Storie originali > Azione
Segui la storia  |       
Autore: fourty_seven    29/04/2014    3 recensioni
Se vi state chiedendo chi io sia... beh lasciate perdere non ne vale la pena. Tuttavia per coloro che sono ugualmente interessati posso dire che sono un ragazzo con dei "problemi".
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
“Allora cosa mi racconti oggi, figliolo”.
 
Ah, dunque... Ieri notte ho avuto un altro incubo, diverso dai precedenti, anche se il tema era uguale; eravamo io e Tom in piedi nel giardino di casa mia, stavamo parlando, ma non sentivo suoni, poi all’improvviso è risuonato uno sparo e il corpo di Tom si è accasciato al suolo. Io ho abbassato lo sguardo e ho visto che in mano tenevo una pistola. Che cosa significa dottore?.
Che cosa vuoi mai che significhi; sono stato io, io ho ucciso Tom, Jen e gli altri e ogni notte i miei sogni me lo ricordano. Sarei dovuto morire là, assieme a loro; invece sono tornato.
 
“Niente di nuovo dottore, è da un po’ che non ho più incubi” rispondo.
“Stai prendendo le medicine?”.
“Certamente, anzi me ne potrebbe prescrivere un’altra scatola, le ho quasi finite”.
“Ma certo”.
Mezz’ora dopo, quando esco da quello studio, appena trovo un cestino, butto la ricetta. Prendo il primo autobus e me ne torno a casa.
Appena apro la porta, mai madre mi corre in contro per sapere come è andata dal dottore. Mi invento una storia sul momento; le dico ciò che vuole sentirsi dire, così evita di preoccuparsi per me e mi lascia in pace. Quando ho finito mi rintano in camera mia, chiudo la porta a chiave e mi sdraio sul pavimento davanti alla porta a vetri, così che il sole pomeridiano mi illumini in pieno. Poi chiudo gli occhi e cerco di recuperare il sonno arretrato. Con il pensiero che domani ritornerò a scuola dopo due anni di assenza forzata.
 
Mi sveglio a sera inoltrata, il sole sta ormai tramontando e illumina tutta la stanza di un arancione scuro, quasi rosso.
Esco il più velocemente possibile da lì, sbattendo la porta dietro di me.
Non lascio la presa sulla maniglia, finché le mani non hanno smesso di tremare.
Odio questi momenti di debolezza, ma non posso farci nulla, non è una cosa che dipende da me; non è colpa mia se qualsiasi cosa che possa ricordare il sangue umano, sangue che io ho versato abbondantemente, mi manda nel panico.
Non è colpa mia se qualunque cosa mi possa ricordare quei giorni, mi terrorizza.
Non è colpa mia.
Sì, continua a ripeterti queste stronzate, prima o poi inizierai a crederci sul serio.
È colpa tua, è SOLO colpa tua.
TU hai ucciso; TU non ti sei fatto scrupoli ad ammazzare altre persone per poter sopravvivere, quindi ora non venire qui a fare l’innocentino, che si impressiona per un nonnulla!
Hai fatto quello che hai fatto, ora accettane le conseguenze.
 
Scendo al piano di sotto e immancabilmente mia madre mi aspetta di fianco agli ultimi gradini, per vedere se stia bene.
Posso capirla; non è stato sicuramente facile per lei sapere che il proprio figlio sarebbe potuto morire in ogni istante, morire lontano da casa, in una giungla senza nome, e magari non sapere mai cosa gli fosse successo veramente.
Non è stato facile sopportare questo pensiero per più di un anno, la capisco; tuttavia dopo un paio di mesi mi ero già stufato di questa sorveglianza continua, e ora è quasi un anno, da quando sono tornato.
Le voglio bene certo, ma non la sopporto più.
È anche per cercare di tranquillizzarla, che ho deciso di tornare a scuola; per tranquillizzarla e per non averla attorno per qualche ora.
Poi c’è mio padre; per fortuna non è così tanto ossessionato come mia madre, anche se è lui ad aver insistito affinché andassi dallo psicologo almeno tre volte alla settimana, è lui che nell’ultimo anno mi ha fatto visitare da non so quanti specialisti, spendendo migliaia di dollari; tanto sono soldi suoi.
Però c’è una cosa che mi da fastidio, molto più fastidio della petulanza di mia madre, ed è il fatto che sia fiero di me. Il tipico orgoglio americano, che Tom disprezzava tanto. È fiero del fatto che io sia riuscito a contribuire alla vittoria del nostro Paese nella guerra in India; è fiero del fatto che io, un semplice ragazzo di campagna, sia riuscito a tornare a casa, mentre molti altri veterani non ci sono riusciti.
Questo non riesco a capirlo. Mi rifiuto di capirlo; lui non era là, non sa cosa sia successo, non sa cos’abbia fatto, non ha la minima idea di che cosa sia la guerra, anche se continua a riempirsene la bocca, quando parla con i suoi amici.
 
Questa sera mia madre è più agitata del solito, e ciò perché domani sarà il mio primo giorno di scuola. Sì, effettivamente è il mio primo giorno dopo due anni; ma lei si comporta come se fossi ancora bambino, che per la prima volta, il giorno dopo, va a scuola. Ci manca solo che domani mattina mi accompagni in macchina.
Io, invece, mi comporto come al solito, e questo la preoccupa ulteriormente, perché teme che mi comporti allo stesso modo anche con le altre persone, cosa che effettivamente faccio. Non vedo il motivo di fingere di essere chi in realtà non sono.
Passo tutta la cena in silenzio, come al solito, guardando il cibo nel piatto e cercando di ascoltare il meno possibile la tele. Tra le tante cose, la televisione, e soprattutto i notiziari, non li sopporto più da quando sono tornato.
Dopo cena mi rinchiudo in camera mia pronto ad affrontare un’altra nottata di incubi.
Ormai mi sono quasi convinto che i miei incubi dipendano anche dal buio; al pomeriggio, quando mi addormento sotto al sole, non mi sembra di avere incubi. Invece di notte, al buio, non ho alcuna difesa contro i miei fantasmi che puntualmente tornano a trovarmi. Certo, basterebbe dormire con una luce accesa, ma non ho la minima intenzione di far capire hai miei genitori che ho paura del buio.
 
Al mattino ovviamente mi risveglio più stanco della sera prima. Questa volta non ricordo bene i sogni che ho fatto, meglio così. Almeno non continueranno a tormentarmi anche durante il giorno.
Esco di casa appena finito di mangiare. Non ho voglia di aspettare l’autobus, vado a piedi, tanto ho tempo, e poi spero di arrivare all’ultimo secondo per evitare il più possibile quelli che saranno i miei nuovi compagni.
 
Come programmato arrivo un paio di minuti prima dell’inizio delle lezioni. Entro in classe e cerco un posto vuoto.
In realtà la scuola è iniziata già da un mese, quindi non so dove potrò trovare posto. Spero in ultima fila.
Invece ne vedo uno in terza fila, di fianco alla finestra. Senza guardare gli altri, che comunque non sono molto interessati a me, vado verso quel posto.
“Scusate, quello è libero?” chiedo ad un gruppo di ragazze, che sono sedute nei banchi attorno; quelle smettono di parlare e mi fissano sorprese, poi una di loro esclama: “Ah, tu devi essere quello nuovo!”.
Quello nuovo.
Sbuffo e faccio per andarmene, quando un’altra parla: “Ehi, ciao!”. Guardo chi ha parlato: una ragazza, non molto alta, capelli rossi, non lunghi, ma voluminosi, occhi di un verde chiaro, un viso piccolo, con una spruzzata di lentiggini sul naso. Mi ricorda qualcuno, ma non saprei dire chi.
“Ehm...”.
“Non mi riconosci?” dice ancora.
“No, purtroppo no” rispondo.
“No?! Dai! Come puoi aver dimenticato i pomeriggi che passavi a casa mia a giocare al computer!”. E capisco chi mi ricorda.
“Sarah!”. Siamo stati vicini di casa fino a sette, otto anni fa, lei aveva il computer a casa, io no, a lei non piaceva usarlo, a me sì. Risultato: passavo tutti i pomeriggi a casa sua a giocare. Poi si è trasferita in un’altra città e non l’ho più vista; e questo spiega il perché non l’ho riconosciuta subito. È alquanto diversa adesso, rispetto a sette anni fa.
“Ti sei trasferita nuovamente, non lo sapevo?”.
“Ci siamo trasferiti l’anno scorso, ma tu eri...”.
“Via” concludo io per lei.
Ovviamente la speranza che non sapesse ciò che mi è successo era quasi nulla, dopotutto sono stato per mesi e mesi su tutti i giornali e in tutti programmi televisivi. Cioè, in realtà io mi sono sempre rifiutato di farmi intervistare ma, purtroppo, per molto tempo non hanno fatto altro che parlare di me.
Ovviamente l’accenno a ciò che mi è successo ha rovinato l’atmosfera; forse perché anche le altre mi hanno riconosciuto, non importa. Fatto sta che ora si stiano tutte guardando i piedi, imbarazzate. Tutte tranne Sarah, lei è sempre stata un po’ particolare.
“Avevi chiesto se il posto fosse libero, giusto?” inizia a parlare.
“Sì”.
“Beh, in realtà sarebbe di una nostra amica, ma per qualche giorno non verrà a scuola quindi, finché non aggiungeranno un banco, è tutto tuo!” mi sorride. E io ricambio, spontaneamente.
Per qualche istante rimango sorpreso di me stesso, non saprei neanche dire quando è stata l’ultima volta in cui ho sorriso spontaneamente. Poi mi siedo al banco nell’esatto istante in cui entra il professore. Per fortuna Sarah si siede nel posto accanto al mio, perché non ho la minima intenzione di fare amicizia o, comunque, di avere un qualunque tipo di interazione con le sue amiche e, più in generale, con le altre persone presenti in questa classe.
Il professore si mette a parlare.
“Scusa, che lezione è questa?” chiedo a Sarah.
“Storia” mi risponde mentre comincia a scrivere ciò che il tipo sta dicendo. Dato che sembra abbastanza interessata mi metto ad ascoltare anch’io.
“... Attualità. Dato che ieri ho scoperto il vostro interesse per la situazione internazionale in cui è inserito il nostro paese, ho deciso di dedicare la lezione di oggi ad un avvenimento recente che ci ha coinvolti direttamente come nazione, e su cui, magari, non tutti hanno le idee chiare. Naturalmente sto parlando della guerra che ormai è stata battezzata Guerra d’India”. Ecco perfetto, ero venuto a scuola per non ricordare, invece mi tocca sentire la storia dalla bocca di un estraneo ai fatti. Speriamo solo che non dica stronzate.
“Allora, la situazione allo scoppio del conflitto era la seguente, come sapete. Da qualche anno un nuovo e agguerrito gruppo terroristico aveva fatto la sua comparsa sulla scena internazionale. Si può dire che, rispetto alla tradizione, questo gruppo sconosciuto fosse molto più pericoloso degli altri, soprattutto perché il suo scopo era agire nell’ombra, commettendo attentati, ma agendo in modo da far ricadere la responsabilità su altre cellule terroristiche”.
Fin qua è vero, quelli erano dei bastardi senza morale; facevano esplodere bombe ovunque, aeroporti, ambasciate, scuole, posti casuali, senza un apparente scopo.
“Tuttavia, alla fine si è riuscito a individuare i veri responsabili degli attentati e addirittura a trovare la loro... base operativa si può dire, insomma il luogo in cui erano nascosti i capi dell’organizzazione”, a questo punto si alza e, con una bacchetta in mano, si dirige verso il planisfero appeso dietro di lui, poi con la bacchetta indica la valle del Gange. “Si riteneva che tale posto si dovesse trovare qui, lungo la valle del Gange, in India. Tuttavia questa zona, come potete vedere, è abbastanza ampia, quindi è stato deciso di inviare anche delle squadre con il compito setacciare la zona, per avere qualche speranza in più di trovare la loro base. Contemporaneamente a ciò, assieme ad altri paesi, abbiamo dato il via ad una massiccia invasione dell’India, con lo scopo di attrarre l’attenzione dei terroristi altrove. Purtroppo l’India e altri Paesi limitrofi non hanno rispettato gli accordi internazionali stabiliti, attaccandoci, cosa che ha dato origine ad una guerra, la quale, ovviamente, ha comportato dei costi immensi, in termini di perdite umane; ma ciò era finalizzato ad una giusta causa...”.
Eccolo; ecco un altro come mio padre, ad inneggiare la guerra, la ‘Santa Guerra’ contro i popoli nemici! Guarda, guarda come gli brillano gli occhi mentre ne parla, mentre parla dei ‘nostri ragazzi’, morti per salvare la patria! Ancora qualche istante e si metterà a piangere. Invece io ancora qualche istante e andrò a prenderlo a pugni.
Mi alzo, prendo la mia roba, tanto la prossima ora dovrò cambiare aula, anche se non ho la minima idea di dove debba andare, ed esco. Nessuno osa aprire bocca, il professore evita addirittura di guardarmi, e io ricambio sbattendo il più violentemente possibile la porta. Una cortesia per un’altra.
Vado in giardino, dove si trova un albero, non ho idea di quale specie, molto grande, con rami massicci che toccano quasi il suolo. Vado verso uno di questi, lascio cadere lo zaino a terra e ci salgo sopra. Appoggio schiena e testa al tronco, mentre lascio penzolare le gambe, poi chiudo gli occhi.
 
Questa volta siamo stati fortunati, abbiamo trovato un buon posto dove fermarci, una conformazione rocciosa, in parte naturale, in parte lavorata dall’uomo; infatti tra le varie piante rampicanti si indovinano i bassorilievi e altri segni del lavoro dell’uomo. Però quello che conta è che per una notte non dovrò dormire in un riparo improvvisato. C’è una specie di “grotta” in cui tre persone possono dormire tranquillamente; inoltre tra le rocce vi è una conca abbastanza ambia di terreno in cui si può accendere un fuoco, dato che le rocce stesse nascondono il bagliore delle fiamme ad occhi indiscreti.
Almeno così mangeremo qualcosa di caldo per una volta.
Mentre gli altri accendono il fuoco e cercano qualcosa da mangiare, io mi apposto di vedetta; il primo turno tocca sempre a me. E io, purtroppo, non ho abbastanza coraggio per protestare. Sinceramente ho abbastanza paura della giungla di notte.
Come la maggior parte delle volte, mi arrampico su di un albero in modo da aver una visione quasi completa di ciò che ho attorno, soprattutto del campo.
Appoggio schiena e testa al tronco mentre lascio penzolare le gambe. Il sole sta ormai tramontando, e qua, sotto le chiome degli alberi, è già abbastanza scuro. Dato che non abbiamo più torce elettriche, e anche se ce le avessimo di sicuro non mi azzarderei mai ad accenderla, non riesco a vedere che per pochi metri attorno a me; comunque diciamo che per svolgere il mio compito mi basta ascoltare, ascoltare i suoni della giungla. Ed è una cosa in cui sono diventato abbastanza bravo, dopo tutti i mesi trascorsi in questo posto, e che, infondo, mi piace. Soprattutto perché ho inventato una specie di gioco che mi aiuta a non avere troppa paura e mi diverte molto.
Tale gioco consiste nell’immaginare che i versi degli animali che sento siano parole. In pratica mi invento conversazioni fra gli animali attorno a me, conversazioni e storie su di loro. Molto probabilmente sto andando fuori di testa. Adesso alla mia sinistra ci deve essere un gruppo di scimmie, cinque o sei vecchie comare, che passano il tempo a sparlare dietro a tutti. Soprattutto oggi sono particolarmente infastidite da una partita di football che si sta tenendo alle mie spalle da cui proviene un fracasso infernale. Si deve trattare di un’amichevole fra due squadre locali di pappagalli o, comunque, di una qualche specie di uccelli locali. Sento le urla dei tifosi imbestialiti quando viene segnato un fallo inesistente.
Molto probabilmente l’arbitro è stato comprato dagli avversari, non potete farci nulla ragazzi, così è la vita!
Intanto sotto di me passeggia un’allegra famigliola di porcellini d’India, penso che siano la madre e i suoi quattro figli; Tommy, il più piccolo, è veramente terribile, non da mai ascolto a sua madre e la settimana scorsa ha rischiato di diventare lo spuntino di un cucciolo di tigre. Per fortuna tutto è andato per il meglio.
All’improvviso vengo scosso dalle mie fantasie da un cambiamento improvviso, gli uccelli si sono zittiti, o la partita è finita, oppure qualche pericolo si è avvicinato a loro, quindi è probabile che arrivi anche qui. Tendo l’orecchio ed effettivamente sento qualcosa muoversi nel buio, qualcosa di troppo rumoroso per essere un predatore notturno. Poi dei fasci di luce compaiono sotto di me. Torce elettriche, due torce in mano a due uomini, vedo che sono armati, AK-47 o, comunque, armi simili, non me ne intendo molto. Il fatto è che sono io a non essere armato; abbiamo troppe poche munizioni e ho preferito lasciarle a chi sappia usarle bene.
Però ora è un problema. Potrebbero trovare l’accampamento in cui i ragazzi hanno già acceso il fuoco che, anche se è coperto, non è totalmente invisibile, quindi potrebbero portarci via le poche risorse che ci rimangono, dato che al momento non c’è nessuno. È probabile che siano andati a cercare acqua o cibo, contando sul fatto che li avrei avvisati immediatamente in caso di problemi. Ma non ci sono riuscito.
Ovviamente notano i bagliori rossastri e si avvicinano alle rocce. Non ho più tempo, devo inventarmi qualcosa rapidamente. Mi sto per lanciare giù dall’albero quando vedo arrivare qualcuno. È Tom e ha in mano quella che dovrebbe essere la nostra cena. Fortunatamente si accorge immediatamente dei due uomini che, d’altra parte, fanno ben poco per cercare di essere silenziosi; riesce a nascondersi dietro una roccia, nell’esatto momento in cui i due arrivano nella conca in cui è stato acceso il fuoco.
Questi cominciano a confabulare tra loro indicando i nostri zaini e le nostre armi. Io continuo ad osservare la roccia dietro cui si è nascosto Tom aspettando qualche segno, qualche segnale che mi dica cosa fare. All’improvviso si vede un bagliore, uno scintillio di una lama colpita dalla luce delle fiamme, che punta verso di me. Messaggio chiaro.
Grido più forte che posso attirando la loro attenzione su di me e Tom agisce. Con un movimento veloce e preciso taglia la gola a quello più vicino a lui; poi si avventa sull’altro cominciando a colpirlo senza dargli tempo per reagire; continua finché il corpo dell’uomo cade a terra senza vita.
 
“Ehi, stai dormendo?”. Apro gli occhi e torno alla realtà.
È giorno, attorno a me non ci sono piante tropicali ma adolescenti in pausa pranzo, e di fronte a me c’è Sarah con il suo gruppo di amiche.
“Ti sei addormentato sull’albero?” mi chiede ancora.
“Beh, non proprio. Stavo solo riposando gli occhi” rispondo.
“Sì, certo, come no!” ribatte. Ancora una volta mi scappa un sorriso involontario. Due in un giorno? Vuoi vedere che forse venire a scuola non è stata una cattiva idea?
“Hai intenzione di stare lì ancora per molto, o ti va di venire a pranzare con noi?” chiede.
“Al pomeriggio abbiamo lezione?”.
“Certo, letteratura” risponde.
“Allora penso che me ne andrò a casa” concludo. Scendo dall’albero e mi incammino, ma qualcuno mi insegue.
“Senti, mi spiace per ciò che è successo questa mattina, penso che il prof abbia parlato appositamente della... Di quell’argomento, perché appena te ne sei andato ha chiuso il discorso. Lo sanno tutti che è uno stronzo...” comincia a parlare Sarah.
“Non ti preoccupare, non sto scappando. Domani torno. È letteratura che non riesco proprio a sopportare!” dico cercando di avere un tono allegro, ma è un tentativo patetico. Comunque lei decide di non insistere.
“Okay. Allora ci vediamo domani! Tengo il posto riservato per te?”.
“Certamente, ciao!”. Ed esco dal cortile della scuola.
Vago per un po’, poi mi ritrovo nel posto che in questo ultimo anno ho frequentato di più, un piccolo parco con un laghetto artificiale. Mi vado a sedere sulla solita panchina salutando Fred, un barbone che vive qui. Siamo diventati ottimi amici, ci capiamo al volo senza nemmeno bisogno di parlare. Anche perché nessuno dei due ne ha voglia. Passo il pomeriggio così, seduto a guardare le anatre nuotare nel lago, a guardare i bambini giocare attorno a me, ad ascoltare le conversazioni dei loro genitori.
Ho una specie di coprifuoco per le sette di sera, nel senso che se non sono tornato a casa per le sette mia madre comincia ad andare fuori di testa pensando che abbia fatto chissà quale stupidata; in sostanza ha paura che mi possa buttare giù da qualche ponte, oppure sotto qualche autobus. Così cerco di essere sempre puntuale.
La serata trascorre tranquilla, cioè tranquilla per i miei standard. Poi me ne vado a dormire.
  
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Azione / Vai alla pagina dell'autore: fourty_seven