
for you, for you 
baby I'm not moving on 
I love you long after you're gone, gone, gone" 
 


23 giugno 1936


"Andiamo, Harry, lo sai che non è colpa mia se l'amica di Nancy non è potuta venire" dice Noah in tono di scuse mentre prende posto su uno dei sedili rossi accanto a me.
Odio andare al cinema, odio il calore asfissiante della gente che si riversa nella sala, odio essere costretto a rimanere seduto per quasi due ore a fissare delle immagini in bianco e nero che scorrono su uno stupido schermo.
"Ho soltanto detto che non sarà il genere di serata che mi aspettavo, tutto qui" faccio spallucce, cercando di allungare quanto più posso le gambe.
Diamine, questi posti sono davvero stretti. E poi fa un caldo atroce.
Mi guardo intorno annoiato, aspettando che il film inizi. La mia attenzione viene catturata da un gruppetto che sta cominciando ad occupare il poco spazio rimasto alla mia destra.
Una ragazza minuta mi si siede accanto. Non scherza o ride come fanno i suoi amici, si limita ad accasciarsi sul sedile e ad incrociare le braccia. Sembra quasi che sia stata trascinata qui, un po' come me.
Questa ragazza minuta è anche carina. La camicetta bianca è infilata nella gonna di un azzurro sbiadito che le arriva al ginocchio, gli occhi scuri con le loro lunghe ciglia sono fissi sulle scarpette blu che porta ai piedi, i capelli raccolti in una treccia che le ricade sulla schiena e in cima alla quale sono infilate due piccole margherite.
Noto le luci iniziare a sfumare, fino a che la sala non rimane completamente immersa nel buio e lo schermo del cinema si illumina.
Mi volto. Oh, perfetto, sembra che la signora che mi si è seduta di fronte abbia deciso di acconciarsi i capelli in stile lampadario. Non che mi interessi molto, ma mi innervosisce il fatto di non riuscire nemmeno a distinguere i nomi dei vari prodotti pubblicitari. È la parte più emozionante della serata, quella.
Sembra che qualcuno abbia organizzato un complotto per farmi odiare il cinema più di quanto non faccia già. Il tempo non fa altro che contribuire ad un incremento di quest'agonia.
Un bambino che inizia a piangere, la madre che tenta anche più rumorosamente di zittirlo, la voce di un altro uomo che tenta di zittire la madre che sta tentando di zittire il bambino.
Inizio quasi involontariamente a picchiettare con il mio piede sul pavimento di legno, nel tentativo di dare sfogo a quel nervosismo che mi costringe di tanto in tanto a prendere profondi respiri, in modo da impedirmi di iniziare ad urlare contro uomo, madre e bambino.
Alla mia sinistra non riesco nemmeno a distinguere quale sia il volto di Noah e quale quello di Nancy, tanto sono incollati l'uno all'altra. È come se al cinema ci fossi venuto da solo. Mi balena in testa la mezza idea di alzarmi e andarmene da questo posto, quando un altro rumore mi distrae.
Credo che la ragazza alla mia destra abbia appena sbuffato. Mi ero quasi dimenticato di lei.
Le sue braccia sono ancora conserte, e i suoi occhi fissi sullo schermo sembrano non vedere realmente le immagini che vi scorrono sopra.
Quasi senza pensarci, mi tendo quel tanto che basta verso di lei.
"Io sono Harry" sussurro a pochi centimetri dal suo orecchio, mentre appoggio il gomito sul bracciolo di legno del sedile.
La ragazza, quasi non mi abbia sentito, si limita a dischiudere leggermente la bocca, continuando a tenere lo sguardo concentrato di fronte a se.
"Tu come ti chiami?" insisto io, sempre a bassa voce.
"Vieni sempre al cinema ad importunare le ragazze?" vedo le sue labbra, rosse e a cuore, muoversi appena per sussurrare quelle parole.
"Qualche volta opto anche per il parco o il caffè qui di fronte" fingo un tono disinvolto.
L'ombra di un sorriso compare sul suo volto, ma in meno di un secondo quella bocca a cuore torna a ridistendersi.
I minuti trascorrono senza che nessuno dei due dica più niente.
Non posso fingere oltre di essere concentrato sul film, non mi piace, non m'interessa, non capisco nemmeno di cosa stiano parlando i due personaggi che in questo momento occupano la scena.
"Non mi hai ancora detto il tuo nome" torno a rivolgere la mia attenzione sulla ragazza dalle labbra rosse alla mia destra.
So che è seccata, perché con la coda dell'occhio la vedo alzare lo sguardo al cielo e arricciare il naso.
"Elisabeth" dice lei.
"Molto carino, ma preferirei mi dicessi quello vero" ridacchio, accennando con lo sguardo al piccolo ciondolo a forma di ‘G’ che pende dalla catenina dorata che porta al collo.
Un rossore improvviso le tinge le guance, mentre si morde colpevole il labbro inferiore. Continuo ad osservarla, divertito da quella impertinenza e da come la sua espressione sembri terribilmente indecisa.
“Gwen” la sua voce è appena udibile "Mi chiamo Gwen”
Gwen. Si chiama Gwen.
Non mi sforzo neanche di crederle, nonostante mi abbia già mentito una volta. È come se quel nome si addicesse perfettamente al suo viso, non so come spiegarmi.
"D'accordo, Gwen” ha anche un bel suono, mi piace pronunciarlo ad alta voce "Esci con me"
La sua bocca si dischiude senza che ne scivoli fuori alcuna parola. Sembra spiazzata, quasi non abbia capito.
"Come hai detto?" continua a mantenere lo sguardo fisso sullo schermo, nonostante si sia leggermente tesa verso di me, come se questa volta voglia essere sicura di sentirci bene.
"Un giorno di questi, esci con me" ripeto con tutta tranquillità.
Trascorrono parecchi secondi prima che la sua bocca a cuore si dischiuda di nuovo.
"Senti, Harry" fa attenzione a scandire bene il mio nome, sempre mantenendo la voce bassa, e questo mi fa un effetto strano "Sto cercando di seguire il film"
"Ti piace?" le chiedo.
Lei si limita ad annuire.
"È per questo che prima hai sbuffato?" ridacchio, osservando le sue guance tingersi ancora una volta di rosso.
Le sue braccia non sono più conserte, ed ora le sue dita si muovono a tormentare l'orlo della gonna azzurra.
"Esci con me" riprendo, come se niente fosse, questa volta dimenticandomi di abbassare il tono.
La signora con il lampadario in testa seduta di fronte a me si volta e mi scocca un'occhiata di ammonizione.
Non conosco nemmeno il motivo per cui io stia insistendo tanto, questa ragazza non l'ho nemmeno mai vista prima in paese. So solo che non mi dispiacerebbe rincontrare le sue labbra rosse e i suoi occhi verde scuro, una sera di queste.
"Non mi va" risponde semplicemente Gwen.
In questo momento credo di essere io quello a non aver capito bene. Non... Non le va?
"Come sarebbe a dire, non ti va?" inarco involontariamente un sopracciglio, osservando perplesso la sua espressione del tutto neutra.
"Sarebbe a dire che non mi va" solleva impercettibilmente le spalle con ovvietà.
"Non mi conosci nemmeno" le faccio osservare, leggermente irritato.
So che le ho fatto perdere la pazienza, perché finalmente distoglie lo sguardo dallo schermo del cinema e si volta verso di me, mentre la sua bocca si apre ed io mi preparo ad essere ricoperto di insulti.
Ma qualcosa la blocca. I suoi occhi incontrano, per la prima volta, i miei. Vedo il suo sguardo indugiare qualche istante sulla mia bocca, per poi tornare a fissarsi nelle mie iridi verdi.
"Esci con me" sento le mie labbra incresparsi in modo del tutto involontario in un sorriso sghembo.
"Voi due, volete stare zitti una volta per tutte?" sbotta una voce alle nostre spalle.
Gwen si riscuote, i suoi occhi tornano fissi sullo schermo della sala.
Sbuffo per quell'interruzione arrivata nel momento meno opportuno. Odio i cinema.


"Suvvia, Harry, il film non era poi così male" mi dice Noah.
"Tu che ne sai?" inarco le sopracciglia, cercando di simulare un'espressione di rimprovero "Non ti sei staccato da Nancy neanche un secondo"
"Colpevole" ammette lui, con un sospiro.
Noto che non riesce a trattenere un sorriso, mentre osserva la ragazza che trotterella felice al suo fianco.
So che Noah e Nancy litigano spesso, anche per le cose più stupide. Eppure, guardandoli, ho come l'impressione che non si lasceranno mai. Forse è una consapevolezza, più che un'impressione. Fin da quando eravamo bambini, non c'è mai stato Noah senza Nancy, o viceversa. Sempre inseparabili, anche dopo che lui la ricopriva di terra da capo a piedi e lei scappava da sua madre, piangendo e urlando che Noah era solo un cretino.
Non so se abbiano mai pensato all'idea di lasciarsi, ma credo che se provassi anche solo ad accennare ad una cosa simile mi guarderebbero entrambi come se fossi pazzo. Ma a me sta bene così, e poi da quando Isaac si è trasferito mi sono abbastanza abituato a fare il terzo incomodo.
Quasi ogni settimana Nancy cerca di rifilarmi una qualche sua amica. Credo di farle pena. Anche se al termine di ogni appuntamento a quattro finisce sempre con l'arrabbiarsi con me e darmi dell'insensibile. Ma non è colpa mia se le sue amichette sono così sciocche e insignificanti. Sembra che abbiano tutte questa ossessione di trovarsi il principe azzurro, sposarsi il prima possibile, sistemarsi e avere tanti bei bambini.
Diamine, non potete farmi discorsi simili al primo appuntamento, ho solo diciotto anni.


Respiro a pieni polmoni la tiepida aria estiva che mi investe non appena usciamo dal cinema. Finalmente, era quello che ci voleva dopo essere stato soffocato da quel calore insopportabile per quasi due ore.
Oltre le porte dell'edificio la folla si disperde silenziosa, ad eccezione di qualche bambino che protesta contrariato perché non vuole tornare a casa a dormire.
Io, Nancy e Noah imbocchiamo invece il solito ponte illuminato che ci porta verso il centro del paese.
Mentre cammino mi metto a canticchiare un motivetto che ascolto solo io, dal momento che gli altri due sembrano troppo presi a discutere su cosa fare in occasione del loro quarto anniversario, la prossima settimana.
Vengo distratto dalle voci concitate provenienti dall'altra parte della strada. Un gruppetto di ragazzi attende in fila di fronte alla gelateria e, all'improvviso, mi balena in testa una mezza idea.
"Ehi, un momento" rallento il passo, strizzando gli occhi per vederci meglio.
"Ci fermiamo per un gelato?" mi guarda interrogativa Nancy.
"No, è che..." distinguo la gonna azzurra e sbiadita, finché il mio sguardo si solleva su quelle labbra rosse "Quella ragazza"
Ormai sono praticamente fermo e, con le mani in tasca, tengo gli occhi fissi verso l'altro lato del ponte.
"La conosci?" Noah inarca un sopracciglio, rivolgendo lo sguardo nella stessa direzione.
"Diciamo che vorrei conoscerla meglio"
Sento un sorriso incresparmi le labbra mentre, quasi senza pensarci, attraverso la strada e mi dirigo verso quella camicetta bianca. È girata di schiena, ma posso vedere un ragazzo che non smette un attimo di parlarle, fastidiosamente vicino a lei.
Accelero il passo e, non appena le sono dietro, picchietto con le dita sulla sua spalla.
Sta ancora parlando con il ragazzo al suo fianco, ma, non appena si volta verso di me, sgrana gli occhi, e le sue parole si interrompono di colpo.
"Ciao”
Osservo divertito il cono gelato che stringe in mano, rimasto sospeso a metà della strada verso la sua bocca.
"E tu che diavolo ci fai qui?" la sua espressione è buffa, tra lo stupito e lo sconcertato.
"Volevo solo accertarmi che il nostro appuntamento di domani sera fosse confermato" le sorrido in tutta tranquillità, notando i suoi occhi spalancarsi ancora di più.
Ancora una volta sembra spiazzata, la sua bocca si dischiude, ma senza che ne scivoli fuori alcun suono.
“Gwen, chi è questo qui?" il ragazzo accanto a lei mi squadra con sguardo sprezzante "Lo devo mandare via?"
Inarco le sopracciglia. Questa volta sono io a rimanere spiazzato. Cosa crede di fare questo sbruffone alto un metro e venti?
"No, ehm... Va tutto bene, Edmund, me ne occupo io"
Edmund. Che nome da idiota.
Gwen gli consegna il suo gelato, ed io faccio soltanto in tempo a scoccargli una rapida occhiataccia. La mano di lei mi afferra il braccio, per poi trascinarmi lontano dal gruppetto dei suoi amici, accanto il muretto che accompagna la strada del ponte.
"Senti, coso" Gwen mi si para di fronte, incrociando le braccia e iniziando a fissarmi con sguardo serio.
Come mi ha chiamato? Coso?
"Harry" la interrompo, leggermente irritato "Mi chiamo Harry"
Davvero ha già dimenticato il mio nome?
"Bè sì, senti, Harry" riprende lei, ignorando la mia espressione "Non so se sei un maniaco, uno stupratore, uno stalker o cosa, ma, se non te ne vai subito, giuro che ti denuncio alla polizia" conclude, puntandomi l'indice al petto.
Quasi istantaneamente dalla mia bocca sfugge una risata che fatico a controllare.
Stalker? Stupratore? Maniaco? Diamine, volevo solo uscire con lei, e invece ora rischio pure di finire in galera. La trovo alquanto buffa come cosa.
Mi appoggio al muretto lì accanto, cercando di contenermi, mentre lei continua a fissarmi come se fossi un completo idiota.
"Senti, cosina" mi rivolgo a lei, provando a riprendere fiato.
“Gwen” mi interrompe, quasi sconcertata "Mi chiamo Gwen
Lo so che ti chiami Gwen, cosina. Ma ben ti sta, così impari a scordarti il mio nome in mezz'ora.
"Sì, bè, quello che è" riprendo, trattenendo un sorriso per quell'aria di sfida dipinta sul suo volto "Non sono uno stalker, non sono un maniaco, e, tanto meno, non sono uno stupratore. Volevo solo un appuntamento, tutto qui"
"Bè, non lo avrai" sbotta lei, sull'orlo dell'esasperazione "E ora, Harry, sei pregato di sparire e non farti più vedere"
La vedo scoccarmi un ultimo sguardo fulminante, per poi voltarsi e dirigersi verso il gruppetto di amici che ha abbandonato prima. Quell'Edmund non le ha staccato un attimo gli occhi di dosso. Irritante.
"Allora non mi lasci altra scelta!" le urlo, prima che si allontani troppo.
Senza nemmeno aspettare che si volti, mi arrampico sul muretto di pietra che fa da barriera al ponte.
Guardo giù. Ok, forse non è stata una buona idea. Anzi, è stata decisamente una pessima idea. Il fiume è lontano, saranno una ventina di metri. Inoltre soffrire di vertigini non aiuta un granché.
"Ma che diavolo credi di fare?!" mi raggiunge la voce di Gwen.
Mi volto, distogliendo lo sguardo dall'acqua che scorre più sotto, e noto con mia grande soddisfazione che sta tornando verso di me. I volti dei suoi amici sono tutti girati a guardarmi, mentre Noah e Nancy, ancora dall'altra parte della strada, si sollevano di scatto dalla panchina su cui si erano sistemati, cercando di capire cosa stia succedendo.
"Esci con me" il mio tono è tranquillo, mentre torno a rivolgere la mia attenzione alla ragazza che ora si trova distante solo di qualche passo.
"Tu... Tu sei pazzo" scuote la testa, senza distogliere lo sguardo da me neanche per un istante.
"Grazie" le sorrido, fingendo che il suo insulto sia in realtà una sottospecie di complimento "Quindi uscirai con me?"
"Io..." si morde nervosamente il labbro inferiore, sembra che non sappia cosa rispondere "Io non..."
Andiamo, non posso mica rimanere in piedi su questo muretto tutta la notte. E poi c'è anche un certo venticello quassù.
"No" le bocca a cuore di Gwen si dischiude a pronunciare quell'unica parola.
Il suo tono non sembra ammettere trattative.
"Bene" è l'unica cosa che riesco a dire.
Merda. E adesso?
Bravo, Harry. Ora sarai costretto a saltare, se non vuoi anche fare la figura del cretino che se la fa sotto dalla paura. Ma in che situazione ti sei cacciato? Solo per colpa di una ragazzina impertinente, maldisposta e viziata che non vuole uscire con te. Davvero, i miei complimenti.
Mentre mi volto, noto con la coda dell'occhio Gwen muovere qualche altro passo verso di me. È forse un'espressione preoccupata, quella che vedo sul suo volto?
Fisso il paesaggio notturno che mi si staglia di fronte, costringendomi a non abbassare una seconda volta lo sguardo. Ignoro le voci di Nancy e Noah che mi urlano qualcosa da lontano.
Trascorrono alcuni secondi che mi sembrano interminabili.
Prendo un profondo respiro e, cercando di non soffermarmi troppo sulle conseguenze, piego leggermente le gambe, preparandomi a saltare.
"Fermo! Fermo, va... Va bene!"
Sia ringraziato il cielo. È stata la voce di Gwen ad urlare.
Giro la testa, e la osservo guardarmi dal basso, appena sotto il muretto. Ebbene sì, quello stampato sul suo volto è proprio uno sguardo preoccupato.
"Va bene cosa?" insisto, con il tono di chi non ammette inganni.
"Va bene, uscirò con te" si morde il labbro inferiore.
"Promettimelo" succhiudo gli occhi, fissandoli in quelli verde scuro di lei.
La vedo indugiare palesemente qualche secondo. Decido di facilitarle la scelta, muovendo un piccolo passo in avanti.
"Lo prometto!" la sua voce si fa leggermente stridula "Lo prometto, uscirò con te! Ma ora scendi da lì!"
Vittoria.
Non me lo faccio ripetere due volte, e in un attimo mi ritrovo di fronte a lei.
"Domani sera" le dico, con un sorriso soddisfatto ad incresparmi le labbra "Ti passo a prendere in piazza alle otto"
Mi fissa con l'aria di chi vorrebbe strangolarti con le sue stesse mani. Sembra quasi pentita di non aver lasciato che mi buttassi nel fiume. Mi avvicino ulteriormente a lei, fino a che arrivo a sfiorare le sue braccia conserte.
"D'accordo?" sussurro, a un palmo dal suo viso.
La sua bocca si dischiude, mentre il suo sguardo scruta il mio viso, soffermandosi per qualche interminabile istante sui miei occhi. Annuisce piano.
"Claire, ti vuoi muovere?" la voce di quell'idiota del suo amico Edmund ci riscuote entrambi.
Prendo un profondo respiro, cercando di scacciare indietro l'impulso di andare a spaccargli quella faccia da ficcanaso che si ritrova.
Lo ignoro, tornando a rivolgere la mia attenzione a Gwen, anche se so che quell'intervento ha completamente distrutto l'atmosfera.
"A domani, allora" le sorrido vittorioso.
"Idiota" sussurra lei tra i denti, prima di voltarsi ed allontanarsi in direzione dei suoi amici.



23 giugno 1937


“Non voglio partire” mormora sulla mia pelle.
Ha la fronte appoggiata alla mia spalla, gli occhi socchiusi. Sento continui brividi percorrermi la schiena ogni volta che le sue labbra mi sfiorano il braccio.
“Sono solo due mesi” mi sforzo di sorridere, anche se non mi può vedere “Passeranno in fretta”
Faccio dondolare le gambe dal bordo del pontile di legno su cui siamo seduti, mentre le punte dei piedi sfiorano la superficie dell’acqua.
Sto cercando di rassicurarla, ma non mi è facile dato che anche il mio morale in questo momento è abbastanza sotto terra.
Sono solo due mesi, mi ripeto nella testa. Passeranno in fretta.
Mi sento come se stessi cercando di convincere me stesso, più che lei.
“Sono cinquecento chilometri” sospira e scuote piano la testa.
“Quattrocentosettantasei” la correggo “E, se mai ti capitasse qualcosa, il mio sesto senso lo saprebbe. Correrei da te, e in meno di cinque minuti sarei a Parigi”
Sento la sua risatina arrivarmi fin sotto la pelle, per poi sfumare fino a lasciare un silenzio interrotto soltanto dal ronzio di alcune macchine in lontananza.
Il suono di un campanile arriva ovattato alle mie orecchie, ma ci fa sapere che sono le sei di sera e ci ricorda che tra meno di due ore il traghetto di Gwen salperà per la Francia, e me la porterà via per sessantadue giorni.
Quando lei riprende a parlare, una sensazione di sollievo mi riscalda lo stomaco.
“Potrebbe capitare qualcosa a te
La sua voce arriva strozzata quando pronuncia l’ultima sillaba.
“Me la caverò” faccio spallucce, simulando finta modestia “A meno che il paese non sia invaso da scimmie o zanzare giganti, oppure sommerso da un’alluvione. In tal caso mi toccherà nuotare, anziché correre, per raggiungerti”
Farla ridere, scherzare, fingere di prendere questa situazione alla leggera. Sono le uniche cose che mi permettono di distrarmi dal fatto che trascorrerò i prossimi due mesi da solo. Cioè, senza di lei. Bè, Noah e Nancy non contano, perché loro ormai vivono in un mondo a parte. Quindi sì, è come se rimanessi solo.
“Oppure potresti innamorarti di un’altra ragazza”
La voce le si è ridotta ad un sussurro. Riesco soltanto a dischiudere più volte la bocca. Mi ha preso così in contropiede che non saprei come rispondere.
Rido. Rido perché è assurdo, rido perché mi sembra ridicolo che lei abbia pensato anche per un solo secondo ad una cosa simile.
Solleva la testa dalla mia spalla e finalmente la riesco a guardare in volto, e, anche se sto continuando a ridere, una fitta allo stomaco mi ricorda che non rivedrò le sue labbra rosse per un tempo che ora come ora mi sembra infinito.
Intanto Gwen mi guarda, con un sorriso incerto ad incurvarle le labbra e con gli occhi di chi è stato rassicurato, ma non del tutto. Allora le prendo il volto tra le mani, e lascio scorrere le dita ad unire quelle poche lentiggini che le cospargono le guance, e faccio l’unica cosa che in questo momento mi sembra sensata.
La bacio. La bacio perché non saprei come farle capire in altro modo che non potrei mai innamorarmi di un’altra, neanche se fosse l’unica rimasta al mondo, neanche se questa sera lei partisse e non tornasse più. La bacio perché non mi basterebbe una vita per amare un’altra ragazza tanto quanto ho amato lei in un solo anno.
Sento il sapore salato delle lacrime che le stanno scendendo silenziose lungo la pelle, la sento ridere sulle mie labbra quando le sussurro che, se lei si innamorasse di un qualche francese smorfioso di nome Lèon, o François, o Jacques, non esiterei un attimo a prendere il primo traghetto per la Francia e venire a Parigi a spaccargli il muso.
Poi le sue mani sottili cercano di spingermi verso l’acqua, e io all’inizio mi oppongo, ma la pancia mi fa così male dal ridere che alla fine mi arrendo e mi lascio cadere dal pontile.
Una volta in acqua la schizzo, e lei urla, e la sua risata è così bella che mi arriva alle ossa.
E quando anche lei si è buttata, nonostante entrambi siamo ormai del tutto fradici, iniziamo a bagnarci a vicenda, e io mi sto divertendo così tanto che mi è difficile rimanere a galla. Che poi è questo il nostro strano modo per dirci che ci amiamo.
Due mesi. Sono solo due mesi.



23 giugno 1938


“Mi vuoi sposare?”
La mano mi trema così tanto di fronte agli occhi che fatico a capire come la scatoletta rivestita di velluto blu non sia ancora caduta dal mio palmo.
Il ginocchio sinistro, poggiato a terra, inizia a farmi male. Qualche sassolino si deve essere frapposto tra l’osso e il terreno. É insopportabile.
Forse avrei dovuto scegliere un luogo migliore, un’ora migliore. Voglio dire, dieci secondi fa non l’avevo nemmeno programmato.
Da più di una settimana giravo con ‘sta scatoletta in tasca, tanto che ho più volte rischiato di dimenticarla da qualche parte, sul bancone del bar, piuttosto che sul tavolo da pranzo di casa di Noah, dopo averla mostrata a chiunque si trovasse nella stanza. Credo che tutto il paese ormai sapesse che questo momento sarebbe arrivato a breve. Bè, tutto il paese tranne lei, ovviamente.
E ora che questo istante è arrivato, mi chiedo se sia stata la scelta giusta.
Non mi riferisco alla mia proposta. Questa è la scelta migliore che potessi fare. Mi riferisco al fatto che casa sua è a una ventina di metri da qui, i suoi ci stanno probabilmente spiando dalla finestra, come ogni sera, ed è quasi mezzanotte, per cui è già tanto se riesco a distinguere i lineamenti del suo viso.
Non so cosa mi sia saltato in mente. So solo che è bastato che il suo braccio sfiorasse la mia pelle per farmi capire che in settecentotrenta giorni nessuna delle sensazioni che mi fa provare si è minimamente affievolita. Nemmeno dopo i due mesi che ci hanno tenuti separati, l’estate scorsa.
“Ridillo” un filo di voce scivola da quelle labbra a cuore, le sue iridi verde scuro puntate nelle mie.
Dio solo sa come faccia il suo sguardo a sembrare calmo e sconvolto allo stesso tempo.
“Mi vuoi sposare?” ripeto, e mi stupisco di quanto il mio tono suoni tranquillo, perché io invece non ho ancora smesso di tremare.
Noto che anche le sue spalle stanno tremando, tanto quanto la mia mano destra.
“Ridillo”
I suoi occhi mi percorrono, e mi sembra come a voler imprimere nella mente ogni dettaglio di questo istante, per cui decido di farlo anch’io.
Faccio scorrere lo sguardo sui suoi capelli scuri raccolti in una coda che le sfiora le spalle, sulle sue labbra dischiuse, sulle braccia sottili lasciate scoperte dalle spalline blu del suo vestitino.
“Gwen” cerco di scandire il suo nome “Mi vuoi sposare?”
Lo stomaco comincia a bruciarmi, e questo mi fa dimenticare del sassolino che mi sta pian piano perforando la pelle, o del fatto che il padre di Gwen sia appena comparso sulla soglia di casa sua, ed ora ci stia guardando con le braccia conserte e gli occhi severi.
Lei ha gli occhi lucidi, ma faccio appena in tempo a notarlo che la vedo iniziare ad annuire piano.
“Certo che ti voglio sposare, Harry”



23 giugno 1939


Studio il mio riflesso nello specchio del corridoio che collega il soggiorno alla cucina.
Dal cappello di stoffa fuoriesce soltanto qualche boccolo castano. Il colore della divisa che indosso mi ricorda gli occhi di Gwen, dello stesso verde scuro.
In un angolo dello specchio noto riflessa una figura minuta, con le spalle appoggiate al muro dietro di me.
Mi volto. Ha le labbra stirate in una linea perfettamente orizzontale, lo sguardo stanco.
Gli occhi incorniciati da profonde occhiaie violacee sono fissi su di me, ma non mi vedono veramente.
So che sono settimane che non dorme, o comunque quel poco sonno che riesce a prendere di tanto in tanto è un sonno agitato. Eppure la sua espressione ha un che di sereno mentre lascia scorrere distrattamente le dita sul pancione, che si intravede appena sotto la camicetta rosa pallido.
Mi avvicino a lei e la stringo piano tra le braccia, perché mi da l’impressione che, se stringessi più forte, potrebbe rompersi, fragile com’è.
“Andrà tutto bene” mormoro sui suoi capelli, e ancora una volta mi sento come se stessi cercando di convincere me stesso, non lei.
Abbandona le braccia lungo i fianchi, e percepisco i suoi singhiozzi sommessi contro il mio petto, dapprima appena udibili, poi sempre più forti e frequenti.
“Andrà tutto bene” ripeto, e spero che non mi abbia sentito, perché la voce mi si è spezzata a metà frase, e un sapore salato mi punge la lingua, e capisco che sto piangendo anche io, anche se non vorrei, non dovrei.
Non dovrei, perché so che se inizierò a piangere davvero, non riuscirò più a smettere, e lei non dovrebbe vedermi, perché così distruggerei anche quella poca speranza che le sta permettendo di non crollare. Eppure piango.
Piango perché non voglio partire, non voglio lasciarla. Piango perché non so quando tornerò. Piango perché inizierà a mancarmi nell’istante esatto in cui metterò un piede fuori dalla porta di casa nostra. Piango perché so che lei passerà i giorni ad aspettare che io torni. Piango per lei, per noi, piango perché il nostro bambino, o la nostra bambina, nascerà tra due mesi, ed io non sarò lì a stringerle la mano.
“Andrà tutto bene” singhiozza lei stringendomi a se, come se in questo modo potesse impedirmi di andarmene.
Andrà tutto bene.



23 giugno 1940


Sto urlando.
Sto urlando, ma non riesco a sentire la mia voce.
Non riesco a sentire niente, a dir la verità. Nemmeno il dolore alla gamba per il proiettile che mi ha colpito qualche minuto fa. Mi sento come se avessi la testa sott’acqua.
Eppure continuo ad urlare il suo nome. Noah.
Stringo la stoffa della sua divisa, così forte che vedo le nocche diventarmi bianche.
Un rivolo di sangue scuro gli cola dalla bocca, ma io so che si risveglierà. È questione di pochi secondi. Aprirà gli occhi, si metterà a ridere per la mia faccia sconvolta, e mi dirà che ci sono cascato. Lo farà, deve farlo. E poi ci incammineremo insieme verso l’accampamento, e come ogni sera parleremo con nostalgia del giorno in cui faremo ritorno a casa, fino ad addormentarci, esausti.
Mi dimeno con tutta la mia forza quando due paia di mani mi si stringono intorno alle braccia e cercano di trascinarmi via.
Sento delle voci arrivarmi ovattate alle orecchie, un mormorio confuso di parole che non riesco a distinguere. Continuo ad urlare di lasciarmi andare, perché Noah ha bisogno di me per rialzarsi.
Ma quando riapro gli occhi il mio sguardo si posa sul suo viso, e in questo momento capisco che non succederà.
Sul suo volto traspare ancora lo spettro dell’ultimo sorriso che mi ha rivolto, prima che quel proiettile lo colpisse, prima che lui cadesse a terra.
Lo guardo, ma non vedo la linea di sangue sul suo mento, o la macchia scura che continua ad allargarsi sulla sua divisa, all’altezza dello stomaco.
Vedo invece il bambino dagli occhi scuri che nell’estate del ’29 mi ha teso la mano quando ho rischiato di annegare nel torrente vicino a casa. Lo stesso bambino che due giorni dopo mi ha spinto dall’altalena, procurandomi la caduta dei due incisivi superiori. Vedo il ragazzo con cui ho trascorso tutti quei venerdì pomeriggio a scuola, per colpa di una punizione per qualche cosa che avevamo fatto insieme. Vedo quel giovane uomo che ho visto piangere solo una volta, in chiesa, sull’altare, di fronte a Nancy.
Smetto di urlare, smetto di dimenarmi. Mi limito a crollare a terra.



23 giugno 1941


“Vedi di non alzarti dal lettino, altrimenti mi toccherà chiamare il Dottor Rogers”
Prima di allontanarsi l’infermiera mi lancia uno sguardo di ammonizione. Sarà perché ieri mattina mi sono alzato e non sono tornato a stendermi sulla mia branda prima di sera. Non sono in grado di trascorrere un’intera giornata senza avere niente da fare, se non rimanere sdraiato a fissare il soffitto. In questo modo non riesco a distrarmi dai miei pensieri, e rischio di soffocare sotto il loro peso.
Mi sa che oggi mi toccherà ascoltarla, altrimenti la mia gamba non migliorerà, e Dio solo sa quando mi dimetteranno.
Mi sono spezzato il femore destro di netto. O meglio, mi hanno spezzato. Un soldato tedesco, con il calcio del suo fucile. Immagino che avrei dovuto ringraziarlo, visto che stava per spararmi. Era tenuto a farlo, ma tutti noi cerchiamo di evitare, quando ci è possibile. Ha preferito fermarmi in altro modo. Non mortale, ma altrettanto doloroso. Considerando il fatto che, prima di raggiungere i soccorsi medici più vicini, mi sono dovuto trascinare a terra per circa due chilometri.
Devo trovare un modo per distrarmi.
Allungo una mano verso la scatola di legno capovolta che mi fa da comodino e che condivido con un altro soldato.
Afferro la lettera e me la porto davanti agli occhi. La carta è giallognola e logora, ma il suo contenuto è ancora del tutto intatto. Ne estraggo i sei fogli coperti da cima a fondo della fitta calligrafia di Gwen. La data segna il dodici aprile, ma è arrivata soltanto una settimana fa. Chissà quante ne ha passate, prima di trovarmi.
Faccio scorrere lo sguardo lungo le mie frasi preferite. L’ho riletta così tante volte che ormai ho imparato a memoria a quale riga e su quale foglio si trovano.
Tiro fuori dalla busta di carta anche la fotografia e, quando me la trovo davanti, mi si inumidiscono gli occhi. É stata scattata sulla veranda di casa nostra, nello stesso giorno in cui Gwen ha scritto la lettera. Mi saltano all'occhio alcuni particolari che prima non avevo notato. Per esempio alcuni vasi di rose gialle e bianche, che una volta non c’erano. Oppure la tendina blu oltre la finestra della cucina.
Ma l’azzurro chiaro del legno che riveste la casa è sempre lo stesso. E anche lei. Anche lei è sempre la stessa.
Indossa una camicetta bianca che mi ricorda tanto quella che portava la prima volta che l’ho vista, al cinema. Sorrido ripensando al fatto che mi sono quasi fatto arrestare e mi sono quasi buttato da un ponte, per un appuntamento con lei. Sicuramente ne è valsa la pena.
Una manina è stretta intorno alla sua gonna. Daisy. Ha la stessa bocca a cuore di sua madre, ma alcuni boccoli le incorniciano la testolina bionda.
Sposto lo sguardo su un paio di occhi smeraldini che fissano confusi l’obbiettivo. Sembra di guardare una mia fotografia di quando ero piccolo. William. Ha la stessa altezza della sorella, ma i suoi capelli sono appiattiti dalla mano di Gwen posata leggera sulla sua testa.
Sorridono tutti e tre, e non si tratta di uno dei soliti sorrisi stirati da fotografia.
Mi chiedo se quando mi vedranno per la prima volta mi riconosceranno, mi chiedo se mi correranno incontro gridando papà.
Ho trascorso gli ultimi due anni a chiedermi quando sarei tornato a casa, e, soprattutto, se sarei tornato. In questo momento ho come la certezza che accadrà presto.



23 giugno 1942


“Vieni qui, principessa”
Afferro le sue piccole braccia e la sollevo da terra, per poi portarla a sedersi sulle mie spalle. É così leggera che quasi non la sento.
La ascolto ridere mentre poggia il suo mento sulla mia testa e le sue manine mi si affondano tra i boccoli.
Stiamo tornando a casa, ed il sole sta lentamente tramontando all’orizzonte. Il braccio di Gwen sfiora il mio ad ogni passo.
Mi guarda, sorridendo. Da quando sono tornato, a settembre dell’anno scorso, la colgo spesso ad osservarmi. Ed io mi scopro altrettante volte con gli occhi fissi su di lei.
Le cingo le spalle con un braccio, per poi poggiare le labbra sulle sue. Rabbrividisco. Sono così morbide.
Un verso di disgusto ci interrompe.
“Che schifo”
Ridacchio, notando Will davanti a noi osservarci dal basso con espressione scioccata.
Continuo a sorridere anche una volta che si è voltato. Will ha iniziato a parlare un mese dopo il mio arrivo. Gwen mi ha confessato che prima aveva spiccicato a malapena qualche parola. Era preoccupata. Ma ora capisce che Will aveva solamente bisogno di un padre.
Vieni fuori a giocare a palla, papà?
É stata la prima frase di senso compiuto pronunciata dalla sua bocca.
Quella volta mi sono quasi messo a piangere. É stato incredibile, perché credevo di aver ormai consumato tutte le lacrime, dopo il giorno del mio arrivo.
Torno a concentrare lo sguardo sul viso di Gwen, per poi farlo scendere sul fagotto che tiene stretto al petto. Deve aver notato il modo in cui lo sto guardando, perché due secondi dopo fa per porgermelo.
Sollevo le braccia e faccio scendere Daisy dalle mie spalle, nonostante le sue proteste e il suo sguardo contrariato. Un minuto dopo sta di nuovo sorridendo mentre osserva con sguardo contemplativo tutto ciò che la circonda.
Ora il fagotto si trova tra le mie, di braccia. É così piccolo che ho quasi paura di romperlo.
Scosto lentamente con un dito il lembo di coperta che ne tiene nascosto il volto.
Ha gli occhi chiusi, ma non mi serve vederli per ricordarmi che le sue iridi sono dell’esatto colore di quelle di Gwen. Verde scuro.
Faccio scorrere il dorso della mano sulla sua guancia, sempre facendo attenzione a non svegliarlo.
“Ciao, piccolo Noah” mormoro, guardando mio figlio.





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Hello! 

Ecco la mia prima OS!  
Se siete arrivate fino in fondo, complimenti per il coraggio! :D
Okay, bè, non aggiorno la mia FF da settimane... Mi reputo colpevole! 
Ma vi giuro, è stata colpa dello studio, delle vacanze che mi hanno un po' disabilitata, del fatto che in 'sto periodo non ho voglia di fare proprio niente. Poi se penso alle verifiche che mi aspetteranno una volta tornata a scuola, mi viene male. Okay, non ci devo pensare. 

Ma ritorniamo alla OS! 
Che ve ne pare? 
Per scriverla mi sono ispirata ad alcuni dei miei film preferiti: Le pagine della nostra vita (per la parte in cui Harry chiede a Gwen di uscire e per il nome di Noah -di quel figo stratosferico che è Ryan Gosling-), Manuale d'amore (quando le chiede di sposarlo e lei continua a dirgli di ripeterlo), Dear John, Restless... Confesso di amare i film strappalacrime, nel caso non l'aveste capito!
Inoltre ho scelto il nome Gwen dopo aver visto al cinema (due volte, lol) The Amazing Spiderman 2! Mi sono innamorata di quel film, lo giuro. Tralasciando il fatto che Andrew Garfield è un figo assurdo...
Quanto capperi è bello Dane DeHaan (Harry Osborn)!? Lo amo, giuro. Lo amo, lo amo, lo amo, lo amo. Se non avete visto il film, andateci solo per lui! 
Okay, sto divagando.

Spero davvero che mi lascerete un commentinoinoino, giusto per farmi sapere se vi è piaciuta la OS, se fa schifo, se devo cambiare qualcosa, o cose così. Vi prego, vi prego, vi prego! Spero anche di essermi fatta perdonare per il fatto che non aggiorno la FF da una vita (ma giuro che ho iniziato a scrivere il Capitolo 15!).

A prestissimo, bellezze <3 


Giulia 


 

  
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